domenica 24 gennaio 2016

Corriere 24.1.16
Il banchiere di Davos sceglie di affidarsi ai poteri dello stato
Tutti sono socialisti senza saperlo e identificano istintivamente il benessere collettivo con il proprio. Sperano sempre nel sostegno indispensabile delle banche centrali
di Federico Fubini

Arrivato il quarto giorno del World Economic Forum, mentre i banchieri chiamano gli autisti per andare in aeroporto e il centro congressi inizia a svuotarsi, diventa difficile scacciare a un sospetto: l’uomo medio di Davos è un socialista e ancora non lo sa.
Socialista nella sua definizione originaria, naturalmente. Non un sovversivo. Solo una persona che si affida ai poteri dello Stato per assicurare il benessere collettivo, che l’uomo di Davos istintivamente identifica con il proprio. Poteri dello Stato qui sta per banche centrali. E uomo di Davos sta per esponente di quel peculiare gruppo di banchieri, gestori di fondi d’investimento, dirigenti di grandi gruppi quotati a New York o a Londra che ogni anno a fine gennaio si ritrova nell’esclusivo villaggio alpino della Svizzera. Questa abitudine per loro è un risparmio di tempo, fra gli altri vantaggi, perché concentrano decine di incontri d’affari in pochi giorni ai margini di una serie di dibattiti pubblici spesso stimolanti.
Quest’anno però l’appuntamento è arrivato in un momento diverso dagli altri. Come ha osservato Tidjane Thiam, l’amministratore delegato di origine ivoriana del Crédit Suisse, per i mercati finanziari è stato il peggiore inizio d’anno di sempre. Peggio del 2009, quando il mondo era in recessione e l’economia americana cadeva a un ritmo simile a quello che poco dopo avrebbe travolto la Grecia. Peggio del 1931, quando i crolli di Wall Street partiti sedici mesi prima stavano portando a una crisi bancaria in Europa e all’agonia della Repubblica di Weimar.
Quest’anno i mercati finanziari sono crollati più di così. Ma se c’è un dettaglio che ha rivelato la fede socialista nell’uomo di Davos, è che ha continuato a sorridere. Non si sono visti i volti sotto choc del 2009. L’uomo di Davos nel 2016 non parla in pubblico del fatto che la recessione del Brasile è la peggiore da cento anni, che la Russia è in avvitamento o che negli ultimi otto anni le imprese cinesi si sono caricate di un debito più che triplo rispetto alle riserve da tremila miliardi di dollari della banca centrale di Pechino.
L’uomo di Davos resta ottimista di fronte alla crisi di debito spostatasi nei Paesi emergenti, fonte di tre quarti della crescita globale dell’ultimo decennio. Spera ancora nel sostegno dei poteri pubblici delle banche centrali. Senza di esse gli investitori hanno dimostrato di non saper camminare neppure per due settimane. Il tre dicembre scorso la Banca centrale europea li aveva delusi immettendo meno denaro del previsto nei mercati finanziari. Il 16 dicembre poi la Federal Reserve aveva alzato per la prima volta da nove anni i tassi d’interesse negli Stati Uniti e i suoi esponenti di vertice continuano a prevedere quattro ulteriori rialzi per quest’anno. I mercati stimano a meno dell’uno per cento le probabilità che succeda davvero, ma dal primo gennaio non hanno fatto che crollare.
Il socialismo, e il nervosismo, del popolo di Davos è emerso quando si è trovato di fronte agli uomini senza i quali ha dimostrato di non saper vivere: i grandi banchieri centrali, l’incarnazione dello Stato secondo loro. Giovedì la platea ha reagito in trance a ogni parola e gesto di Mario Draghi. Teneva il fiato sospeso, concentrata su un solo uomo. Il presidente della Bce aveva appena salvato la settimana dei mercati, lasciando capire che potrebbe intensificare gli interventi sui mercati da marzo prossimo. Non che Draghi si sia lasciato ricattare dai crolli degli indici, ma ha preso atto che la posizione di oggi della Bce non basta a scongiurare il rischio di un avvitamento dei prezzi. Dovrà fare di più.
Ieri poi è stato il turno di Haruhiko Kuroda, il governatore della Banca del Giappone. È colui che più di ogni altro si sta addentrando in acque inesplorate. Ormai quasi metà dell’astronomico debito pubblico di Tokyo è nel suo bilancio, acquistato creando sempre nuova moneta. Ma Kuroda non si è nascosto. Ha detto che se lui e Draghi non continuassero a inondare di denaro l’economia globale, l’impatto sui mercati della stretta monetaria della Fed sarebbe anche peggiore. È stato il suo modo di riconoscere la condizione medica di dipendenza della platea: quasi diecimila miliardi di dollari di liquidità in più creati dal 2008 l’hanno portata a questo punto.
Poi Kuroda ha sfidato il vero tabù di Davos per quest’anno. Ha osato parlare della crisi cinese. Forse serviva un giapponese per farlo, ma ha detto che Pechino dovrebbe introdurre stretti controlli per arginare la fuga di capitali in corso dalla Repubblica popolare. «È un’opinione personale», ha aggiunto quasi a scusarsi. Forse intuiva anche lui l’altra ragione per la quale l’uomo di Davos oggi è un vero socialista: per il futuro dell’economia globale, per il proprio, è ridotto a sperare nel successo dell’ultimo grande regime cresciuto all’ombra di una bandiera rossa.