Corriere 24.1.16
Gli istriani
Slovenia-Croazia, il filo spinato separa gli italiani dagli italiani
Per millenni questa gente aveva vissuto la sua terra come uno spazio unico
di Gian Antonio Stella
C’è
il filo spinato, adesso, su quello che doveva essere «un confine di
seta». E Mario Beluk, che come tanti istriani porta un cognome slavo ma è
italiano e parla italiano e appartiene alla minoranza italiana, non si
dà pace.
«Ce l’hanno sbattuto sul muso» il filo spinato, sbotta
Mario. Era andato a caccia, quel giorno: «Mi telefona l’Emilia: “Papà,
torna a casa di corsa!” Torno e trovo sui miei campi duecento operai,
poliziotti, ruspe, caterpillar... Chiedo: “Ma come, a casa mia?!” Niente
da fare. Neanche scusa, mi hanno chiesto. E adesso siamo qui,
prigionieri».
Non era mai esistito quel confine attuale sul
Dragogna, il fiume che dalla Savrinia scende al mare, sfociando nel
Vallone di Pirano attraverso le saline. Non sotto i Romani né sotto gli
Ostrogoti né sotto i Bizantini e poi il patriarcato di Aquileia e
l’Esarcato di Ravenna e Carlo Magno e giù giù per secoli e secoli sotto
Venezia e poi Napoleone e l’Impero austro-ungarico e il Regno d’Italia e
l’ Adriatische Kustenland nazista e il Territorio libero di Trieste e
la Jugoslavia di Tito... Mai.
E per millenni gli istriani avevano
vissuto la loro terra come uno spazio unico, aperto, indiviso. E avevano
amato l’Istria, fino all’impazzimento e all’odio fratricida e alle
foibe e alle pulizie etniche degli anni Quaranta, proprio per questo suo
essere terra plurale. Capace di donare alla cultura veneziana e
italiana musicisti come il violinista Giuseppe Tartini, medici come
l’inventore del termometro Santorio Santorio, intellettuali all’epoca
celeberrimi come l’illuminista Gian Rinaldo Carli. E qui vissero artisti
come Vittore e Benedetto Carpaccio e altri ancora.
Senza
dimenticare, in tempi più vicini, scrittori quali Fulvio Tomizza, papà
italiano e mamma slovena, che nel romanzo Materada (1960) raccontò lo
sfacelo sanguinoso nel suo piccolo mondo antico. La contrada dov’era
nato e dove da sempre i vicini di casa di lingua diversa si erano
prestati lo stesso rastrello e si erano sposati nelle stesse chiese e
avevano brindato agli stessi battesimi. O poeti della musica come Sergio
Endrigo, autore di versi struggenti sulla sua Pola, abbandonata dopo la
guerra per prendere la strada dell’esodo: «Da quella volta non ti ho
rivista più/ Strada fiorita della gioventù/ Come vorrei essere un albero
che sa/ Dove nasce e dove morirà…»
Il primo trauma arrivò alla
fine di giugno del 1991, quando la signora Anna Del Bello Budak, che
aveva casa a poche decine di metri dal Dragogna ed era a tavola con la
famiglia, sentì un rumore assordante. Corsa fuori, vide le ruspe
irrompere nel suo orto di piselli, sradicare centotrenta alberelli
carichi di pesche, rovesciare tonnellate di ghiaia sulle piante di
patate. La gente intorno ricorda ancora lo scontro con i poliziotti:
«Fermi! Fermi! Cosa fate?»
«Ordini superiori».
«Non potete farlo!».
«Ordini superiori».
«Mostratemi le carte!».
«Ordini superiori».
All’arrivo
dei cronisti Matia Potocar, il direttore del cantiere, ridacchiava: «Un
posto di frontiera? Ma no, è solo un punto di sosta per i camion». E
davanti alle perplessità di tutti, giurava: «Solo cestna . Capito?
Ristrutturazione cestna : strada». Poche ore dopo, per la prima volta
nella storia, sul curvone dell’antica via Flavia tracciata nel primo
secolo dopo Cristo dall’imperatore Vespasiano, c’era un confine. Di qua
la Slovenia, di là la Croazia. Stati sovrani. Alla Milicja di
Capodistria facevano dei gran sorrisoni: «Sarà un confine dimostrativo. I
cittadini dell’attuale Jugoslavia circoleranno liberamente...».
Pochi
mesi e già le comunità che vivevano lungo il Dragogna raccontavano
storie da incubo. Come quella di Duilio Visentin che, colpito in terra
croata da una gravissima emorragia e caricato su un’ambulanza per una
corsa disperata verso l’ospedale di Isola, era stato fermato al confine
sloveno: «Documenti!».
«Mio marito sta morendo».
«Documenti!».
«Muore!».
«Documenti!».
O
la storia di un funerale a Villa Cucini, una contrada sulle alture: il
nuovo confine aveva collocato il paese in Slovenia, la chiesa e il
cimitero in Croazia. Impossibile seppellire il nonno nella tomba di
famiglia: «Il lasciapassare? Ce l’avete il lasciapassare?». Per non dire
d’un incendio a Bresovizza coi vicini di casa che si precipitavano
generosamente coi secchi e i badili a dare una mano al di là del confine
appena inventato: «Altolà! Documenti».
«Maledetti tutti i
nazionalisti!», imprecava il vecchio Virgilio Babich. Non si era mai
mosso dalla casetta in cui era venuto al mondo in contrada Mulini. Mai.
Eppure era riuscito a cambiar tre volte passaporto: nato italiano di
sentimenti italiani, era diventato poi sloveno e infine, per uno
spostamento amministrativo, cittadino di Umago quindi croato: «Dopo la
guerra ero deciso a venire in Italia. Papà scoppiò a piangere: “E io
cosa faccio? Sono vecchio…”. Mi fermai. Me ne sono pentito sempre».
Quel
nuovo confine gli era insopportabile: «Ho un po’ di terra di qua e un
po’ di là, la luce mi arriva da Buie in Croazia, e l’acqua da
Capodistria in Slovenia, la pensione finisce nella mia vecchia banca in
Slovenia, ma non posso portarmela qui perché esporterei capitali…».
Insomma,
pasticci, disagi, angherie insopportabili. Per un quarto di secolo la
comunità italiana sopravvissuta in Istria, spaccata dal nuovo confine
proprio mentre riscopriva la propria identità dopo gli anni bui del
comunismo titino, ha sperato, atteso, sognato che quella frontiera,
divenuta addirittura più rigida dopo l’ingresso della Slovenia nella
Unione Europea, diventasse davvero di seta dentro la grande madre
Europa.
Macché. La pressione alle frontiere delle masse di
profughi in fuga dal Medio Oriente ha fatto precipitare tutto. E
Lubiana, dimentica delle decine di migliaia di slavi in fuga dal regime
comunista accolti allora anche dall’Italia come Paese di transito verso
altre mete, ha steso lungo il confine croato chilometri e chilometri di
filo spinato. Uno shock.
La nostra comunità ha protestato. E
mentre depositava fiori lungo quelle matasse di filo spinato, ha scritto
al premier sloveno Miro Cerar una lettera accorata. Dove, «pur
riconoscendo l’eccezionalità della situazione» bolla come inaccettabile,
«dopo le drammatiche vicende del Ventesimo secolo», l’erezione di una
nuova cortina di ferro. Destinata pare a essere ulteriormente
rafforzata. Una barriera che ai più vecchi fa tornare in mente gli anni
in cui si sentirono, di giorno in giorno, chiudere in una morsa. Fino a
sospirare sull’addio cantato in una poesia da Arturo Daici: «Adio vojo
dirghe a la caseta/ Dove che go pasà la gioventù/ adio a questa tera
benedeta/ perché se vado no te vedo più...».