Corriere 22.1.16
I compiti di Bruxelles e i nostri
di Alberto Alesina
Matteo
Renzi ha un modo diretto e schietto di affrontare le questioni, eva
bene. Ma un conto è la schiettezza, altro parole chesi tramutano in
inutili e intempestivi attacchi all’Unione Europea. Le istituzioni di
Bruxelles sicuramente hanno bisogno di un serio ripensamento: sono
atrofizzate da regole fatte spesso rispettare in modi discutibili; sono
lente nel rispondere alle crisi; hanno una divisione di ruoli e di
poteri tra Paesi da rivedere; la burocrazia europea va snellita (cosa
facciano i parlamentari europei non è chiarissimo ai cittadini);i
problemi dei flussi migratori sono stati gestiti male e in modo iniquo. E
questi sono solo alcuni esempi. C’è molto da fare e anche a Bruxelles
lo sanno.
È vero che il premier si fa portavoce di sentimenti
diffusi: i sondaggi dicono che in Italia vi è crescente antipatia nei
confronti dell’Unione Europea, l’euro e la Bce. Nel 1973 l’80% degli
italiani erano favorevoli alla Ue (la percentuale più alta tra i Paesi
membri), oggisi è dimezzata: siamo al 40 per cento. Il 35 per cento
degli italiani vuole uscire dall’euro e tutto questo ha trascinato
persino la fiducia nella Bce, arrivata al 30per cento (dati tratti da
Guiso, Sapienza e Zingales, 2015, Monnet’s Error? )
È importante
interrogarsi su «quale Europa» vogliamo, se ne deve parlare ma dopo la
tempesta sui mercati. La costruzione dell’Unione va rivista a bocce
ferme, e, come i mercati dimostrano in queste settimane, le bocce sono
tutt’altro che ferme. Anzi, sembrano impazzite.
Le bocce italiane,
in particolare, è da tempo che sono in movimento. Nel novembre 2011 con
uno spread sui Bund tedeschi che tendeva ai 600 punti stavamo per
entrare in una crisi da debito sovrano che avrebbe potuto farci
precipitare in un baratro e far saltare l’euro. Il governo Monti fu
chiamato a evitare una possibile catastrofe. Queste colonne lo hanno
criticato per come lo ha fatto, alzando tasse senza tagliare la spesa,
ma in qualche modo lo ha fatto. L’intervento della Bce ha permesso la
discesa degli spread e la riduzione del costo del debito. Da allora le
cose sono migliorate in Italia, ma non abbastanza. La spesa non è scesa.
La privatizzazione delle imprese municipalizzate non sembra più una
priorità. Il debito pubblico era al 116% nel 2011 e per il 2016 è
previsto al 130%.
Certo, ci vuole del tempo perché il debito cali
soprattutto in un’economia che cresce poco: ma non siamo fuori dal
guado. E le banche italiane, fra l’altro piene di debito pubblico nei
loro attivi, hanno problemi seri, ovviamente non tutte. Ma perché lo si
scopre solo ora? Si è stati troppo lenti. Mentre altri Paesi agivano sui
loro istituti, grazie proprio a una maggiore salute dei loro conti
pubblici e con interventi di risanamento nell’arco di tempo concesso
dalle regole dell’Unione, noi abbiamo aspettato come se sperassimo che
il problema dei crediti bancari in difficoltà si risolvesse da solo.
Cosa non facile, vista la gravità della recessione che abbiamo
attraversato.
Ora la crescita è positiva ma al di sotto della
media europea. Va dato atto che il Jobs act funziona. In questa
situazione, migliorata ma ancora fragile, Matteo Renzi dovrebbe parlare e
muoversi con cautela. Non dovrebbe scagliarsi contro l’Unione Europea
di cui volenti o nolenti siamo parte e dalle cui decisioni dipendiamo.
Con
questa retorica il risultato è che i mercati si preoccupano ancora di
più della situazione italiana, come se alzassimo la voce per nascondere
indecisione e debolezza. E i mercati reagiscono di conseguenza come in
Borsa nei giorni scorsi o sullo spread sul nostro debito che dà segni
non tranquillizzanti. Per contrastare questi eventi potenzialmente
pericolosi servono meno parole e più decisioni. Il consenso è decisivo
per potere continuare a governare ma a volte il bene di un Paese
richiede scelte, anche se nel breve periodo possono apparire impopolari.