giovedì 21 gennaio 2016

Corriere 21.1.16
Il grande patrimonio della diversità nell’epoca dei migranti
Il dibattito sull’immigrazione dovrebbe esaminare anche molti risvolti finora trascurati
di Maurizio Caprara

Invece di distorcere la realtà i dirigenti politici che sull’immigrazione sperano di raccogliere voti facendo leva su paure degli italiani, autentiche o presuntuosamente presunte, diano un’occhiata a quanto fa la Cia. Sì, la Cia, la Central intelligence agency, servizio segreto degli Stati Uniti, non un centro sociale imbevuto di propaganda fuorviante come quella xenofoba in modo speculare. Di fronte a dinamiche nuove e complesse è bene porsi interrogativi. Qualcuno meriterebbe di essere preso in prestito da un primo ministro conservatore, il britannico David Cameron.
Nell’editoriale I migranti e la logica tedesca , Francesco Giavazzi ha spiegato lunedì sul Corriere che i rifugiati in arrivo in Germania possono garantire vantaggi per economia, demografia e previdenza non ottenibili dalla sola popolazione locale. Sarebbe ora che il dibattito politico la smettesse di tenere in ombra questi e altri aspetti di immigrazione e flussi di profughi, fenomeni impossibili da arrestare del tutto e in particolare in un Paese come il nostro con ottomila chilometri di coste.
La Cia di recente ha giudicato negativo che i funzionari appartenenti a minoranze etniche o razziali, il 23,9% del proprio personale, costituiscano soltanto il 10,8% degli ufficiali del Senior intelligence service. Nell’agenzia è in corso una revisione autocritica anche per le ristrettezze degli spazi assegnati nella fascia alta delle gerarchie alle donne e ai dipendenti con disabilità. «La diversità è fondamentale per la missione di qualsiasi organizzazione complessa e la Cia non fa differenza. Questo assioma, compreso e ampiamente applicato nel settore privato e tra i militari degli Stati Uniti, è alla base di tutte le organizzazioni efficaci. La dirigenza della Cia, a lungo, non è riuscita a riconoscere questa verità fondamentale della politica di gestione», ha notato un rapporto intitolato Diversity in leadership. Overcoming barriers to advancement (Diversità nella dirigenza. Superando le barriere all’avanzamento). Elaborata con il contributo di esperti esterni, l’analisi è stata resa pubblica l’anno scorso dalla stessa agenzia. La «diversità» tra i propri addetti viene considerata fondamentale per un servizio segreto, che ha bisogno tra l’altro di agenti madrelingua in numerose lingue straniere, ma in tempi di globalizzazione è utile anche per strutture con differenti finalità. Nella Cia il criterio è stato esaminato in relazione a vari tipi di diversità, comprese quelle Lgbt, lesbiche, bisessuali, omosessuali e «transgender».
Il rapporto può non essere immune da schematismi e dal proposito di far risultare la Cia innanzitutto politicamente corretta. In ogni caso il riferimento che lo studio fa alla politica di gestione, «management policy», denota un approccio nel quale a dettare legge deve essere la verifica dell’efficienza aziendale più che una filantropia naïf. Mentre si concentra talvolta su stranieri che ruberebbero posti di lavoro agli italiani (lavori che in più casi gli italiani non vogliono), il dibattito nel nostro Paese potrebbe esaminare con realismo risvolti trascurati di un problema epocale. In un discorso su immigrazione e lotta al terrorismo, Cameron ha parlato il 20 luglio scorso di persone cresciute in Gran Bretagna che non si sentono britanniche. La sua esortazione è stata a combattere l’estremismo e a costruire una società «più coesiva», capace di tenersi unita. Bisogna domandarsi, ha sostenuto Cameron, se è il caso di «evitare zone residenziali socialmente segreganti nelle quali gli abitanti hanno retroterra di un’unica minoranza etnica».
Potremmo domandarcelo anche noi che in Italia abbiamo meno ghetti di quanti se ne sono stratificati in Paesi europei nei quali l’immigrazione straniera è fenomeno antico, determinato dall’aver avuto nei secoli scorsi più colonie dell’Italia. Potremmo domandarcelo e domandarlo innanzitutto a chi ha a che fare direttamente con le aree di disagio: parrocchie, volontariato, abitanti italiani di quelle zone.
Fa discutere in questi giorni il progetto di Cameron per imporre miglioramenti nella lingua inglese a musulmane britanniche con origini straniere che rischiano di essere troppo separate dal resto della società. Comunque lo si giudichi, in Italia si eviti di rimuovere una delle principali motivazioni indicate: la conoscenza scarsa o nulla dell’inglese, ha scritto Cameron sul Times , rende «non sorprendente che il 60% delle originarie di Pakistan o Bangladesh sia economicamente inattivo». Significa che quelle donne dovrebbero conoscere l’inglese per uscire da condizioni di subordinazione lavorando. Non per restare ai margini della società.