Corriere 20.1.16
Così l’Italicum può assegnare un ruolo chiave alla sinistra dem
Quel margine di 24 deputati
Perché l’Italicum non basterebbe a evitare un governo di coalizione
di Francesco Verderami
Altro
che «deriva autoritaria», altro che «uomo solo al comando»: la tesi che
Renzi — grazie all’Italicum e alla riforma costituzionale — si sia
ritagliato un «regime» su misura non ha fondamento. È un’immagine utile
ai Comitati del no, che si preparano alla campagna referendaria. Ma è
una rappresentazione che non regge alla prova dei test sulla nuova legge
elettorale e dei nuovi meccanismi istituzionali, sui quali il Senato si
appresta a votare oggi per l’ultima volta. Il destino del futuro
premier sembra già segnato: sarà costretto in ogni caso a guidare un
«governo di coalizione», dentro un sistema che offrirà al Parlamento una
rinnovata centralità.
Sembrerà incredibile, ma sono i numeri a
cancellare dubbi e timori. Semmai Renzi vincesse nelle urne, arriverebbe
alla Camera con 340 deputati, grazie al premio di maggioranza. Resta
ancora da capire se il premio verrà assegnato alla coalizione o se
resterà legato alla lista. E tocca al leader del Pd decidere se
scegliersi dei «compagni di viaggio» o «ballare da solo» quando si andrà
a votare.
Non è un dettaglio di poco conto, ma gli effetti
sarebbero (quasi) simili: nel primo caso — dopo l’eventuale successo
alle elezioni — nascerebbe un governo di coalizione tra partiti, nel
secondo caso un governo di coalizione tra correnti dello stesso partito.
L’Italicum, infatti, garantirebbe a Renzi solo 24 deputati in più dei
316 necessari alla Camera per una maggioranza. Un margine esiguo perché
non debba poi dipendere dai voti (e dai veti) della minoranza pd.
Ai
bersaniani — come ha spiegato Verdini in pubblico e in privato —
«basterebbe conquistare il dieci percento degli eletti». E così la
minoranza dem avrebbe in Parlamento la «golden share» sulla maggioranza
renziana. Con i conseguenti effetti sull’assegnazione dei ministeri,
sull’agenda del governo, sull’imprinting dei suoi provvedimenti.
Altro
che «uomo solo al comando», altro che «regime»: il mito del 51%
inseguito per vent’anni da Berlusconi rischia di restare una chimera
anche per Renzi. I conti d’altronde sono presto fatti. Se è vero che al
partito vincente scatterebbero almeno tre eletti su sei in ognuno dei
cento collegi previsti dall’Italicum, agli oppositori del leader pd
basterebbe conquistare un seggio ogni tre collegi. E le vituperate
«preferenze» aiuterebbero nel loro gioco le correnti di minoranza, che
nei collegi potrebbero concentrare i propri voti su un unico candidato.
In
più andrebbe conteggiata una quota dei cento capilista, che sono in
pratica già eletti visto il sistema bloccato. La spartizione di questi
veri e propri seggi sarà al centro di un’autentica battaglia all’interno
del Pd. È chiaro che Renzi — da segretario del partito — è pronto a
blindare quanto più possibile quei posti con la candidatura di
«esterni», di «rappresentati autorevoli della società civile», come
anticipato sul Corriere da Maria Teresa Meli. La manovra però non
dovrebbe consentirgli di fare l’en plein, perché la minoranza
rivendicherà una quota sulla base del risultato del prossimo congresso, a
garanzia della «rappresentanza», come dice Bersani. Per Renzi sarà
difficile rifiutare un compromesso.
Il congresso: ecco lo
spartiacque nello scontro di potere democrat. Quel risultato influirà
sulla redazione delle liste. Ma quale criterio verrà adottato per
assegnare le quote? Verrà tenuto conto delle primarie o del voto tra gli
iscritti? Nel 2013 Renzi vinse le primarie con il 67,55%, mentre nella
prima fase congressuale ottenne il 46,7% tra i tesserati. È chiaro che
da allora i numeri sono radicalmente cambiati, ma la «ditta» — che si
propone di candidare contro il segretario l’ex capogruppo alla Camera
Speranza — confida di non scomparire nella sfida. E batterà cassa per i
capilista. Con trenta deputati alla Camera, la minoranza non solo
vedrebbe fatta salva la propria sopravvivenza nel partito, ma avrebbe
assicurata la propria influenza sul governo a Montecitorio.
A quel
punto si aprirebbero i giochi, e non è detto che le forze rimaste
inizialmente fuori dall’area di maggioranza, resterebbero escluse fino
al termine della legislatura. In caso di tensioni tra le correnti del
Pd, si potrebbero infatti aprire spazi per «operazioni centriste» — come
evocato da Verdini. «Per operazioni trasformiste», per dirla con
Bersani.
Questione di punti di vista. Ma non c’è dubbio che il
Parlamento continuerebbe ad avere un ruolo e un peso, forse persino
maggiore rispetto al recente passato, proprio per effetto dell’Italicum e
dei nuovi assetti istituzionali. Intanto perché non è stata inserita
tra le riforme la modifica della forma di governo. E poi perché i
regolamenti della Camera, (per ora) immutati, consentirebbero la
costituzione di gruppi con appena venti deputati. Di «Responsabili»,
insomma, potrebbe essere piena anche la Terza Repubblica...
Altro
che «uomo solo al comando», altro che «regime». Al bivio toccherà a
Renzi scegliere se modificare l’Italicum o lasciarlo così com’è: sono
molte le variabili da calcolare prima della scelta. In ogni caso —
facendo affidamento sui numeri esaminati da molti leader insieme ai loro
tecnici di fiducia — il futuro premier sarebbe costretto a un gabinetto
di coalizione tra partiti o a un gabinetto di coalizione tra correnti
di uno stesso partito. Sarebbe cioè costretto a mediazioni e concessioni
in nome della «governabilità».
Ma a parte le questioni di
ingegneria elettorale e costituzionale, c’è un aspetto che riguarda
esclusivamente Renzi. Il fatto che abbia annunciato la volontà di
chiudere la sua esperienza nella prossima legislatura, che più volte
abbia detto «un altro mandato e poi lascio», potrà influire in modo
positivo sull’elettorato, ormai allergico ai professionisti del Palazzo.
Ma rischia di creargli problemi politici nel Palazzo, perché fin
dall’inizio della prossima legislatura — nel caso dovesse vincere —
inizierebbe la guerra di posizionamento nel Pd. E questo scontro, in
vista del «cambio della guardia», potrebbe avere effetti nella gestione
di governo.
Anni fa, il premier spagnolo Aznar confidò a un amico
del Ppe: «Il giorno stesso in cui dissi che non mi sarei più
ricandidato, capii di non contare più nulla. Ed ero ancora a capo del
governo».