Corriere 19.1.16
La lenta agonia di Schengen
Ma senza libera circolazione cadono mercato unico ed euro
Il vero problema resta il controllo delle frontiere esterne
di Danilo Taino
BERLINO
Da quando è stato aperto nel 2000, il ponte Øresund tra Copenaghen e
Malmö si è attraversato senza bisogno di mostrare un documento
d’identità. Per oltre mezzo secolo, d’altra parte, Danimarca e Svezia
non hanno avuto controlli tra le loro frontiere. Lo scorso 4 gennaio, il
governo di Stoccolma ha però radicalmente cambiato politica: sotto la
pressione di più di 160 mila rifugiati arrivati l’anno scorso, ha deciso
che da subito avrebbe controllato i documenti di chi arriva dalla
Danimarca per treno, auto o nave.
Effetto domino
Poche ore
dopo, anche Copenaghen ha deciso di introdurre restrizioni alla sua
frontiera terrestre, con la Germania: controlli a campione per
respingere i profughi senza i requisiti di passaggio. Scopo, evitare che
la Danimarca diventasse il parcheggio per i migranti in arrivo da Sud e
bloccati dal collo di bottiglia creato dalla Svezia. È così che il
rischio della disgregazione dell’area Schengen ha preso qualche forma
concreta e il dibattito sulla fine della zona di libero movimento dei
cittadini europei si è sollevato da terra. Nessuno la vuole, ma la
realtà è che il flusso dei rifugiati fa vacillare Schengen.
Sabato
scorso, l’Austria ha annunciato la «sospensione temporanea» della
libertà di movimento ai suoi confini. Anche Vienna teme che il Paese
possa diventare un accampamento per chi arriva dal Medio Oriente lungo
la via dei Balcani e viene respinto al confine tedesco. La Germania,
infatti, aveva introdotto alcune restrizioni alle regole di Schengen già
lo scorso 13 settembre, per cercare di rallentare il flusso di chi
chiede asilo.
Il confine più caldo
Nell’effetto domino,
anche la Slovenia prenderà misure di contenimento sulla frontiera con la
Croazia, la quale però non fa parte di Schengen. Un comitato di studio
tra Austria, Slovenia e Germania sta anzi studiando il modo per
rafforzare quel confine, fondamentale nel cammino dei rifugiati che
entrano in Europa dalla Grecia.
All’estremo Nord, anche la
Norvegia, che non fa parte della Ue ma aderisce a Schengen (come la
Svizzera), effettua controlli sulla sua lunga frontiera con la Svezia,
dopo avere, lo scorso 30 novembre, bloccato l’ingresso dei profughi a
Storskog, il check-point con la Russia da dove l’estate scorsa erano
entrati migliaia di rifugiati.
Misure temporanee
Dunque,
Germania, Svezia, Danimarca, Norvegia, Austria hanno in qualche modo
limitato o sospeso Schengen (oltre alla Francia dopo gli attentati di
Parigi). Detto in questi termini, sembra che il cuore dell’Europa si
stia definitivamente chiudendo a fortezza. Non è ancora così. Questi
Paesi hanno preso iniziative che sono previste dal Codice di Frontiera
Schengen (Bsc). Gli articoli 23, 24 e 25 prevedono che misure
straordinarie (sospensione del libero movimento) possano essere prese
per rispondere a pericoli interni a un Paese (per un massimo che va dai
dieci ai trenta giorni, a seconda dei casi, prolungabili fino a sei
mesi). Soprattutto, l’articolo 26 dice che, «in circostanze eccezionali e
quando il funzionamento generale dell’area Schengen è messo a rischio
come risultato di deficienze serie e persistenti correlato al controllo
delle frontiere esterne, misure di sospensione degli accordi di libero
movimento ai confini interni dell’area Schengen possono essere
introdotte da uno o più Paesi.
I rischi
Il problema
fondamentale, dunque, è il controllo delle frontiere esterne. Se non
sarà garantito, le misure temporanee rischiano di diventare permanenti,
il che significherebbe la fine, probabilmente lenta, di Schengen, quella
conquista che un po’ tutti i governi considerano una delle maggiori in
Europa e che, se dovesse cadere, metterebbe a rischio — secondo il
presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker e Angela Merkel — lo
stesso mercato unico e infine l’euro.
Il piano di Bruxelles
La
Commissione di Bruxelles ha preparato, sostenuta da Berlino e da
Parigi, un piano per la creazione di una Guardia europea delle frontiere
e delle coste comunitaria, che dovrebbe avere la legittimità e la forza
di intervenire sui confini esterni al di là della sovranità di ogni
singolo Stato. Il Consiglio europeo di febbraio sarà probabilmente
decisivo per capire se si andrà in questa direzione oppure se la Ue farà
un passo verso una crisi gravissima: con l’arrivo della primavera, il
flusso di rifugiati tornerà massiccio e, senza controlli veri alle
frontiere esterne, molti Paesi continueranno ad alzare barriere interne.
In
altre parole, l’accordo di Schengen è vivo. Però è anche in pessima
salute. Difficile, anche se non impossibile, che frani dalla mattina
alla sera: è però immaginabile una lunga agonia tra sospensioni
multiple. Anche la prospettiva fatta circolare l’anno scorso dal governo
olandese (che ora ha la presidenza semestrale della Ue) della creazione
di una mini Schengen sembra più una minaccia negoziale rivolta ai Paesi
ai confini esterni del blocco che una possibilità reale, almeno fino a
quando l’accordo non è morto: in più non è pensabile che comprenda, come
nell’idea dei Paesi Bassi, solo Germania, Austria e Benelux ed escluda
la Francia (oltre che l’Italia).
@danilotaino