martedì 19 gennaio 2016

Corriere 19.1.16
Gli orrori della pace
terminata la Seconda guerra mondiale abusi e sofferenze proseguirono a lungo
di Paolo Mieli

Alla fine del 1943, quando i tedeschi intuirono che il loro Paese avrebbe potuto essere sconfitto, si diffuse in Germania una battuta che conteneva un presentimento: «Godiamoci la guerra, perché la pace sarà terribile». Fu proprio così. E non solo nel Paese che era stato di Hitler. «Gli amici dicevano “questo è peggio della guerra” e io li capivo», scriveva Christopher Isherwood, tornato a Londra dalla California alla fine del 1945. E Winston Churchill in questo modo descrisse l’Europa dei mesi successivi alla fine del conflitto: «In vaste regioni, grandi masse tremanti di esseri umani tormentati, affamati, angosciati e smarriti guardano con sconcerto le rovine delle loro città, delle loro case e scrutano foschi orizzonti temendo l’approssimarsi di qualche nuovo pericolo, tirannia o terrore… Tra i “vincitori” vi è una babele di voci discordanti, tra i vinti un cupo silenzio di disperazione». Effettivamente quei mesi furono tra i più tragici del Novecento. Quasi come quelli degli anni di combattimento vero e proprio. Lo descrive in modo assai dettagliato Victor Sebestyen in 1946. La guerra in tempo di pace , edito da Rizzoli.
Il primo anno di dopoguerra fu davvero terribile. Da molte parti le armi non furono mai deposte: l’Ucraina si sollevò contro i sovietici, i nazionalisti combatterono contro i russi e anche contro i polacchi in un brutale conflitto che fece oltre cinquantamila vittime; la Grecia fu sconvolta da una guerra civile; qualcosa di altrettanto grave accadde in India; in Iran; in Palestina. E in Cina dove, tra l’altro, i giapponesi, prima di essere sconfitti, avevano fatto saltare tutte le dighe lungo il Fiume Giallo, allagando oltre dodicimila chilometri quadrati di terreni agricoli (ci sarebbero voluti trent’anni prima che quelle terre tornassero produttive, trent’anni nel corso dei quali una prolungata carestia fece milioni di vittime). In Europa la trionfale avanzata dell’Armata rossa coincise con un massiccio programma di pulizia etnica, che ancora oggi costituisce per molti versi un tabù storiografico. Accadde l’opposto di quello che era avvenuto dopo la Prima guerra mondiale: «Anziché cercare di spostare i confini per adattarli alle persone che vivevano nella regione», ha scritto Keith Lowe in Il continente selvaggio (Laterza), «i governi d’Europa decisero di spostare le persone per adattarle ai confini». Con conseguenze tragiche.
In particolare per la Germania. Milioni di tedeschi patirono (e persero la vita) per quegli «spostamenti». A Berlino era saltato il sistema fognario, le acque erano inquinate dai cadaveri in putrefazione e il tasso di mortalità infantile balzò a otto volte di più di quello di prima della guerra. I prigionieri tedeschi venivano sottoposti a «procedure avanzate di interrogatorio», cioè forme di tortura che, secondo Sebestyen, «la Gestapo avrebbe trovato familiari». Una commissione di inchiesta istituita dagli americani a fine 1946 rilevò che molti di quegli «interrogati» avevano «i testicoli permanentemente danneggiati dai calci ricevuti dalle squadre incaricate delle indagini sui crimini di guerra». I minorenni, come nella Napoli del 1944, provavano a rubare dai camion alleati, ma venivano colpiti dagli americani con le baionette e i medici dovettero curare innumerevoli casi di bambini con le dita mozzate. Le ragazze tedesche subirono dai «liberatori» di Stalin una quantità di stupri davvero impressionante. Sebestyen calcola che nella primavera del 1946 nacquero circa duecentomila «bambini russi»: un sesto di quelli venuti al mondo a Berlino fra gennaio e aprile aveva un padre proveniente dall’Urss (gli aborti furono oltre un milione). Come riparazione di guerra, i russi presero di tutto e costrinsero gli operai tedeschi a smantellare i loro impianti industriali per caricare i macchinari sui treni in partenza per Mosca. Una volta, nei pressi di Lipsia, la polizia politica sovietica circondò uno stadio di calcio, fece fermare la partita e gli uomini del pubblico furono obbligati ad andare a smantellare una fabbrica.
In Cecoslovacchia, il democratico Edvard Benes, tornato dopo sette anni di esilio alla guida del governo, fu, secondo Sebestyen, «uno dei più entusiasti e spietati sostenitori della pulizia etnica nella storia europea». Mandò via senza preavviso due milioni e mezzo di tedeschi con l’esplicito consenso di Churchill e di Stalin. I cechi, documenta Sebestyen, «applicarono ai tedeschi la legislazione antiebraica dei nazisti». Molti di loro furono linciati o bruciati vivi. Un buon numero venne rinchiuso in campo di concentramento. Furono molti i lager che vennero riaperti per ospitare tedeschi (non necessariamente ex soldati) e i nuovi reclusi furono costretti a vivere nelle stesse condizioni in cui si erano trovati i loro predecessori: a Zgoda, in Slesia, a Gliwice e Lambinowice, in Polonia, morirono in cinquantamila. Mentre in Polonia, Ungheria e Slovacchia ripresero persino i pogrom contro gli ebrei. L’intera popolazione tedesca di Brno ricevette l’ordine di lasciare su due piedi la città e si incamminò in quella che sarebbe stata ricordata come la «marcia della morte». In Ungheria i soldati russi stuprarono qualcosa come duecentomila ragazze e il Paese venne lasciato in un tale disordine che l’inflazione salì a 14 quadrilioni per cento (il 158.000 per cento al giorno!). L’Ungheria cacciò via 630 mila tedeschi, la Romania 700 mila, la Slovacchia 60 mila, la Jugoslavia 100 mila. Trattamenti analoghi furono riservati agli ucraini e ai croati. Tutti ex collaborazionisti? Nel caos del dopoguerra jugoslavo, scrisse Milovan Gilas, «non c’era modo di svolgere indagini appropriate, la cosa più facile era fucilarli tutti».
Gli Stati Uniti provarono a mettere ordine in questo finimondo, ponendo a capo dell’organizzazione per i rifugiati (Unrra) l’ex sindaco di New York Fiorello La Guardia. Figlio di un musicista italiano e di una donna ebrea, parlava correntemente, oltre all’inglese e all’italiano, il tedesco, l’ungherese, il serbo-croato, lo yiddish, il rumeno e si dimostrò all’altezza dell’impresa. Ma non poté fare più di tanto.
In Germania la denazificazione fu un’impresa assai ardua. Anche sotto il profilo simbolico. Il generale Eisenhower aveva situato il suo quartier generale nell’edificio che fino a pochi giorni prima aveva ospitato la ditta produttrice dello Zyklon B, il gas usato per sterminare gli ebrei. Su cinque guardie del corpo che erano state assegnate dall’amministrazione britannica al capo del partito socialdemocratico, Kurt Schumacher, quattro, si scoprì, provenivano dalle SS. Un ex SS era anche il nuovo capo della polizia nella Renania-Palatinato, Wilhelm Hauser. Il Paese versava in condizioni talmente difficili che, nel giro di pochi anni, l’83 per cento dei rimossi dai denazificatori venne reintegrato. I tecnici più preziosi erano ex nazisti e Stalin propose addirittura al leader dei comunisti della Germania orientale, Walter Ulbricht, di creare un Partito nazionaldemocratico che li accogliesse in gran quantità e li integrasse nel nuovo regime. Fece perfino cercare nei gulag sovietici un potenziale leader per questa nuova formazione, ma gli risposero che erano stati tutti giustiziati. Al che Stalin si limitò a rispondere: «Peccato!». Da quel momento in poi nella zona sovietica della Germania, come ha osservato Marc Mazower in Le ombre dell’Europa (Garzanti), non ci fu «nessuna ricerca sistematica dei criminali nazisti o di guerra, i quali ebbero spesso vita più facile che nelle zone di occupazione alleate».
Sotto il profilo economico, la Germania andava a rotoli. La Gran Bretagna, pur ridotta in condizioni di miseria indicibili, si preoccupò di quel che accadeva nell’ex Paese nemico e un editore ebreo di sinistra, Victor Gollancz, invocò uno sforzo umanitario per assistere il popolo tedesco. Il regista Humphrey Jennings girò un documentario, Germany: A Defeated People , che si concludeva con questa affermazione: «Il nostro interesse per la Germania è puramente egoistico; non possiamo vivere accanto a un vicino infestato di malattie». Si unirono alla campagna di sostegno alla Germania giornali come il «Daily Mirror» e il «Sunday Pictorial». E fu così che un Paese sull’orlo della rovina decise di aiutare quello a cui erano riconducibili i propri disastri.
Anche la Francia era a terra, per di più suggestionata dal mito della bomba nucleare. Perfino nel mondo della prostituzione. La scrittrice Nancy Mitford, che viveva a Parigi ai tempi del grande vertice postbellico, scrisse a una delle sorelle: «Mi dicono che i maquereaux (i protettori) praticamente fermano i partecipanti alla Conferenza di pace non appena escono dal Luxembourg, per offrire loro l’ amour atomique ». Chiunque faceva affari come poteva, compresi i giovanissimi: in uno dei più prestigiosi istituti scolastici parigini, il Licée Condorcet, un gruppo di studenti capeggiato da un tredicenne si accaparrò grandi quantità di chewing gum per poi rivenderle, ottenendone profitti da capogiro. Il lusso di pochi destava scandalo: Yves Montand, che cantava al Club de Cinq, una sera, notato che un cliente aveva ordinato un’aragosta, ne aveva mangiato meno della metà e poi aveva spento un sigaro su quel che restava delle chele, scese dal palco e lo colpì platealmente con un pugno.
In Giappone, il generale plenipotenziario Douglas MacArthur era convinto della necessità che l’imperatore Hirohito, all’epoca quarantaquattrenne, restasse sul trono e, a questo scopo, ottenne che fossero occultate le prove del suo coinvolgimento nello scatenamento del conflitto. Un suo consigliere, il generale Bonner Fellers, buon conoscitore della storia e della cultura nipponica, lo aveva convinto che l’impiccagione dell’imperatore sarebbe stata per i giapponesi «l’equivalente della crocifissione di Cristo» e li avrebbe indotti a combattere e «morire tutti come formiche». Truman, che pure aveva in grande antipatia MacArthur, accettò, sia pure «con riluttanza». Anche perché nel 1946 il Giappone ebbe immensi problemi di approvvigionamento, prostituzione, malavita e nessuno voleva che si traducessero in una ripresa della guerriglia contro gli occupanti. Così la «Norimberga giapponese» fu una farsa; tra i giudici non sedeva nessun rappresentante dei Paesi occupati dai soldati del Sol Levante: un britannico rappresentava i malesi, un francese i vietnamiti e i cambogiani, nessuno la Corea.
In Unione Sovietica, alla guerra fece seguito «la peggiore carestia» che il Paese avesse conosciuto dal periodo tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta: lo scarso raccolto del 1945 fu seguito in Ucraina da una terribile ondata di maltempo, in Moldavia dalla siccità e in Siberia da una serie di piogge fuori stagione che distrussero le coltivazioni. Quello del 1946 fu in Urss uno dei peggiori raccolti mai registrati: la produzione di grano si attestò su un terzo dei livelli del 1940, e quella di patate su meno della metà. Quasi due milioni di persone morirono in seguito alla carestia.
E gli Stati Uniti? Guidati da Harry Truman che il suo predecessore, Roosevelt, teneva a distanza intimandogli di non disturbarlo «a meno che non sia estremamente urgente» e che Stalin disprezzava considerandolo un «chiassoso bottegaio», l’America seppe trarre profitto da questo caos mondiale e affermarsi in breve come prima potenza. Non aveva avuto la guerra in casa, complessivamente i caduti angloamericani erano stati meno numerosi di quelli persi dall’Urss nel solo assedio di Leningrado, il prodotto nazionale lordo tra il 1940 e il 1945 era raddoppiato (passando da 102 a 214 miliardi di dollari) e la disoccupazione era scesa al minimo storico dell’1,2 per cento. Truman seppe fare la sua parte. Ed è un segno di forza, scrive Sebestyen, che l’America debba il suo primato anche a un presidente le cui caratteristiche erano di portare gli occhiali persino quando faceva il bagno in piscina, di essere «sboccato ma fedele alla moglie» e i cui maggiori peccati fossero «un bourbon a tarda sera e le partite a poker con amici quantomeno equivoci, perlopiù confratelli massoni». Truman si pronunciò con forza per i diritti civili. Fu solo, aggiungiamo noi, larvatamente antisemita. Come, inopinatamente, molti esponenti democratici. E stiamo parlando del secondo dopoguerra, quando già si conoscevano, sia pure a grandi linee, le terribili proporzioni della Shoah. Ma questo è un discorso che meriterebbe una trattazione a sé.