Corriere 18.1.16
Bruciare le fonti dei giornalisti è vietato in europa
Anomalia
In Italia i pm hanno trovato il modo di violare il segreto
professionale che la Corte di Strasburgo difende Una deriva che lede la
libertà di informazione
di Caterina Malavenda
Caro
direttore, nel tradizionale braccio di ferro fra i giornalisti che
tacciono l’identità delle proprie fonti e i magistrati che vogliono
identificarle, una speciale menzione va ai pubblici ministeri che hanno
trovato un metodo per aggirare quel segreto professionale che i primi
strenuamente difendono, ritardando e a volte pregiudicando le indagini.
Hanno,
infatti, notificato ad alcune emittenti televisive un provvedimento di
sequestro dei video originali delle interviste, andate poi in onda con
gli accorgimenti necessari per occultare, su sua richiesta, l’identità
dell’intervistato.
Un modo per raggiungere il miglior risultato
possibile, identificare la fonte, aggirando i soliti fastidiosi
ostacoli, posti dall’autore, visto che gli editori non hanno alcun
segreto cui appellarsi e potrebbero persino provare una certa
irritazione non innocua per i loro giornalisti.
La notizia è
passata quasi sotto silenzio, con qualche meritoria eccezione e con
l’intervento di Federazione della stampa e Consiglio nazionale, che
hanno emesso comunicati, sollecitando il Consiglio superiore della
magistratura e l’Associazione nazionale magistrati a battere un colpo,
rimasti more solito senza risposta.
Viene, perciò, da chiedersi se
valga la pena di parlarne, se neppure i diretti interessati avvertono
la gravità del problema che questa iniziativa solleva, al pari di tutte
le altre che finiscono per privare il giornalista del suo patrimonio più
prezioso, la fiducia delle sue fonti.
Iniziative, superfluo
dirlo, formalmente in linea con le norme, ma di fatto sconfessate, come
ben sanno coloro che ciò nonostante le adottano, dalla Cassazione e
dalla Corte di Strasburgo, dirette come sono a vanificare il segreto
professionale.
Si va dalla richiesta diretta di rivelare la fonte,
siccome essenziale per le indagini, seguita, in caso di rifiuto, dalla
condanna — poi annullata in terzo grado — del giornalista per reticenza,
all’uso di sofisticate tecniche invasive di sequestro — censurato dalla
Suprema Corte — che duplicano l’intera memoria di un computer, la
rubrica del cellulare o le email.
Più sofisticata l’idea di
incriminare, per ricettazione, il giornalista che pubblica un documento
segreto, quindi ottenuto da chi ha commesso un reato dandoglielo, perché
avrebbe agito «per un suo fine di profitto, ossia per la realizzazione
dei suoi articoli», accusa mossa di recente, fra gli altri, al
giornalista Agostino Pantano, così assimilandolo, in una commistione che
offende, a chi ricetta un’auto rubata per rivenderla.
Ora il
ricorso all’intervento diretto sull’editore con l’acquisizione oggi di
un video, domani di ciò che si trova nell’archivio centrale o sul server
comune che processa le email in entrata o in uscita, con la progressiva
erosione di un diritto, già assai precario, riconosciuto solo ai
giornalisti professionisti — e Dio solo sa quanti siano in Italia quelli
che fanno i giornalisti senza esserlo — e solo fino a quando un giudice
non li sollevi dal segreto, imponendo loro di rivelare la propria
fonte.
Iniziative diverse, nessuna delle quali, però, se non
censurata dai giudici italiani, supererebbe il vaglio della Corte
europea, che impone la tutela del segreto professionale anche per gli
stagisti e condanna i Paesi membri che, in modo più o meno surrettizio,
abbiano consentito ai loro giudici di mettere a rischio la protezione
delle fonti, «pietre angolari» della libertà di informazione, così
dissuadendole dall’aiutare i giornalisti ad informare il pubblico.
Ancora
nel 2009 fu l’Olanda ad essere condannata (ricorso numero 38224/03
Sanoma) per aver consentito ai suoi giudici di incriminare un editore
per costringerlo a consegnare il cd-rom di un suo giornalista, così
risalendo alle sue fonti, che debbono essere, invece, tutelate anche in
via indiretta.
Ed allora certo che vale la pena di continuare a
parlarne, se serve a dissuadere qualche pubblico ministero dall’adottare
provvedimenti «contro» l’Europa, che saranno annullati, ma troppo tardi
per la fonte, oramai bruciata; o a indurre qualche lettore a riflettere
di quanti scandali non avrebbe saputo nulla, se i giornalisti non
avessero potuto contare su fonti, cui hanno garantito l’anonimato; o a
costringere ciascuno di noi a fermarsi e riflettere su quanto sia
preziosa e fragile la libertà di informazione .