Corriere 18.1.16
Gli studenti non sono uguali I più bravi vanno valorizzati
di Roger Abravanel
La
recente circolare del ministero della Pubblica istruzione sulla
«flessibilità» ha sollevato un dibattito che però ha preso toni
ideologici senza entrare troppo nel merito. Si teme che i «gruppi di
livello» citati diventino le «classi dei bravi e degli asini». Come
tutte le circolari ministeriali, anche questa non è chiarissima, ma non
mi pare sia questo il suo intendimento. Vale comunque la pena di
chiarire il contesto. Tutti i sistemi educativi del mondo riconoscono
che gli studenti non sono tutti eguali, nel senso che hanno diverse
attitudini e capacità e si sono organizzati per affrontare il problema.
Il modo con cui si è ottenuta questa differenziazione varia a seconda
del sistema educativo.
Nel mondo anglosassone esiste una grande
flessibilità, soprattutto nelle scuole superiori, che consente agli
studenti di aggiungere a un curriculum di base delle materie a scelta:
uno studente a cui piace la matematica (ed è ovviamente bravo in
matematica) può aggiungere ore di matematica avanzata alle ore di
matematica «di base». Avviene così che la classe tradizionale non esiste
più e un allievo si trova a cambiare compagni di classe in diverse ore
di scuola.
Altri sistemi educativi hanno scelto un modo ulteriore,
quello di differenziare il percorso formativo e le scuole nelle quali
studiare. Il modello più noto è quello tedesco, in base al quale gli
studenti vengono selezionati per valutare chi farà un percorso tecnico e
professionale per entrare subito nel mondo del lavoro con il meccanismo
dell’apprendistato e chi invece farà un percorso che lo porterà alla
università.
In altri sistemi educativi europei (e anche asiatici e
anglosassoni) questa selezione avviene invece attraverso una selezione
della qualità della scuola a cui gli studenti vengono ammessi: i
migliori vanno nelle scuole migliori.
Seguendo questo secondo
approccio, la classe è essenzialmente «stabile» ed anche abbastanza
omogenea in termini di capacità e attitudine dei suoi studenti. Se
l’insegnante è bravo riesce poi a valorizzare all’interno della classe
chi è più meritevole e ad aiutare chi fa più fatica.
Le scuole
finlandesi (le migliori del Vecchio Continente), non hanno solo la media
migliore dei test Pisa in Europa, ma anche la migliore percentuale di
studenti con test Pisa al top: la media degli studenti impara cioè
meglio che altrove, ma anche l’eccellenza viene valorizzata. E chi è più
bravo nella comprensione dei testi in lingua è anche più bravo in
matematica, perché gli studenti più intelligenti e/o più studiosi lo
sono sia per quanto riguarda i testi in lingua che per la matematica.
Fino
agli Anni 70 il nostro approccio era simile a quello tedesco, con un
orientamento tra istituti tecnici/professionali e licei che veniva fatto
in terza media e chi sceglieva il liceo si sarebbe poi iscritto
all’università. L’evoluzione successiva ha portato a un modello che ora è
un vero «ibrido». Comunque sia, le classi sono «stabili» e per gli
allievi con più difficoltà sono spesso previsti degli insegnanti «di
sostegno».
Purtroppo questo sistema ci ha portato ai noti
disastri. Abbiamo poca eccellenza e la media è insufficiente. Ai test
Pisa presentiamo un’eccellenza del 50% inferiore alla media Ocse e che
vale un terzo di quella della Finlandia. All’università vanno i più
ricchi (più ancora che negli Stati Uniti) e non necessariamente i più
bravi. Il percorso formativo tecnico/professionale non è paragonabile a
quello tedesco, perché la qualità media degli istituti tecnici e di
quelli professionali è bassa e assai variabile (ci sono alcuni ottimi
istituti tecnici, migliori di molti licei, e altri che sono invece
pessimi); le famiglie italiane si dissanguano con le ripetizioni
private. L’«apprendistato all’italiana» non ha nulla a che vedere con
quello tedesco, come conferma la differenza tra la nostra disoccupazione
giovanile e quella della Germania.
Tornando alla circolare del
ministero, essa non sembra volersi occupare di questo tema ma piuttosto
sembra dire «presidi, da oggi organizzatevi all’insegna della massima
flessibilità, sia come orario, sia come approccio didattico». Ovvero una
situazione non molto diversa da oggi: esistono già casi virtuosi di
presidi che integrano le ore di scuola con ore extra e stanno
sperimentando nuove forme di didattica e di apprendistato. Il problema è
che non tutti i presidi sono in grado di organizzare il lavoro in modo
adeguato e di valutare e formare i propri insegnanti.
C’è poi un
altro problema. È sicuramente necessario aumentare le ore di presenza in
classe, sia per recuperare i casi difficili sia per valorizzare i
migliori. Studiare di più a casa o individualmente va contro la
rivoluzione in corso nella didattica che vuole insegnare le soft skills
attraverso progetti, dibattiti e lavori di gruppo. Secondo un sondaggio
pubblicato sul Corriere , le famiglie italiane vedono molto bene una
permanenza a scuola degli studenti oltre l’orario attuale.
Esiste
poi un problema di risorse. L’organico aggiuntivo della «buona scuola»
potrebbe forse aiutare, ma il problema sembra essere che gli insegnanti
neoassunti non paiono avere il profilo giusto (per esempio di matematica
ce ne sono pochi). La cosa davvero necessaria sarebbe l’aumento del
numero di ore di lavoro degli insegnanti italiani (18 alla settimana
contro le 30 della Germania) e l’aumento del loro stipendio.
Ma ci
vorrebbero risorse aggiuntive e un duro confronto con i sindacati. È su
questo semmai che si dovrebbe aprire un dibattito, non sull’ideologia
che porta alle «classi degli asini e dei bravi».