Corriere 17.1.16
Unioni civili, banco di prova per la democrazia liberale
di Maurizio Ferrara
Il
matrimonio è un «fatto istituzionale». Non riflette lo stato di natura,
ma le pratiche sociali e le tradizioni culturali storicamente
predominanti nella sfera pubblica. Negli ultimi anni, in molti paesi
l’istituzione-matrimonio è stata arricchita tramite il riconoscimento
delle unioni omosessuali. Anche l’Italia sta oggi affrontando questo
delicato passaggio: perplessità e resistenze sono comprensibili. Ma
occorre evitare quelle «dannose faziosità» denunciate venerdì da Luciano
Fontana su questo giornale. La posta in gioco è alta, riguarda la
concezione stessa della cittadinanza e del suo sistema di garanzie.
La
visione eterosessuale del matrimonio è ancora ampiamente diffusa e ha
definito nel tempo uno standard di «normalità pubblica» che isola
simbolicamente gli omosessuali e limita le loro opportunità. In ottica
liberale ciò solleva fondamentali questioni di giustizia politica. Fino a
che punto è lecito ad una maggioranza imporre la propria concezione di
«normalità» ad una minoranza che chiede (con ragionevolezza)
riconoscimento e tutele civili? In democrazia si discute, si contratta e
poi si vota: la maggioranza vince. Quando sono in gioco i diritti
fondativi della cittadinanza, il liberalismo raccomanda però molta
cautela.
Le maggioranze non possono violare principi fondamentali
della pari dignità e dell’eguale libertà. E in particolare non
dovrebbero farlo in base a specifiche concezioni morali su cosa è
«naturale» o appropriato nello spazio pubblico, che è di tutti. Questo
modo di vedere non è, si badi bene, relativista. Discende da valori che
un liberale considera assoluti e non negoziabili: dignità e libertà,
appunto. Nel caso del matrimonio omosessuale, questi valori sono
peraltro invocati non a difesa di ideali «individualistici» (in sé
peraltro legittimi) ma, al contrario, per istituire in pubblico nuovi
legami sociali.
Opporsi alle unioni di partner dello stesso sesso
significa violare due volte i principi liberali. Innanzitutto,
s’impedisce l’esercizio di una importante libertà «di»: quella di
«sposarsi» (il riconoscimento pubblico è anche una questione di parole) e
di accedere a uno status giuridico che è indispensabile per realizzare
altri obiettivi. L’orientamento sessuale non è un elemento moralmente
rilevante per lo spazio pubblico, le discriminazioni basate su questo
aspetto sono irragionevoli. Ma c’è una seconda violazione, meno visibile
e più insidiosa. Lo status quo priva di fatto le coppie omosessuali di
alcune importanti libertà «da», il fondamento ultimo del liberalismo. I
partner dello stesso sesso possono infatti subire interferenze nella
loro sfera privata da parte di soggetti cui la legge conferisce maggiori
od esclusivi diritti.
Pensiamo alla successione ereditaria (le
prerogative dei «legittimari» prevalgono su quelli del partner), alla
reciproca assistenza in caso di ricovero(i parenti possono ostacolare le
visite o l’informazione), all’affido dei figli di uno dei partner in
caso di morte (data l’impossibilità di adozione, la precedenza spetta ai
familiari anagrafici). Per cambiare le cose non è sufficiente
introdurre diritti individuali. Si tratta di libertà relazionali, che
discendono da un legame di coppia. Solo il riconoscimento giuridico può
rendere tale legame preminente rispetto ad altri.
Tutti hanno
ovviamente il diritto di pensare e dire ciò che vogliono su
omosessualità, famiglia, adozioni e così via, e così sta avvenendo in
Parlamento. Quando si voterà, speriamo tuttavia che non si formi una
maggioranza «tiranna». Sprecando così una preziosa occasione per rendere
questo paese un po’ più liberale.