sabato 16 gennaio 2016

Corriere 16.1.16
Quella vita da fantasma tra eroina e Sacre scritture dell’ex primo della classe
di Andrea Galli

Brebbia (Varese) Con le tapparelle abbassate anche nelle mattine d’estate, la villetta sembrava disabitata ancor prima delle perquisizioni degli ultimi mesi e dell’arresto di ieri. Quasi che mamma Maria, vedova da giovane del marito artigiano dei camini, più che per la vergogna del divorzio della figlia Patrizia, tornata ad abitare da lei al piano terra, volesse proteggere la famiglia dalle malelingue per l’altro figlio, chiuso nell’appartamento al primo piano. L’adorato Stefano per cui immaginava un futuro (bravo chierichetto alle elementari) da sacerdote come l’amico fraterno don Giuseppe Sotgiu, l’unico che gli ha coperto l’alibi per i giorni dell’assassinio, oppure (primo della classe alle superiori) un futuro da professore universitario e che invece, arrivato a 48 anni senza un’ora di lavoro, continuava a drogarsi. Eroina. Le siringhe gli avevano provocato un’infezione che gli aveva mangiato il braccio destro, rimasto ritratto. I boschi di Sass Pinin, dove Lidia fu uccisa, erano il covo dei tossici.
Via Cadorna è stretta e termina in una corte ristrutturata con un ampio cortile che ospita gli aperitivi e le serate di chiacchiere dei pochi residenti, orgogliosi di «questa piccola comunità» ma che, dietro un muro, al riparo dagli altri, si dicono contenti che finalmente abbiano portato via quell’uomo. Del resto «non aveva voglia di fare un c...»; campava «sulla pensione della madre e della sorella sgobbona»; bighellonava come «l’altro lì», il trentenne Jonathan, il figlio di Patrizia, che «passa il tempo a guardare lo sport su Sky». Naturalmente qui, «da decenni», girava voce insistente che l’avesse uccisa lui, però lui non compariva tra i «colpevoli» indicati dalle decine di lettere anonime di calunnia per ventinove anni circolate in provincia di Varese; e naturalmente nessuno aveva prove e s’era preso il rischio di condividere le «informazioni» con gli investigatori.
Via Cadorna in passato era chiamata la «brughera», distesa di terra incolta utile per allevare i bachi da seta. Binda non ha legato con nessuno dei vicini. Usciva per andare in due bar a comprare le amate sigarette e farsi il cicchetto: il «Relax bar» e l’«Albergo»; si muoveva la domenica per la messa nella chiesa priva di parroco fisso, a causa della crisi delle vocazioni; e quando capitava partecipava agli incontri dell’associazione culturale «Magre sponde» il cui presidente difende Stefano, «uomo buono e mite», lontanissimo dalle cattiverie di Brebbia, tremila abitanti tra i laghi di Varese e quello Maggiore, e soprattutto lontanissimo dal ritratto dell’ordinanza di custodia cautelare. Quand’era giovane, forte dell’aria da «intellettuale dannato» come scritto dal giudice, piaceva alle ragazze. E se mai già allora veniva escluso, o comunque non accolto totalmente nel gruppo di Comunione e liberazione, era in conseguenza della sua «arroganza», convinto d’essere sprecato, con le conoscenze di storia, filosofia e cinema, in questa provincia allevata per faticare in fabbrica. Manca una prova «definitiva», nell’impianto accusatorio, ad esempio la prova del Dna. Però, sì, hanno confermato più testimoni, Binda ha mentito perché quel gennaio non partecipò a una vacanza in montagna. Però sì, hanno appurato gli esperti, scrisse la missiva indirizzata ai genitori di Lidia il giorno dei funerali. Però, sì, hanno certificato gli psichiatri, nel testo era raccontato l’omicidio, e forse solo uno come Stefano, studioso omnivoro ed esperto di Sacre scritture, avrebbe potuto fare quei rimandi, la morte violenta («Lo strazio delle carni»), la verginità violata («Il velo strappato»), le pulsioni e il peccato originale («Lo scotto dell’antichissimo errore»), e la violenza brutale divenuta «atto liberatorio, un tentativo di coprire i rimorsi e un bisogno simbolico di sepoltura per rimuovere le proprie personalità... il delitto di una personalità paranoide, altamente narcisista, divisa tra regole e pulsioni».
Delirio, follia, orrore: dov’è dunque l’«uomo buono e mite»? Se Stefano Binda ha stuprato e ha ucciso e per una vita l’ha nascosto, nell’isolamento del primo piano, gelosissimo custode di una fotografia di Lidia e dei vecchi diari riempiti con la foga degli adolescenti, era convinto che tanto l’avrebbero scoperto oppure che si sarebbe salvato. Poteva scappare e non l’ha fatto. Se si assentava, era per disintossicarsi in comunità e per andare a trovare conoscenti del vecchio giro di Comunione e liberazione, e sacerdoti che forse hanno condiviso i suoi segreti. Poi, tornava puntuale. Nella villetta al civico 5. Un cancello basso, una palma, un nano da giardino, la cassetta delle lettere con le targhette dei quattro nomi, da una parte le donne e dall’altra gli uomini: Maria, Patrizia, Stefano, Jonathan.