Corriere 16.1.16
Un duro altolà che riflette l’inquietudine della Germania
di Massimo Franco
L’attacco
era previsto: forse non da Matteo Renzi, ma certamente da alcune
cancellerie europee. Da giorni, il malumore nei confronti del premier
italiano rimbalzava dopo le critiche espresse durante l’ultimo Consiglio
dell’Ue . Un’irritazione tesa a raffigurarlo «isolato», «rumoroso»,
inutilmente «teatrale»; e tentato di usare i contrasti con l’Europa a
scopi di politica interna. Le parole ruvide usate ieri dal presidente
della Commissione, Jean-Claude Juncker contro il capo del governo sono
la rivelazione di uno scontro lievitato per settimane; e arrivato adesso
ad un punto cruciale. Renzi risponde: «Non ci faremo intimidire.
L’Italia merita rispetto». Eppure, la sensazione è che a Bruxelles
abbiano deciso un altolà corale, insidioso per Palazzo Chigi.
Non è
pensabile, infatti, che Juncker si muova da solo quando invita Renzi a
«non vilipendere la Commissione», e gli rinfaccia di «profittare di
tutte le flessibilità previste». Dietro si intravede la sagoma di una
Germania che ha sempre appoggiato e sostenuto il premier italiano; di
più, ha scommesso su di lui come unico argine contro la marea populista
nel nostro Paese, e continua a ritenerlo senza alternative. Ma comincia
ad essere preoccupata dalla piega che sta prendendo la politica estera
dell’Italia: una perplessità condivisa da altre nazioni europee. Il
ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ha cercato di ridurre la
portata delle parole di Juncker, e di negare qualunque conflitto tra
Roma e Bruxelles.
Purtroppo, però, il numero uno della Commissione
lo afferma esplicitamente: «I rapporti non sono i migliori al momento».
E aggiunge che dovrà venire in Italia perché si deve «occupare di
questo problema». Viene da chiedersi da che cosa nasca un atteggiamento
così duro. Soprattutto, come si concili con una narrativa che tende a
esaltare il nuovo peso del nostro Paese sullo scenario internazionale.
Il Renzi che chiede rispetto per l’Italia rischia di evocare il Silvio
Berlusconi del 2011. Allora, l’isolamento nell’Ue del premier del
centrodestra portò al governo dei tecnici di Mario Monti. Stavolta,
un’ipotesi del genere non esiste, perché la situazione economica è
migliore; e perché Renzi continua ad essere considerato l’unica carta
spendibile per riformare il Paese e tenerlo agganciato al resto
d’Europa. In realtà, a spaventare Juncker non è tanto la riapparizione
di una «sindrome Berlusconi». La novità è che le critiche di Renzi alle
istituzioni dell’Unione si inseriscono su uno sfondo di offensiva
generale contro Bruxelles: in particolare dal fronte dei Paesi
orientali, passati dall’euroentusiasmo all’euroscetticismo. La
Commissione non può permettersi il lusso che il presidente del Consiglio
di una delle nazioni fondatrici cerchi di «sminuire ad ogni occasione»
l’Ue: ancora parole di Juncker.
Magari è una considerazione troppo
maliziosa, ma viene il sospetto che Renzi sia stato scelto come capro
espiatorio di un’inquietudine diffusa tra tutte le 28 nazioni
dell’Unione. La bacchettata, inedita, dolorosa, e imprevista, non sembra
rivolta solo a lui ma a quanti hanno criticato o si preparano a
contestare la strategia delle istituzioni sovranazionali: una tentazione
acuita dalla crisi dei flussi migratori e da difficoltà economiche
persistenti. Insomma, si vuole far sapere che i giochi sono finiti: per
tutti. Scegliere l’Italia come bersaglio, però, significa individuarla
come anello importante e insieme debole: il Paese contro il quale alzare
la voce. Chiedere di essere rispettati è sacrosanto. Chiedersi perché
non avviene, forse, sarebbe altrettanto utile.