Corriere 14.1.16
L’Italia e la Cina Storia di un negoziato
risponde Sergio Romano
Di
Pietro Nenni lei ha evidenziato soprattutto l’impegno profuso per
accelerare il processo di riconoscimento italiano della Cina comunista.
Giustamente il leader socialista giudicava maturi i tempi per l’ingresso
della Cina all’Onu, benché non mancassero opposizioni in Italia e negli
Usa. Lo faceva, sollecitato da ragioni ideali: interne (rimarcare con
forza l’autonomia rispetto al Pci, legato ancora al blocco
sovietico,dopo l’invasione della Cecoslovacchia) e internazionali (la
presa d’atto d’una realtà geopolitica da cui non si poteva prescindere,
dato che la Cina era già dal 1964 una potenza atomica). Come andarono
effettivamente le cose?
Mattia Testa
Caro Testa,
L’
iniziativa di Nenni fu decisiva, ma il terreno era stato preparato da
Amintore Fanfani quando era ministro degli Esteri, verso la metà degli
anni Sessanta. Per Fanfani lo stabilimento dei rapporti diplomatici con
la Cina popolare presentava un duplice vantaggio: avrebbe dimostrato che
la diplomazia italiana poteva agire autonomamente, senza chiedere il
permesso degli Stati Uniti, e avrebbe creato migliori condizioni per la
soluzione della questione vietnamita. Ma Fanfani aveva bisogno di una
persona che gli desse una mano e la trovò in uno dei rari diplomatici
italiani che nutrisse per la Cina una viscerale attrazione. Si chiamava
Mario Crema e aveva fatto i suoi studi all’Università di Bologna; ma a
Londra, dove era stato vice-console, si era laureato in lingua cinese
alla Scuola di studi orientali. Trasferito al consolato di Hong Kong,
continuò a coltivare la sua passione e dette nell’occhio di Fanfani che
in un giorno dell’autunno 1966 lo convocò nel suo studio per una sorta
di esame sulla situazione politica cinese e per chiedergli, alla fine
della conversazione, se fosse disposto ad andare a Pechino dove era
stato aperto un ufficio commerciale italiano. Erano gli anni tempestosi
della rivoluzione culturale, ma Crema non ebbe esitazioni e fu da quel
momento l’uomo di Fanfani nella capitale della Repubblica popolare.
Quando
Nenni divenne ministro degli Esteri nel governo presieduto da Mariano
Rumor, occorreva passare ai fatti. Il leader socialista conosceva da
molti anni l’ambasciatore d’Italia a Parigi, Franco Malfatti, e gli
dette istruzioni di chiedere all’ambasciata della Repubblica popolare
nella capitale francese se il governo cinese fosse disposto a trattare
lo stabilimento delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi. Qualche
settimana dopo l’ambasciatore della Cina comunista (Huang Chen, un
generale della Lunga Marcia) accettò l’invito di Malfatti e fece la sua
prima apparizione con un seguito di tre collaboratori nel palazzo
italiano della rue de Varenne. Potrei raccontarle il negoziato, caro
Testa, perché partecipai per ventuno mesi a tutti gli incontri insieme
al numero due di Malfatti, Walter Gardini. Ma il nodo da sciogliere era
soltanto uno e molti incontri servivano soprattutto a dimostrare che
nessuno voleva interrompere il negoziato. I cinesi ci chiedevano di
riconoscere che Taiwan apparteneva alla Cina e, implicitamente, che il
seggio permanente del Consiglio di Sicurezza spettava a Pechino. Ma gli
americani avevano chiesto a Nenni di non farlo e il vecchio leader
socialista non voleva fare uno sgarbo a Washington. Il compromesso fu
raggiunto quando il ministro degli Esteri era Aldo Moro. I cinesi
dichiararono che Taiwan apparteneva alla Repubblica popolare e noi ci
limitammo ad ascoltare senza rispondere.
Ancora qualche parola su
Mario Crema. È scomparso a Bologna nello scorso dicembre e la vedova
(una signora sud-coreana conosciuta quando Crema era ambasciatore a
Seul) ricerca una istituzione civica o accademica disposta ad accogliere
il suo archivio. Spero che la trovi. La vita di Crema fu troppo
interessante perché il ricordo del suo lavoro scompaia con la sua morte.