Corriere 14.1.16
De Martino alle frontiere della magia
di Giuseppe Galasso
Le
iniziative per ricordare Ernesto de Martino (1908-1965) a cinquant’anni
dalla morte non hanno avuto grande eco. La migliore è stata la
ripubblicazione, molto accurata e apprezzabile, anche se non del tutto
felice nell’interpretazione, di uno dei suoi libri a suo tempo di
maggiore successo, Sud e magia , a cura di Fabio Dei e Antonio Fanelli
(Donzelli, pp. LII-318, e 34).
Eppure, de Martino fu uno degli
intellettuali più animati da spirito innovatore e da molteplici e
feconde curiosità del ventennio postbellico 1945-1965, che resta a
tutt’oggi il periodo più vivace della cultura italiana contemporanea. E,
per la verità, di spirito innovativo egli aveva già dato prova da prima
della guerra. Era maturato nell’ambiente intorno a Benedetto Croce, e
ne rimase impregnato poi per sempre. Croce voleva dire storicismo,
esclusività della considerazione storica nella visione e nella
valutazione della realtà.
De Martino, per un impulso spontaneo, si
avviò ad altro tipo di considerazione. Partendo dalla storia delle
religioni, si spostò presto nell’area delle religioni primitive,
sciamaniche, e giunse a formulare una tesi seducente sulla magia come
forma culturale dominante di tutta una lunga epoca nella storia e, in
quanto tale, matrice delle stesse categorie della razionalità umana.
Dopo un intervento di Croce, egli rivide poi quest’ultimo punto, ma
ribadì la matrice esistenziale, emozionale, traumatica dell’esperienza
dalla quale nella storia dell’uomo era nata l’universale pratica della
magia (e di qui anche il suo duraturo interesse per i poteri paranormali
e la parapsicologia). A superare quella condizione primigenia, la magia
aveva contribuito dando all’uomo la certezza del proprio essere qui e
ora, della propria presenza (così egli la definiva) nel mondo; e ciò
spiegava anche perché quel passato magico sopravvivesse nel fondo della
coscienza umana e si perpetuasse, oltre che in determinate forme
storiche, come una permanente alternativa e terapia nel riproporsi di
crisi della presenza della persona in qualsiasi momento della storia.
Il
mondo magico fu il libro, del 1948, in cui egli diede un’organica
sistemazione a tali sue vedute, e fu un vero evento culturale. De
Martino arricchì poi e svolse largamente quel suo giovanile lavoro.
Esistenzialismo, etnologia e antropologia, psicologia e psicoanalisi,
filosofia della storia e altri elementi vennero ad arricchire la sua mai
intermessa attività di studio e di riflessione e si tradussero in libri
di grande interesse (come La terra del rimorso , del 1961: il più
bello, a mio avviso, fra i suoi). Si aggiunse pure ai suoi interessi il
marxismo, che gli ispirò un’elaborata riflessione sul rapporto fra
culture egemoni e culture subalterne, applicata in specie al Mezzogiorno
d’Italia (come in Sud e magia ), senza trovarvi, però, i suoi momenti
più felici.
In ultimo, era passato a studiare La fine del mondo ,
come suona il titolo del volume che raccoglie l’imponente materiale
(appunti, note, pagine sparse, riassunti) in vista di una versione
finale, vietatagli dalla morte precoce. Il tema era quello delle
«apocalissi culturali», diverse da quelle religiose e da quelle
psicopatologiche, in quanto relative ai problemi di presentimento,
percezione e angoscia della fine, cui ogni mondo umano è esposto, di una
specifica cultura e civiltà.
Impressionante è la varietà degli
interessi in tale cantiere di lavoro. Avrebbe messo capo, questo grande
zibaldone, a un ben definito quadro concettuale? È difficile dirlo.
Molti sono i tentativi fatti per individuarne il senso ultimo. Non si
può dire, però, che si sia riusciti nell’impresa. E, tuttavia, La fine
del mondo resta un documento significativo della cultura contemporanea,
alle prese ogni giorno con qualche nuova percezione di possibile
apocalisse culturale per noi, ora e qui.