Corriere 12.1.16
Che delusione il digitale nelle scuole
C’
è una cosa che sembra accomunare i vari titolari del Miur, cioè di
quello che un tempo si chiamava ministero della Pubblica Istruzione: la
fiducia nel potere quasi magico delle tecnologie digitali applicate
all’insegnamento. Di destra o di sinistra che siano quanto ad
appartenenza politica, da tempo i titolari di quel ministero credono
infatti che è anzitutto alle lavagne interattive e ai tablet che va
affidata la soluzione dei problemi legati all’apprendimento degli
studenti. Adolfo Scotto di Luzio, nel libro Senza educazione. I rischi
della scuola 2.0 (Il Mulino), sostiene un’opinione del tutto diversa: in
controtendenza rispetto alla retorica corrente sulla scuola digitale,
pensa che siano anzitutto i buoni insegnanti a fare una buona scuola. Ed
è convincente nella sua critica al modo tra casuale e inconsapevole con
cui tecnologie e supporti informatici sono stati introdotti nelle
scuole. Ad esempio, tra il 2009 e il 2011 venne attuato un piano
sperimentale, intitolato Cl@ssi 2.0, senza che ne fossero chiari gli
obiettivi e senza che se ne potessero verificare i risultati. Su
quell’iniziativa è stato poi redatto un rapporto, i cui autori hanno
mestamente riconosciuto che non era stato possibile ricostruire cosa
fosse «effettivamente accaduto nelle classi coinvolte nel progetto».
Che
più tablet significhino una scuola migliore sembra ormai un dato
acquisito nel nostro discorso pubblico, o almeno in quello ministeriale,
qualcosa che non necessita di alcuna giustificazione. In realtà, nota
Scotto di Luzio, non sappiamo ancora bene quale sia l’impatto delle
tecnologie informatiche in campo educativo, quali gli effetti sulla
mente degli studenti e sulla loro capacità di apprendere. Non è soltanto
un suo dubbio. Il pedagogista Benedetto Vertecchi ha paventato il
rischio che alla diffusione dei dispositivi digitali nelle scuole, a
cominciare dalle primarie, corrispondano una diminuzione della memoria e
una difficoltà nella percezione spazio-temporale. È ovvio che i giovani
(e anche chi giovane non è) debbano utilizzare le tecnologie digitali.
Ma in molti dipartimenti universitari appare evidente che cosa ha
prodotto negli studenti la familiarità incontrollata con computer e
rete: l’idea che la conoscenza non nasce dentro di me, da un lavoro
lungo e difficile per acquisire criticamente certe informazioni e
capacità (un tempo si sarebbe detto «dallo studio» ma, nota Scotto di
Luzio, ormai questa parola chi la usa più?). Tutto ciò che mi serve,
pensano tanti studenti, sta là fuori bell’e pronto, in quel pozzo senza
fondo rappresentato da Internet; basta gettare la rete — è proprio il
caso di dire — e la pesca è sicura. Nascono così le tesi e tesine fatte
col sistema del copia e incolla. È per motivi del genere che il filosofo
Roberto Casati, nel libro Contro il colonialismo digitale (Laterza,
2014), ha proposto di seguire un elementare principio di precauzione, di
riflettere su ciò che stiamo facendo. Senza alcun luddismo contro i
computer, ma anche senza le aspettative ridicolmente miracolistiche che
vorrebbero istituire un collegamento tra la qualità della scuola e il
numero di tablet a disposizione.
Tanto più che un simile
collegamento, sembra ormai accertato, non esiste. Una recente indagine
Ocse ha concluso che un uso limitato a scuola del computer è meglio di
nessun uso, ma che non c’è alcuna evidenza che una maggiore
utilizzazione porti a migliori risultati. Anzi, un uso al di sopra della
media Ocse è associato a risultati negativi. Insomma, ce n’è abbastanza
per prestare ascolto a chi presenta dubbi e critiche contro la «scuola
2.0» e i suoi entusiasti cantori.