Corriere 11.1.16
il silenzio di Aung San Suu Kyi sul destino dei rohingya
di Paolo Salom
Il
popolo invisibile per molti non ha un nome. Neppure per la paladina dei
diritti civili, il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, prossima a
governare la Birmania dopo la straordinaria vittoria alle elezioni di
novembre. Eppure sono là, un milione di esseri umani chiusi in campi di
concentramento da dove è virtualmente impossibile uscire. Non da vivi,
almeno. I Rohingya, musulmani, sono da decenni perseguitati dalla
maggioranza buddhista. Detestati per le loro origini (sono considerati
bengalesi immigrati clandestinamente), hanno vissuto gli ultimi anni di
apertura e di democratizzazione del loro Paese in un tragico paradosso:
più i generali si facevano da parte meno le loro istanze venivano
considerate. Richieste elementari: cittadinanza, istruzione, libertà di
spostamento. Il riconoscimento del loro status di minoranza: nonostante
la presenza secolare, per le autorità sono al massimo apolidi mal
sopportati.
Certo, la loro sorte potrebbe cambiare se almeno la
donna-simbolo della recuperata democrazia in Birmania parlasse in modo
chiaro. Eppure i Rohingya restano trasparenti anche per la Signora. Che,
se interrogata sulla questione, risponde parlando di «problemi locali»
provocati da immigrati «non birmani». È questo il prezzo da pagare per
essere eletti? Sorprende ogni giorno di più la metamorfosi attraversata
dal simbolo più potente della lotta all’ingiustizia, la donna celebrata
(giustamente) per decenni per il suo coraggio e la propensione al
sacrificio in nome di un ideale pacifico e non violento.
Ma la
questione più sorprendente in tutto questo è che, a fronte di condizioni
di vita terribili nei campi di raccolta dei Rohingya, nello Stato di
Arakan, al confine con il Bangladesh, nonostante i pogrom sanguinosi cui
sono sottoposti di tanto in tanto da facinorosi che gridano alla
purezza del sangue (buddhista), il silenzio nel mondo è assordante: non
parla Suu Kyi, ma nemmeno Barack Obama o le Nazioni Unite, così leste in
occasioni politicamente più fruttuose. Possiamo parlare di vergogna?