Corriere 11.1.16
Massimo D’Alema
«All’estero non siamo più protagonisti Arabia e Israele da alleati a problemi»
intervista di Aldo Cazzullo
Massimo
D’Alema, rispetto a quando lei era premier e poi ministro degli Esteri,
le alleanze in Medio Oriente sembrano essersi capovolte. I nemici di
ieri sono diventati nostri alleati. A cominciare dall’Iran.
«Era
sbagliato l’ostracismo verso l’Iran. Ed è divenuto insostenibilmente
sbagliato con il passaggio dal conservatore Ahmadinejad al riformista
Rohani. L’ostracismo era dettato non dagli interessi dell’Occidente, ma
da quelli dei due alleati dell’Occidente: Arabia Saudita e Israele. I
quali, più che alleati, si sono rivelati due problemi».
Come spiega la sfida dell’Arabia Saudita all’Iran?
«È
un conflitto di potenze che tende a degenerare in un conflitto
religioso; e i conflitti nazionali ammettono risoluzioni, quelli
religiosi no. Eppure sciiti e sunniti hanno convissuto per secoli. La
vera questione è l’egemonia nell’area. L’Arabia Saudita teme l’ascesa
dell’Iran. E con un atto deliberato, privo di senso, ha messo a morte un
chierico che non era un estremista, Nimr Al Nimr, per provocare la
reazione dell’ala conservatrice del regime iraniano».
Nimr Al Nimr aveva avuto espressioni poco cortesi nei confronti del defunto re saudita…
«Il
defunto re saudita auspicava che fosse “schiacciata la testa del
serpente”, vale a dire che venisse distrutto l’Iran sciita con le bombe
atomiche. Diciamo che è stato uno scambio di espressioni poco cortesi…
Il punto è che l’apertura all’Iran non è contestata solo in Occidente.
Ha nemici anche tra gli estremisti di Teheran. L’Arabia Saudita tenta di
farla saltare nella speranza di restare partner privilegiato degli
americani. La nuova leadership ha attitudini belliciste preoccupanti; si
pensi all’avventura militare in Yemen. Io conoscevo bene il principe
Faysal, figlio dello storico re Faysal, che è stato ministro degli
Esteri per 39 anni — questa è stabilità, altro che l’Italicum —: era
uomo di grande saggezza, non avrebbe mai fatto azzardi muscolari».
Chi sconfiggerà l’Isis?
«Fino
a quando resterà questa tensione tra Arabia Saudita e Iran, l’Isis non
sarà sconfitto. Purtroppo gli Usa hanno commesso errori gravissimi nella
regione, dalla guerra in Iraq alla scelta del governatore Bremer — il
quale non passerà alla storia come un genio — di liquidare, con Saddam,
anche lo Stato e l’esercito iracheno. Oggi alcuni capi dell’Isis sono ex
ufficiali di Saddam».
Quali sono i rapporti tra Riad e l’Isis?
«L’estremismo
dell’Isis ha una radice culturale nell’islamismo più retrogrado, che ha
il suo epicentro proprio nel Golfo. Questo non vuol dire che sia
un’emanazione del regime saudita; ma non dimentichiamo che gran parte
degli attentatori delle Twin Towers provenivano dalla migliore élite
saudita».
E di Netanyahu cosa pensa?
«Il governo della
destra israeliana sta giocando un ruolo negativo nella regione. Con
l’espansione delle colonie, la prospettiva di uno Stato palestinese è di
fatto scomparsa. La coltiva ancora la leadership politica, che vive di
aiuti internazionali; ma la società civile no. Gli intellettuali credono
ormai allo scenario che chiamano sudafricano».
Vale a dire?
«Un
unico Stato, in cui i palestinesi dovranno battersi per i propri
diritti. È nata così la nuova Intifada. Ma Israele, negando uno Stato
palestinese, mette in pericolo la propria stessa idea di Stato ebraico. E
la comunità internazionale accetta il doppio standard: Israele non
rispetta gli impegni sottoscritti, viola le risoluzioni dell’Onu. Questo
alimenta nel mondo arabo l’odio verso l’Occidente. Usa e Europa
dovrebbero smetterla di avere nella regione alleati privilegiati, ai cui
interessi finiscono per essere sacrificati gli interessi della
stabilità e della pace. Noi abbiamo bisogno di un equilibrio fra i
diversi Stati e di una convivenza basata sul rispetto dei diritti umani e
dei principi del diritto internazionale».
Lei nel 2006 fu molto criticato per la sua passeggiata a Beirut sottobraccio a un deputato di Hezbollah.
«Spesso
in Italia prevale l’ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si
parli. Hezbollah rappresenta una parte significativa della società
libanese. All’epoca faceva parte della coalizione di governo: il
ministro degli Esteri era un accademico islamico espressione di
Hezbollah. Siccome io lavoravo per la pace tra Israele e Libano, era
inevitabile che incontrassi anche le forze che governavano il Libano».
Come andò?
«Arrivai
a Beirut il mattino del 14 agosto, un’ora dopo la fine dei
bombardamenti di Israele, che aveva colpito sino a un secondo prima del
cessate il fuoco deliberato dall’Onu. Il ministro degli Esteri mi disse
che c’erano molte vittime nei quartieri popolari, e avrebbe apprezzato
che avessi fatto loro visita. Non era una manifestazione estremista; era
lo scenario di un dramma, con civili che cercavano i loro congiunti
sotto le macerie. Il mio fu un gesto di solidarietà umana giusto e
apprezzato, che contribuì a garantire la sicurezza dei nostri militari
poi schierati sul confine. Come i gesti che compii dall’altra parte,
visitando i familiari di soldati israeliani rapiti. E incontrando
all’aeroporto di Tel Aviv lo scrittore David Grossman, che in quella
guerra aveva perso il figlio. Citai una felice espressione di Andreotti:
l’equivicinanza. In Italia mi presero in giro».
Ora i guerriglieri sciiti sono nostri alleati?
«Alleati
no; ma combattono il nostro stesso nemico. E in Siria noi dobbiamo
costruire un fronte anti-Isis tra il governo, i suoi sostenitori interni
tra cui la minoranza cristiana, i suoi sostenitori esterni che sono la
Russia e l’Iran, e i gruppi sunniti appoggiati dall’Occidente».
In Libia cosa si può fare?
«Dopo
il disastroso intervento di Francia e Gran Bretagna, in Libia c’è stata
una gestione debolissima della crisi da parte dell’Onu. Né si è capito
perché l’Europa l’abbia accettata. Ci si è impantanati in un’estenuante
mediazione tra il governo di Tobruk e quello di Tripoli, anziché
individuare una forte personalità politica, un alto rappresentasse delle
Nazioni Unite, in grado di coinvolgere i diversi Paesi arabi che su un
fronte e sull’altro hanno fomentato il conflitto».
Si era parlato di Prodi.
«Prodi
avrebbe potuto essere una soluzione adeguata. Nel frattempo invece
l’Isis si è insediato sulla sponda meridionale del Mediterraneo».
Qual è oggi il ruolo dell’Italia?
«Non
siamo tra i protagonisti. Questo ci ha evitato se non altro di
commettere errori. Non siamo tra coloro che hanno destabilizzato, ma
neppure tra coloro che cercano di rimettere insieme i pezzi».
In Libia siamo stati una potenza coloniale.
«Ma
in Libia non c’è affatto un sentimento anti-italiano, come mi hanno
confermato i sindaci delle principali città. Anzi, tutti sperano che
assumiamo un ruolo. Purtroppo il giorno dopo che Renzi ha rivendicato un
ruolo-guida in Libia, l’Onu ha nominato l’ambasciatore tedesco».
L’Italia
è passata dalla fase in cui «si andava in Europa con il cappello in
mano» a quella in cui «si picchiano i pugni sul tavolo». Ma qual è la
strategia giusta?
«Non siamo mai andati in Europa con il cappello
in mano. Il centrosinistra vi andò con l’autorevolezza di governi che
ridussero il debito pubblico dal 132 al 102% del Pil, portando l’Italia
nell’euro e ottenendo per Prodi la presidenza della Commissione. Quando
Ciampi prendeva la parola a Ecofin, non era considerato un questuante. A
picchiare i pugni sul tavolo provarono Berlusconi e Tremonti, senza
grandi fortune. Non seguirei quella strada. Renzi, anziché baccagliare
con la Merkel, dovrebbe farsi promotore con gli altri leader del
socialismo europeo di una nuova politica. Che fine ha fatto il piano di
investimenti Juncker?».
I socialisti europei a Bruxelles e a Berlino fanno i vice dei conservatori.
«In
tempo di rivolta contro l’establishment, i socialisti rischiano di
rinchiudersi nel fortilizio con i loro antichi avversari, per giunta in
una posizione subordinata. Invece devono dialogare con i nuovi
movimenti. Che possono essere deviati a destra, in nome
dell’antipolitica. Ma possono anche essere declinati a sinistra. Sono
segnali interessanti sia il nuovo governo portoghese sia la scelta del
socialisti spagnoli, che respingono le pressioni per una grande
coalizione con i popolari e dialogano con Podemos ».