Corriere 11.1.16
Esce dall’Inferno Brunetto Latini : il suo Tesoretto è davvero un tesoro
L’alter ego dell’autore si perde in una «valle scura» che anticipa la «selva oscura»
Maestro di Dante che però lo relegò tra i violenti contro natura, fu un faro del tempo
di Paolo Di Stefano
Il
notaio, politico, traduttore, poeta, divulgatore, intellettuale di fama
internazionale Brunetto Latini fu maestro di Dante: il quale lo collocò
all’Inferno pur rendendo omaggio alla sua «cara e buona imagine
paterna» che gli insegnò «come l’uom s’etterna», cioè come si acquista
fama imperitura grazie al retto operare. Un maestro che l’Alighieri non
ripudiò, ma che per certi versi sentì superato (da se stesso in primo
luogo). Brunetto era nato circa quarant’anni prima di Dante, era stato
ambasciatore guelfo presso il re di Castiglia Alfonso X, fu esule in
Francia in seguito alla sconfitta di Montaperti e tornò nella sua città
l’indomani della rivincita guelfa a Benevento, ricoprendo incarichi
politici sempre più importanti fino alla morte, avvenuta nel 1293. Il
cronista trecentesco Giovanni Villani lo definì «sommo maestro in
rettorica, tanto in bene saper dire come in bene dittare», cioè
nell’arte dell’oratoria e nell’epistolografia ufficiale, ma soprattutto
lo considerò guida politica e culturale dei fiorentini. Un faro del suo
tempo.
Nel canto XV, l’incontro del pellegrino Dante con l’anima
del notaio, vagante — come gli altri violenti contro natura — per un
deserto di fuoco, si apre con un interrogativo di stupore, quasi un
sussulto di spavento dell’ex allievo: «Siete voi qui, ser Brunetto?».
Quel «voi» è il segno della massima reverenza, ma lo sbalordimento è il
segno della familiarità e dell’affetto (del resto ricambiato nel
sentirsi chiamare «figliol mio» dal vecchio maestro). Dunque, perché
Dante lo caccia all’Inferno, infliggendogli la terribile pena
dell’ustione eterna? Se n’è discusso all’infinito, ipotizzando la
blasfemia e l’eterodossia (religiosa e politica), ma il sospetto più
accreditato è che Brunetto fosse colpevole di sodomia, anche se nei
documenti dell’epoca non ci sono elementi che ne confermino
l’omosessualità, «vizio» caratteristico di «letterati e cherchi»
dell’epoca.
Quel che conta però, al di là dei peccati erotici veri
o presunti, è che Dante più di chiunque altro riconobbe al suo maestro
un ruolo intellettuale e morale esemplare, anche se come poeta lo sentì
complessivamente inadatto ai tempi. Resta, comunque, un debito di
riconoscenza anche al poeta, che si palesa non solo nelle dichiarazioni
esplicite, ma negli echi più o meno occulti disseminati dentro la
Commedia . Lo dimostra bene Stefano Carrai nella bella e lucida
introduzione e nel commento alle Poesie di Brunetto che, per sua cura,
escono da Einaudi. In realtà si tratta di un corpus poetico esiguo,
composto dal Tesoretto , un poemetto didattico incompiuto in distici di
settenari a rima baciata (circa 3.000), cui di solito si accompagna il
Favolello , un breve componimento nello stesso metro (160 versi) sul
tema dell’amicizia; e una modesta canzone d’amore.
Scrittore
prevalentemente in prosa, autore in lingua francese del Tresor , «la
prima enciclopedia volgare in senso proprio» (Segre) e compilatore del
trattato della Rettorica sul modello ciceroniano, il poeta Brunetto non
ha avuto quel che meritava. Carrai ricorda il parere di Hans Robert
Jauss, secondo il quale pesa sul Tesoretto «un pregiudizio estetico non
dichiarato» che ha contribuito a svalutarne il significato storico e le
indubbie qualità poetiche. Scritto a Firenze dopo gli anni dell’esilio
francese, si configura come una sorta di aggiornamento e di versione
minore in versi del Tresor , rispetto al quale è ormai accertato il
rapporto di dipendenza (si ricordi, tra parentesi, che il Tresor è stato
riproposto, nel 2007, sempre da Einaudi, nei Millenni).
Che cosa
narra il racconto visionario-allegorico del Tesoretto ? L’alter ego
dell’autore attraversando la piana di Roncisvalle, dove viene a sapere
della sconfitta di Montaperti, smarrisce la strada e si addentra
(pre-dantescamente) in una foresta, dove incontra la personificazione
della Natura che evoca gli episodi della creazione, degli angeli
ribelli, le vicende di Adamo ed Eva e del peccato originale, offre una
visione dei quattro elementi e del disegno astronomico, la descrizione
dei principali fiumi, da est a ovest, e delle bellezze delle terre
attraversate e dei mari, con elementi di lapidario e di bestiario. Alla
lezione di filosofia naturale seguono un’immersione nel Regno delle
Virtù e poi una puntata nel territorio di Amore, in cui Ovidio farà da
guida. Il viaggio di redenzione giunge infine a Montpellier, dove il
pellegrino trova riparo in un convento per espiare i propri peccati e
riprendere il percorso verso l’Olimpo.
Il progetto originario
brunettiano, ricorda Carrai, era più ambizioso e più ampio. Avrebbe
dovuto trattarsi di un prosimetrum (opera mista di rime e di prose) , se
è vero che l’intenzione, accennata qua e là, era quella di sciogliere
in inserti prosastici i luoghi che sarebbero stati più impervi e meno
comprensibili se consegnati ai versi. Si incontrano infatti alcune
promesse di ampliamenti futuri: ma la prevista «sinergia», o struttura a
più strati che affiancava il racconto didattico-allegorico con uno
svolgimento in prosa adatto a un pubblico più vasto (non solo ai colti
capaci di avvicinarsi al francese del Tresor ), non si realizzerà forse
per il subentrare di imprevisti impegni politici, forse perché il piano
iniziale non appariva più convincente allo stesso autore. Fatto sta che
l’operetta riuscì a imporsi, fra Tre e Quattrocento, anche nella forma
incompiuta che conosciamo, se ebbe, come pare dai manoscritti
superstiti, una circolazione non marginale. Non va escluso, tra l’altro,
che il Tesoretto incompiuto possa intendersi come «anello di
congiunzione» verso i ben più illustri prosimetri danteschi (la Vita
nova e il Convivio ).
Tornando alla Commedia , Carrai vi individua
numerosi echi del Tesoretto , come certe coincidenze di sintagmi (la
«valle scura» di Brunetto e la «selva oscura» dantesca), di punti di
vista (la messa in scena di un personaggio che parla di sé in terza
persona), di certi stilemi rari in rima ( epa -crepa ), di immagini e
movenze (flagrante la somiglianza tra il volgersi e il sorridere della
Natura e quello del personaggio di Matelda in Dante). Ma al di là delle
occorrenze minime, sarebbe la concezione complessiva del viaggio di
Dante nell’aldilà a subire l’influsso del programma pensato da Brunetto:
lo smarrimento dentro la foresta e l’incontro di una guida sul cammino
di rigenerazione. Certo, quando poi Dante deve decidere quale guida
scegliere per il proprio viaggio, troverà in Virgilio il «maestro di
bello stile senza condizioni, elargitore di un insegnamento imperituro»,
relegando il vecchio Brunetto, con i suoi settenari cantilenanti, al
ricordo riconoscente di una «cara e buona imagine paterna». C’era ben
altro maestro, Virgilio, a indicargli la via verso le sue
sperimentazioni metriche e visionarie.