Corriere 11.1.16
Un’Italia fragile scossa dalle onde della modernità
Il volume a cura di Galli della Loggia
di Antonio Carioti
Dove
va l’Italia? Anzi, più radicalmente, ci sarà ancora un’Italia degna di
questo nome, a lungo termine? Paiono domandarselo molti autori dei saggi
inclusi nel volume Questo diletto almo Paese , a cura di Ernesto Galli
della Loggia (Il Mulino), che raccoglie gli atti di un convegno
organizzato dal ministero dell’Istruzione nel 2011, in occasione dei 150
anni dell’unità nazionale, con il concorso dell’Istituto italiano di
scienze umane. Non c’è davvero nulla di celebrativo nei contributi
scritti da studiosi italiani e stranieri. Affiora invece spesso la
preoccupazione per le difficoltà crescenti del sistema italiano in una
fase storica concitata e conflittuale.
Per esempio Paolo Macry
teme che i poteri locali «finiscano per coltivare forme insidiose di
reciproca lontananza e di insofferenza sentimentale» fino a sviluppare
«il pensiero recondito della rottura dell’unità». Un rischio accentuato
dal fatto che, come segnala Francesco Barbagallo, l’interesse verso il
problema del Mezzogiorno appare oggi alquanto evanescente. Intanto
dall’estero lo storico francese Marc Lazar descrive un’Italia «sospesa»,
che fa da sismografo per scosse (si pensi all’ondata dell’antipolitica)
che poi si propagano nel resto d’Europa. Come se noi sperimentassimo
per primi, a causa di una strutturale debolezza, i malanni di cui un po’
tutte le democrazie occidentali, soprattutto quelle europee, finiscono
per soffrire.
Ovvio che ci s’interroghi sulle origini storiche di
questa fragilità. C’è anche chi, come Franco Cardini, ritiene che si
possa parlare di «falsa partenza» in riferimento ai modi in cui si
realizzò nel 1861 l’unità nazionale, con una soluzione verticistica
sostanzialmente «estranea alla storia policentrica» della Penisola. Di
certo, osserva Galli della Loggia, per tenere insieme questa costruzione
è stato necessario investire molto sulla dimensione politica,
assegnandole un primato che ha indebolito l’autorità dello Stato e reso
precarie le regole del gioco istituzionale: perciò, a suo avviso, la
modernità italiana «ha sempre qualcosa d’incompiuto, di precario,
d’incerto». Lo si vede bene nel campo della diplomazia, nota Angelo
Panebianco, con la persistente difficoltà delle forze politiche a
convergere su «una definizione condivisa dei nostri più vitali interessi
nazionali».
Non tutti gli interventi però sono improntati a una
vena pessimistica. Sostanzialmente positivo è, per esempio, il bilancio
del percorso di costruzione dell’identità nazionale avviato nel
Risorgimento secondo Giuseppe Galasso: l’autorevole storico napoletano
considera la trama odierna dell’italianità «un nesso socialmente e
umanamente inestricabile». Mentre Roberto Esposito espone quelli che a
suo avviso sono i punti di forza della nostra tradizione filosofica,
tali da renderla particolarmente attuale nell’ora presente: la capacità
di pensare il momento politico anche «fuori dallo Stato»; il
riconoscimento del conflitto e della contingenza come «il fondo
dell’esperienza umana»; il senso del limite e la conseguente critica
della «fiducia astratta» nel progresso; la consapevolezza che
l’individuo non è mai un soggetto a se stante, ma vive costantemente
immerso in un ordito di relazioni sociali.
La nostra scarsa
propensione al senso dello Stato ci rende dunque vulnerabili, ma forse
ci ha permesso di sviluppare antenne più adatte a captare i rivolgimenti
provocati da una globalizzazione che spazza via giurisdizioni e
frontiere. Resta però da capire se e come riusciremo ad affrontarli.