Repubblica 7.12.15
La guerra non è un videogioco
di Stefano Bartezzaghi
IL “VECCHIO scarpone” della popolare canzone è ritornato. La retorica del dibattito sulla vasta crisi internazionale causata dagli attacchi del Daesh si gioca sulla denominazione di “guerra” da attribuire o no ai conflitti in corso. La rappresentazione figurativa che si dà oppone due icone. La prima è modernissima, la vera novità degli apparati bellici: i droni. Il loro nome è quello inglese dei fuchi: i maschi delle api, considerati tradizionalmente inutili anche perché privi di pungiglione. I droni militari in realtà sono tutt’altro che inoffensivi: oltre a svolgere compiti esplorativi e ricognitivi possono essere armati. Colpendo dall’aria, come del resto i bombardieri tradizionali, danno l’impressione di un combattimento asettico e “intelligente”. L’altra metafora che li riguarda è quella chirurgica: con il fatto di non toccare terra, sembrano operare in modo non invasivo come appunto la chirurgia che non tocca la pelle del paziente. Il loro carattere distintivo dal resto dell’aviazione è dato, ovviamente, dal fatto che sono pilotati da terra e “in remoto”. Alla loro azione si oppone quella invece antichissima degli “scarponi”. Questa è una guerra, si dice, e le guerre si vincono con gli scarponi nel fango, cioè invadendo fisicamente il territorio nemico con schieramenti di soldati.
L’opposizione fra droni e scarponi ci fa capire quanto il regime della rappresentazione è pertinente in ciò che sta succedendo, in Medio Oriente, in Europa e nel mondo. Nel racconto che se ne fa giorno dopo giorno la “guerra” sembra uscita dai monitor delle Playstation, con cui gli attentatori si addestrano e comunicano, e ha finito per bucare i monitor con cui noi siamo abituati a osservare lo spettacolo dei conflitti lontani e che ora possiamo invece vedere direttamente dalle nostre finestre. Le nostre stesse persone fisiche non sono più “rappresentate” da chi combatte per noi, e da chi li comanda (cioè i rappresentanti che abbiamo eletto per governare la complessità del mondo): sono direttamente in gioco, quando attendiamo in fila per sottoporci a controlli, quando ci viene richiesto di non usare i mezzi pubblici nelle nostre metropoli (come a Parigi) o addirittura di non uscire di casa (come a Bruxelles), quando evitiamo i luoghi pubblici per timore di attentati, quando infine ci ritroviamo minacciati proprio fisicamente per il solo fatto di essere andati allo stadio, in un negozio kosher, a un concerto rock, a prendere un aperitivo in un bistrot.
Finite le rappresentazioni, è incominciata (o ricominciata) la realtà: così ci viene detto. Lo stesso nome di “guerra” (così come il ritorno dei bruschi moniti di Oriana Fallaci) è un modo per tagliar corto. Basta con i sofismi della semantica! La guerra è guerra e quindi mettiamoci gli scarponi.
“Semantica”, nel discorso mediale, è sinonimo di inezia da perdigiorno, lusso da filosofi. Negli stati di emergenza, ci si dice, la realtà sopravanza le parole, che a loro volta sono semplici rappresentazioni e una vale l’altra. Il filosofo che batte la testa contro il muro, il gradino che fa inciampare, la pioggia, sono tutti eventi che dovrebbero convincerci che il mondo esiste davvero, anche fuori dal modo in cui ce lo rappresentiamo. Ma naturalmente anche quest’ultima è una rappresentazione.
“Guerra” è invece una parola, prima che una cosa. Lo è così tanto che deriva da una radice germanica ( werra, mischia) ed è stata sostituita in epoca medioevale alla radice latina bellum, perché quest’ultima era troppo vicina al “bello”. Ma “guerra” è una parola che muove: non solo nel senso del movere, che è anche commuovere, emozionare; anche nel senso che mobilita. È dunque una risorsa, una parola buona per titoli di giornale e tg, e per fare in modo che il racconto dei fatti ci convinca che il racconto stesso è finito, siamo tutti coinvolti e non è più tempo di parole. Ma è appunto un racconto anche questo, “droni” e “scarponi” sono parole a loro volta e la rappresentazione della realtà non incomincia quando ne parliamo bensì quando la percepiamo. Possiamo sceglierci il modo di rappresentarci la realtà e gli attori politici che siano i nostri rappresentanti su questo scenario. Ma pensare che la realtà ci si dia in modo diretto — fuori da ogni storytelling — non è a sua volta realtà: è la più perfetta e compiuta delle illusioni.