Repubblica 4.12.15
Sfida all’ ultima email
Si chiamano Slack Basecamp, HipChat Nella Silicon Valley è caccia alle alternative alla posta elettronica Obiettivo: arginare l’assedio quotidiano che ci rende meno produttivi ma soprattutto più infelici
di Riccardo Luna
C’È un fantasma che si aggira nelle nostre vite. Un rito che si ripete ogni giorno, con puntualità crudele sebbene involontaria. È una frase, una semplice frase, il più delle volte pronunciata senza malizia ma anzi cercando di essere gentili, eppure quelle quattro parole sono capaci di gettarci nello sconforto. Sono queste: «Ti mando una email».
No, vi prego, un’altra email no. Fatemi una telefonata piuttosto, e se trovate occupato, ricorrete a un piccione viaggiatore o fate dei segnali di fumo. Qualunque cosa. Ma un’altra email no. Perché? Perché sono diventate troppe. Tra quelle dirette, quelle in cui siamo solo in copia con altre persone che quando rispondono moltiplicano quel messaggio esponenzialmente, e quelle in cui siamo in copia nascosta: l’email è ormai uno tsunami digitale che travolge le nostre vite, deprimendo la produttività e soprattutto la felicità. È una storia antica, per quanto antiche possono essere le storie nel mondo digitale; ma abbastanza perché ogni tanto qualcuno si alzi per annunciare gravemente la morte dell’email, sostituita da chissà quale altro strumento più intelligente.
L’ultimo si chiama Slack, che in inglese vuol dire “rilassato, lento”, detto di uno che “non sta lavorando”. Ecco perché la promessa di Slack è importante nei tempi frenetici che viviamo: “Be less busy”, che potremmo tradurre con “sii meno impegnato”. Rilassati. Eppure Slack è uno strumento di lavoro. Anzi, vuol essere lo strumento di lavoro «per team che vogliono cambiare il mondo ». Non a caso in Silicon Valley sta spopolando. Lo usano startup in rampa di lancio come AirBnb e Buzzfeed, ma anche colossi come Comcast e Walmart e istituzioni governative come la Nasa e il Dipartimento di Stato.
Cos’ha di speciale? In fondo nulla. È una app di messaggistica come altre, da Basecamp a Campfire, da Grove a HipChat. Ma fa tutto benissimo. Intanto consente a team di lavoro di collaborare anche in posti del mondo lontani, aprendo canali per ogni nuovo progetto. In quei canali si può partecipare inviando documenti da praticamente tutte le altre fonti, dalle app di Google a Dropbox, con un clic. Quei canali diventano così lo strumento di lavoro all’interno del quale tutti possono fare ricerche facilmente, essendo informati dei progressi e dei problemi in corso. Si sincronizza istantaneamente con tutti gli strumenti — telefonino, tablet, pc. È gratis per i piccoli team, oppure costa da 6 a 12 dollari al mese per utente.
Complessivamente, ogni giorno, 1,7 milioni di persone usano Slack: davvero poche in termini assoluti, non v’è dubbio, ma la crescita è stata rapidissima dal lancio nel febbraio 2014. E le critiche sono iperboliche: c’è chi grida al “miracolo”, chi parla di produttività che schizza in alto, chi semplicemente si dice felice. Perché tanto entusiasmo? Perché risolve uno dei problemi del nostro tempo: scambiarsi messaggi facilmente senza intasare l’email. Tutto qui? No, infatti, sebbene il fatturato non raggiunga i 50 milioni annui, è valutata già quasi 3 miliardi di dollari e secondo molti osservatori, se riuscirà nell’impresa di uccidere l’email e cambiare il modo in cui lavoriamo, può arrivare a 100. Ha senso? Sicuramente il fondatore ha una storia solida alle spalle. Si chiama Stewart Butterfield, ha 42 anni e dieci anni fa ha venduto a Yahoo! l’azienda che aveva creato per 25 milioni di dollari: era Flickr, il primo, popolarissimo servizio per caricare e condividere le proprie foto. Ancora non si perdona quella scelta frettolosa.
Slack è nato quasi per caso un paio d’anni fa: Butterfield aveva lavorato a creare un videogame, sua antica passione. Si era rivelato un flop, ma in compenso lo strumento che aveva realizzato per far collaborare il suo team funzionava alla grande. Tutti stavano più rilassati, dirà. Per que- sto lo ha chiamato Slack.
Può davvero liberarci dall’invasione quotidiana? Più delle previsioni, contano i numeri. Nonostante i tanti tentativi di ridurne l’uso, ancor oggi, ogni secondo, nel mondo vengono inviate due milioni e quattrocentoquarantacinquemila 465 email. Ogni secondo. Nello stesso tempo le ricerche su Google sono 50mila, i tweet 10mila, le foto caricate su Instagram 3mila, le chiamate su Skype meno di duemila. No, l’email non sta morendo. Noi sì in compenso.
Qualche mese fa il fondatore di Hootsuite, uno dei servizi che aiutano a gestire meglio i propri account Twitter, ha fatto un post per dire in sostanza “mi arrendo”. Il 12 gennaio, come proposito per l’anno nuovo, Ryan Holmes ha dichiarato “la bancarotta” del suo account; ovvero i messaggi in attesa di essere letti erano talmente tanti che ha fatto l’unica cosa possibile: li ha selezionati tutti e li ha spostati nel cestino. Libero, finalmente. E il brutto è che ormai non ci sono solo le email: i messaggi ci arrivano sotto forma di messaggi privati su Twitter, dal Messenger di Facebook, dalle chat di Whatsapp e adesso anche di Instagram, e via così.
Come fermare l’invasione che ci fa vivere peggio e ci rende meno produttivi? La posta in palio è altissima, per questo i giganti della Silicon Valley si cimentano con questa sfida: qualche tempo fa Google ha lanciato InBox, un sistema innovativo per la gestione del sistema di posta di Gmail: le aspettative erano alte, in rete era caccia agli inviti per testare per primi la app. A distanza di un anno è davvero impossibile dire che InBox possa considerarsi un successo. Sì certo, il tasto che consente di ritirare un messaggio entro 10 secondi dall’invio può essere utile per utenti impulsivi, ma se l’obiettivo era una gestione migliore delle email in entrata ancora non ci siamo.
L’impressione è che il problema non sia risolvibile con la tecnologia (almeno finché non arriveranno la telepresenza diffusa o fantascientifici strumenti per la lettura del pensiero, sostiene qualcuno). Quello che serve è l’educazione degli utenti. Già nel 2010 ebbe successo un manuale — “Send” — che già nel titolo faceva un’accusa precisa: “Perché le persone usano la email così male e come si può migliorare” (pare che Hillary Clinton ne abbia recentemente acquistata una copia dopo lo scandalo delle email in cui è rimasta coinvolta).
In realtà, con il proliferare dei servizi di messaggistica, la situazione è peggiorata. Peter Diamandis, gran guru della Singularity University e profeta del positivismo digitale, tre mesi fa invece del solito post sull’intelligenza artificiale è sceso sulla terra per pubblicare un prontuario di uso corretto dei social media. Il presupposto è che ogni strumento ha un utilizzo ideale e quindi «LinkedIn è per il lavoro, Facebook per gli amici, Snapchat per gli amici intimi, gli sms per le comunicazioni urgenti, Twitter per dire qualcosa a tutti, Skype per le telefonate a distanza, il telefono per comunicare qualcosa di davvero intimo, infine Slack, già Slack, serve a lavorare in gruppo».
E l’email? «La verità», conclude Diamandis, «è che l’email è probabilmente la peggior forma di comunicazione che abbiamo a disposizione». Peccato che i 3 miliardi di utenti della rete non siano d’accordo e questa semplice ragione la rende ancor oggi la strada migliore per raggiungere qualcuno. A quattro condizioni, secondo Diamandis: «Che l’oggetto sia chiaro e interessante; che le prime due righe sappiano cogliere l’attenzione di chi legge; che il testo sia breve; e che il messaggio richieda una risposta semplice, netta». Se non ci riuscite, provate con Slack.