Repubblica 3.12.15
La generosità di chi vuole sentirsi amato
di Vittorio Zucconi
UN’OMBRA di rimorso, un filo di buon cuore, una gran voglia di essere amati e tanta ansia di passare dalla parte buona della storia, nutrono di miliardi la cultura della megabeneficenza che impregna da 100 anni il mondo dei super ricchi americani. Fu il libro di una giornalista investigativa, Ida Tarbell, pubblicato nel 1904 contro Henry Ford a spalancare la porte alla valanga della “charity”. Scritto per rivelare gli scheletri nell’armadio della già potente famiglia Ford, indusse il vecchio Henry a lanciare fondazioni di carità per imbiancare la facciata della famiglia, indicando quella strada sulla quale ora corrono Mark Zuckerberg e la moglie, la dottoressa Priscilla Chan, per conquistare la simpatia di un mondo che non sempre li ama.
Non tutti i “megadonors”, come sono chiamati i super elemosinieri che destinano anche il 99 per certo della proprie fortune alle opere di bene come il Re Mida della finanza Warren Buffet, hanno qualcosa, o molto, da farsi perdonare come i Ford e i Rockefeller, ma un filo comune lega il creatore della motorizzazione di massa all’inventore di Facebook 110 anni dopo: il bisogno di sentirsi amati. È l’ansia di lasciare nel mondo che le loro invenzioni, le loro loro creature commerciali, le loro intuizioni hanno cambiato, un segno che sopravviva all’effimero del successo e della ricchezza.
I cinici, e gli avvocati fiscalisti, aggiungono immediatamente che le donazioni benefiche (ma non quelle ai partiti) sono detraibili interamente dalle tasse. Attraverso il labirinto delle 700 mila pagine del codice fiscale federale americano, carità, fondazioni senza fini di lucro, elargizioni, costruiscono infrangibili scudi contro la ferocia del minotauro esattore, lo IRS. Ma gli interessi spiegano soltanto una piccola parte di questa marea di dollari, quasi 400 miliardi all’anno, rovesciati dai grandi ricchi, ma anche da donatori di mezzi più modesti, in beneficenza. Neppure se Zuckerberg pagasse il dovuto 40% di imposte sul reddito lordo, Max la bambina cadrebbe in denutrizione.
Nella cultura calvinista americana che impregna il mondo del business indipendentemente dalla formazione religiosa dei donatori che possono essere ebrei come Zuckerberg o protestante come Bill Gates, la ricchezza non è una colpa nè tanto meno “sterco del diavolo”. Ma il rovescio della stessa religione del successo finanziario si fa sentire. L’immensa ricchezza è un segno della benevolenza divina, è “grazia di Dio”, dunque, proprio perché materalizza in dollari e cent il “God’s Blessing”, questa benedizione celeste ricorda che essa non appartiene soltanto a loro. «Noi siamo il veicolo attraverso il quale il Signore versa sull’umanità la propria generosità, con il compito di trasmetterla a coloro che sono stati meno fortunati di noi», ripeteva W.K. Kellogg, fervente avventista e pontefice massimo dei cereali da prima colazione.
Sono colossali riflussi gastrici di bontà e di attivismo benefico che aiutano uomini e donne afflitti da mostruose indigestioni di danaro che nessun riuscirebbe a digerire neppure in molte vite successive — come i 95 miliardi di Bill Gates o i 485 di Warren Buffet — che sentono l’urgenza di incanalare verso le cause più diverse e talora stravaganti, se non peggio. Kellogg, il signore dei cereali, spese 300 milioni di tasca propria, una cifra prodigiosa nel 1938, per una campagna di fluoridizzazione dell’acqua in isole dei Caraibi dove la carie dentale imperversava, Mentre Henry Ford, dalle ben note simpatie naziste e antisemite, finanziava l’istituto tedesco di ricerche mediche dal quale provenne il diabolico dottor Mengele, aguzzino di Auschwitz.
Non è pensabile, non sarebbe eticamente o personalmente concepibile per “megaricchi” come Zuckerberg, Page e Brin di Google, Buffet, Bill e Melinda Gates, come non lo sarebbe stato per i banchieri e acciaioli Mellon e Carnegie, non creare fondazioni benefiche. Versare miliardi per combattere la malaria, per bonificare l’acqua nelle nazioni povere, per dedicarsi allo studio del cancro come fece Armand Hammer ingaggiando senza limiti di spesa il Nobel italiano Dulbecco, combinano il desiderio di sentirsi contribuenti al bene dell’umanità essendo insieme estensioni del loro ipertrofico ego. Il principio della “carità anonima” a loro non si applica.
Comperati tutti gli aerei privati possibili, varati tutti gli yacht più sontuosi, costruite tutte le case più sfarzose con ricoveri sotterranei per sei barche come nella villa di Gates sulla coste dello Stato di Washington, la Fondazione è l’indispensabile e prezioso giocattolo per chi ha tutto, e troppo di tutto. E sente, come Zuckerberg davanti alla sua prima neonata chiamata Max, il morso di un futuro che, dopo avere vinto la battaglia del presente, vogliono continuare a condizionare per i figli, in bene.
Come ripetono tutti loro, dal genio della Silicon Valley che si ritrova miliardario grazie a una semplice “app”, al supercampione sportivo che firma un contratto da 200 milioni, sentono di dover “give back”, di dover restituire un poco della loro fortuna alla comunità che tanto ha dato loro, ma non a governi incapaci di colmare quei vuoti di ricerca e di invesimenti che loro riempiono. Certamente, anche donare il 99 per cento del proprio patrimonio in beneficenza non li riduce all’incapienza, visto che per Warren Buffet il finanziere l’1 per cento residuo rappresenterebbe sempre quasi 5 miliardi di dollari, un discreto gruzzolo. Ma fare i benefattori con i soldi degli altri è sempre facile. E se anche un solo bambino in Africa sarà salvato dalla malaria grazie a Bill Gates, che saranno mai cinquanta mliardi in più o in meno. Per loro.