giovedì 3 dicembre 2015

Corriere 3.12.15
La mostra a Casale MonferratoFollia naturale, follia artificiale. Alla scoperta dell’arte degli outsider
di Sebastiano Grasso


A i primi di settembre del 1959, Alberto Moravia, accompagnato dallo scultore scozzese Michael Noble, visita a Verona il manicomio di San Giacomo della Tomba. Nel ’52 Noble ha sposato Ida Borletti e trascorre alcuni mesi all’anno nella villa della donna sul Garda. Assieme all’artista Pino Castagna, allo psichiatra Mario Marini e al direttore del nosocomio Cherubino Trabucchi egli è uno dei fautori dell’atelier di pittura creato, negli anni Cinquanta, all’interno dell’ospedale.
«In uno stanzone più lungo che largo — nota Moravia qualche giorno dopo sul Corriere della Sera — sono allineati, come in una scuola, tanti tavolini ai quali seggono i malati di mente intenti a dipingere (…). Il rimedio principale di questa cura si chiama espressione artistica (…). Prima di essere internati, erano poveri artigiani, semplici contadini. La prima riflessione che viene dunque in mente è che essi sono diventati pittori a causa e grazie alla pazzia».
Riflessione sulla scia di Cesare Lombroso, il quale, quasi un secolo prima, scrive che arte e follia sono complementari. La follia «sviluppa l’originalità della creazione (…) spicca anche nei lavori dei semidementi, perché, lasciando più libero il freno dell’immaginazione, dà luogo a creazioni da cui rifuggirebbe una mente troppo calcolatrice per paura dell’illogico e dell’assurdo».
La visita di Moravia è del ’59. Coincide con quelle del veronese Vittorino Andreoli, studente di 19 anni, che, entusiasta, non solo ne diventa un sostenitore, ma addirittura, «scopre» Carlo Zinelli e porta i suoi quadri a Jean Dubuffet a Parigi.
Quest’ultimo — colpito da L’attività plastica dei malati di mente (1922) di Hans Prinhorn, in cui lo studioso tedesco traccia un parallelismo fra i lavori di malati di mente e quelli di «grandi maestri schizofrenici» come Van Gogh, Kubin, Ensor, Kokoschka e Nolde — già dal 1940 colleziona lavori di «pazzi» che creano solo per dare sfogo a impulsi ed emozioni, lontani da canoni estetici. Nel 1947 Dubuffet, assieme ad André Breton e Jean Paulhan, fonda la Compagnie de l’art brut (termine da lui inventato due anni prima) ; René Drouin mette a disposizione la propria galleria. Nel 1977, il critico d’arte inglese Roger Cardinal ribattezza l’«Art brut» (arte grezza) in «Outsider art» (arte fuori da schemi).
E proprio col titolo di Outsider art s’è aperta a Casale Monferrato (Castello, sino al 4 aprile; catalogo Jaka Book) una grande rassegna di 130 fra dipinti e sculture di 42 artisti della collezione Fabio e Leo Cei (dal 1970 a oggi), a cura di Giorgio Bedoni, psichiatra e docente all’Accademia di Brera. Gli autori? Italiani, francesi, tedeschi, austriaci, inglesi, serbi e montenegrini.
Volti, silhouette, paesaggi, scritture indecifrabili: sfila una sorta di nastro magnetico sul quale sono registrati fantasmi, terrori, effluvi. Un mondo visionario, figlio di incubi, espressione di deliri: figure geometriche, ombre cinesi, battaglie di lillipuziani, scontri fra uccelli in volo, incisioni rupestri. Ognuno ci vede quello che vuole. Creazione allo «stato puro», direbbe Michel Tapié.
Mostra interessante, questa, di un collezionismo «particolare», che naturalmente ripropone il problema del rapporto tra genio e follia. Quando Andreoli porta a Parigi i lavori di Zinelli, Dubuffet lo accompagna da Breton. «Si disse che Carlo non solo era un pittore brut — ricorderà lo psichiatra e scrittore — ma tra i suoi maggiori rappresentanti. Assieme ad Aloyse (manicomio di Losanna) e Wölfli (manicomio di Vienna) entrò a formare una famosa triade».
Arte «figlia di un dio minore», la definisce Bedoni. Che, in catalogo, ne ricostruisce l’avventura italiana: da Lombroso alla «figura pioneristica» di Soffici; dalle linee «percorse» da Garbari, Magri, Ligabue alle presenze critiche (Menozzi, Trucchi, Dorfles); dagli scrittori (Zavattini, Buzzati) ai collezionisti (di «impronta danubiana», quella dei Cei). Fra i protagonisti, oltre agli ospiti di manicomi, ci sono braccianti agricoli, muratori, viticoltori, trattoristi, chiaroveggenti, giardinieri di un cimitero. E viaggiatori solo sulla carta geografica.
Follia «naturale» e follia «artificiale». Che investe anche la letteratura. Non dimentichiamo che i vari Coleridge, De Quincey, Baudelaire, Rimbaud, Poe, Verlaine, Cocteau per creare, cercavano di raggiungere lo «stato di grazia» attraverso hashish , oppio, mescalina e assenzio (usato, in gioventù, anche da Borges: lo confesserà in un’intervista).
Mallarmé, invece, «programmava la crisi» a forza di champagne.