giovedì 3 dicembre 2015

Corriere 3.12.15
Le feconde incoerenze di Croce
di Mario Andrea Rigoni


Mi sembra che l’olimpica personalità di Benedetto Croce, la più alta e autorevole figura intellettuale e morale della prima metà del Novecento italiano, riservi a ben guardare non poche felici sorprese e contraddizioni.
Croce definiva il proprio sistema uno «storicismo assoluto», avverso a ogni forma di trascendenza, ma riteneva che la poesia, per il suo carattere di intuizione lirica, sfuggisse totalmente alla trattazione storica. Rifiutava al Leopardi il rango di filosofo, ma non fece mai cenno (salvo per il concetto dell’essenza lirica della poesia) a un fatto clamoroso: come ebbi occasione di dimostrare in un saggio adesso compreso nel mio volume Il pensiero di Leopardi (Aragno, pp. 346, e 20), quasi tutti i concetti fondamentali e tipici dell’estetica di Croce, quali l’autonomia dell’arte, la distinzione tra poesia e non poesia o, con formula attenuata, tra poesia e letteratura come nobile ma semplice prodotto della cultura e della civiltà, l’arbitrarietà della teoria classica dei generi e altri ancora, sono più che abbozzati nello Zibaldone di pensieri di Leopardi, con una sorprendente affinità o coincidenza non solo concettuale, ma perfino terminologica. Croce considerava il Barocco una perversione del gusto, ma esplorò, studiò e pubblicò opere di autori maggiori, minori e minimi di quel periodo come nessuno ha fatto né prima né dopo: fra l’altro tradusse e annotò le barocchissime fiabe del Cunto de li cunti di Giovan Battista Basile. In generale si riteneva, con molta modestia, inadatto alla critica letteraria, vista anche in posizione subordinata rispetto all’attività speculativa della quale la critica poteva essere tutt’al più un’esemplificazione, ma svolse in questo ambito un’attività di enorme vastità e impegno, lasciando saggi memorabili come quello dedicato all’Ariosto.
Al progetto di riedizione delle opere di Croce intrapreso da Adelphi dopo un lungo e ingiustificato oblio editoriale e critico appartiene anche la ripresa di un’antologia dei Poeti e scrittori d’Italia apparsa per la prima volta nel 1927 nella Collezione scolastica di Laterza: essa non fu composta, ma fu conosciuta e approvata da Croce, acquisendo dunque tutti i crismi della legittimità. Non si tratta tuttavia di una semplice ristampa: grazie all’ amorosa acribia di un conoscitore della qualità di Giuseppe Galasso, la nuova edizione Adelphi, di cui esce adesso il primo volume, include risultati del cospicuo lavoro critico svolto da Croce dopo il 1927, come mostra una tavola comparativa della struttura delle due antologie opportunamente inserita nel volume Poeti e scrittori d’Italia. I: Dallo Stil novo al Barocco (pp. 519, e 34).
In questo primo volume (il secondo andrà dall’Arcadia al Novecento) si può già considerare quale contributo Croce abbia dato, se non a una storia letteraria in quel senso tradizionale che egli rifiutava, a una critica estetica che, come osserva Galasso nella sua puntualissima introduzione, non trascurò quasi nessuno dei periodi e degli autori della letteratura italiana.
Notevole è anche il rinnovamento del giudizio critico: Croce sgombra il campo dalle tradizionali ricerche del dantismo professionale e inaugura un’interpretazione della Divina Commedia , discutibile quanto si vuole, ma sicuramente «moderna»; considera la letteratura devozionale e i libri sulle corti; rivaluta il petrarchismo come fenomeno di nobile civiltà, se non di alta poesia; evidenzia, contro le interpretazioni di un Machiavelli cinico e immoralista, l’«acre amarezza» soggiacente al suo realismo politico e insinua che la sua boccaccesca Mandragola abbia un fondo tragico; scrive pagine acute non solo sulla Gerusalemme liberata, ma anche sulle trascurate poesie di Campanella. Se già quarant’anni fa Natalino Sapegno osservava che «i giovani non leggono più Croce», sarebbe salutare che gli studenti, e naturalmente gli studiosi, ricominciassero a farlo anche per la lezione della sua prosa, oltre che delle sue idee.