giovedì 3 dicembre 2015

Repubblica 3.12.15
Giuseppe De Rita
Il presidente del Censis: “Renzi avrebbe dovuto mostrarsi più cauto in economia”
“Un’Italia da zero virgola ferma da quindici anni non è così che si cresce”
Può far comodo dire che il Pil non sale dello 0,9% per colpa della paura del terrorismo ma non è vero
intervista di Luisa Grion


ROMA Aumentano i consumi, si affaccia una parvenza di ottimismo, la vita continua anche dopo gli attentati di Parigi. «Bene – dice Giuseppe De Rita, presidente del Censis – ma di cosa stiamo parlando? Di “zero virgola”, di piccoli aggiustamenti, dati che non cambiano il sistema. Quando mi chiedono di commentare queste cifre mi cascano le braccia ».
Presidente, stiamo pur sempre parlando di segni più, dopo anni di segno meno.
«Direi piuttosto che stiamo parlando di staticità, quindici anni di staticità. Acquisti sobri, maggiori risparmi, investimenti di piccola portata. Non è così che un Paese riaccende la macchina ».
Lei cosa vede dietro questa crescita “zero virgola”?
«Consumi parsimoniosi e prudenza rispetto al futuro. C’è stata la fiammata delle auto, come due anni fa quella dei telefonini, ma ormai, per quanto riguarda la spesa, restiamo sobri. Anche chi si muove lo fa attraverso investimenti minimi. Si aprono piccole attività, gelaterie, rosticcerie. Si divide l’appartamento in due per destinarne metà a bed&breakfast. Ma anche questi, appunto, sono comportamenti da “zero virgola”, non parlerei di crescita».
Cosa dobbiamo fare allora? Rassegnarci alla staticità?
«No, ma rendersi conto che la realtà è questa. Vanno valorizzati i movimenti in atto, sapendo che daranno risultati nel lungo periodo. Gli spostamenti ci sono e sono più incisivi di quanto possa apparire in un primo momento. Ma chi voleva cambiare tutto e subito deve ammettere che questo Paese non funziona così».
Si riferisce a Renzi?
«Il premier ha fatto molti cambiamenti sul piano politico e dei rapporti di potere. Ma chi si aspettava dal governo qualcosa che ci facesse uscire dalla staticità deve ammettere che così non è stato. D’altra parte, chi conosce l’Italia sa che era pressoché impossibile che ciò accadesse. Chiedere cambiamenti sociali, chiedere talenti è come chiedere di andare in guerra. Non è questo lo spirito del Paese».
Lei aveva previsto questi risultati?
«Se Renzi mi avesse chiesto un consiglio gli avrei detto “stai cauto, segui l’onda”. Il premier deve tenere accesa la fiducia: parla di una ripresa che è lì lì per arrivare , che già c’è. È generoso e così deve essere, ma poi i numeri della crescita sono quelli che sono e contano poco le distinzioni fra Renzi e Padoan sullo 0,7 o sullo 0,9 per cento. Stiamo parlando di poca cosa, per questo l’essenziale è uscire dall’ottica del giorno per giorno».
Certo il terrorismo a Parigi non ha aiutato.
«Può far comodo dire che il governo non ha raggiunto l’obiettivo dello 0,9 per cento a causa degli attentati a Parigi. Ma non è così. Sì, forse qualcuno ha cenato a casa piuttosto che al ristorante o, per paura, non è andato al cinema. Ma si può veramente pensare che chi abita a Bevagna non faccia la spesa perché ha paura delle bombe? O che chi a Roma vive nel quartiere di Pietralata non esca perché teme attentati a San Pietro?» Lei per anni ci ha parlato di una Italia dinamica e dalle mille risorse. Cos’è cambiato da allora?
«Eravamo un paese ex povero, ora godiamo dell’agiatezza in forma statica».
Però, dice l’Istat, le diseguaglianze sono tutte lì, anzi sono aumentate.
«Ma sono diseguaglianze che non alimentano il conflitto e questo è parte del problema. Se non c’è conflitto non c’è sviluppo. Quaranta anni fa il conflitto c’era. Eccome. E non solo per via del ‘68. C’erano gli operai, la Fiat di Agnelli e Romiti, c’erano Torino e Reggio Calabria. Confronti che hanno portato a colmare le diseguaglianze. Ora non si capisce quale sia il fondamento della divisione e le differenze non creano tensioni».
Sarà anche colpa del fatto che questo non è un paese per giovani e che quel poco lavoro che c’è va agli over 50?
«Lasciare un po’ di posti a figli non farebbe male e libererebbe energia, anche se le aziende preferiscono i cinquantenni. Ma sono vent’anni che parliamo di problema generazionale, fosse questo il centro della questione qualcuno lo avrebbe risolto».