Repubblica 30.12.15
La strategia del plebiscito
Con il referendum si va oltre il cabotaggio quotidiano e le beghe partitiche
di Stefano Folli
NON è esatto dire che la conferenza stampa del presidente del Consiglio è stata ripetitiva e priva di novità.
Né vale prendersela con la formula dell’evento, certo un po’ logora dopo tanti anni. È vero, peraltro, che i tempi risultavano troppo lunghi: oltre due ore complessive, con risposte del premier talvolta simili a prolusioni senza fine. Abbastanza strano per un uomo di comunicazione qual è senza dubbio Renzi: come non vedere il rischio di danneggiarsi parlando troppo e non sempre in modo convincente?
In ogni caso, l’appuntamento di fine anno non è stato inutile. Dopo quasi ventiquattro mesi di governo, il premier era tenuto a offrire un bilancio non episodico e non meramente propagandistico dell’attività di governo. Così è stato, almeno in parte, benché le cifre e i dati forniti siano al centro delle inevitabili polemiche. Vero è che Renzi è apparso un po’ stanco e provato: pesa forse il pasticcio delle banche, tutt’altro che risolto. L’ingenua spavalderia dei primi tempi ha ceduto il passo a un ottimismo perentorio, sì, ma meno sbandierato, anzi qui e là venato di preoccupazione. L’elenco dei successi dell’esecutivo — dalla riforma del lavoro a quella istituzionale, sullo sfondo di un’economia che ha rivisto il segno più (+0,8) — è legittimo, ma si è avvertita un’ansia di fondo. Forse il timore di non riuscire a convincere il paese, o meglio la paura di aver smarrito la magìa dei primi tempi: quando il giovane sindaco entrato a Palazzo Chigi senza passare per le elezioni politiche riusciva a galvanizzare l’elettorato e a raccogliere il famoso 40,8 delle europee nel maggio 2014.
Il che non basta a fare di Renzi “il leader più votato, anche più della Merkel”, secondo la sua stessa auto-definizione, per la semplice ragione che la cancelliera tedesca raccoglie i suoi consensi nel voto per il Parlamento federale, un passaggio che al presidente del Consiglio e segretario del Pd ancora manca. Ieri si è sentito il desiderio di legittimarsi, la spinta a ricreare l’atmosfera di un anno e mezzo fa per sfuggire all’inevitabile logoramento. Del resto, la ripresa economica è ancora troppo fragile per cambiare in meglio la vita delle persone. E il taglio delle tasse è un traguardo che si sposta sempre in avanti, creando delusione soprattutto in quel ceto medio fondamentale per il progetto renziano.
Il premier è il primo a sapere che ripetere gli stereotipi non serve a molto. Lo stesso corollario di diapositive e di gufetti che arricchiscono il messaggio agli elettori alla lunga diventa un po’ stucchevole. E infatti il punto centrale del discorso del premier riguardava il referendum confermativo della riforma del Senato. Anche qui nulla di realmente nuovo, salvo l’aver definito in modo esplicito il disegno. Il referendum è lo strumento di piena legittimazione personale che Renzi ha individuato e non certo da ieri: una sorta di plebiscito alla De Gaulle, se il paragone non fosse troppo impegnativo. Con il referendum si va oltre il cabotaggio quotidiano ricco di insidie. Si sorvolano le amministrative, terreno infido per il Pd specie a Roma e a Napoli. Si prepara il terreno per un incontro fra il leader e il corpo elettorale al di sopra delle beghe partitiche e dei condizionamenti istituzionali. Se il “partito della nazione” è una formula poco fortunata, finita prima di nascere, il referendum segnerebbe l’avvento del “partito del premier” a tutti gli effetti. Oltretutto, Renzi giocherebbe in un campo molto favorevole perché anche i suoi più tenaci avversari dubitano che esista nel Paese una maggioranza di italiani disposti a votare “no” all’abolizione del Senato e del Cnel. Quindi c’è una logica. Togliere spessore politico al voto amministrativo di primavera — il più scomodo — e caricare invece di significato il referendum d’autunno. Farne il simbolo del riformismo renziano e della nuova stagione da sancire subito dopo con le elezioni politiche.
In base al medesimo principio, è chiaro che una sconfitta nel referendum segnerebbe la fine dell’esperienza di Renzi. Non era necessario sottolinearlo, tanto è evidente. Ma c’è bisogno di drammatizzare, di creare l’alternativa: o me o il caos (leggi Cinquestelle o Salvini). La strategia è chiara, anche questa mutuata dal generale De Gaulle. Il quale, tuttavia, ormai anziano, alla fine perse l’ultimo referendum. Non è il acaso del presidente del Consiglio, il quale semmai deve guardarsi da altri rischi. Dieci mesi sono lunghi e il cammino è carico di incognite. I populisti sono agguerriti e la tentazione di batterli sul loro terreno, quello della demagogia, potrebbe farsi irresistibile. Una sirena dalla quale Renzi farà bene a guardarsi.