mercoledì 30 dicembre 2015

Repubblica 30.12.15
Non sarà processato l’agente che uccise il ragazzino nero di 12 anni sorpreso in un parco con un revolver di plastica: un simbolo delle tensioni razziali rimaste aperte con Obama
L’America assolve la polizia nessun colpevole per ilbimbo che giocava a fare il ribelle
VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON
Nell’ “Altra Guerra” combattuta ogni giorno sul fronte delle strade americane, quella che uccide più innocenti di quanti abbia ucciso il terrorismo islamista in Usa dal 2001, non ci sono colpevoli, soltanto morti, e anche a Cleveland l’agente che uccise un ragazzo di 12 anni che giocava con una pistola a piombini sfugge al processo.
Non sarà incriminato Tim Lohemann, il poliziotto che sparò due colpi contro Tamir Rice, colpevole, lui solo, di essere stato un ragazzone troppo grande per la sua età, alto già un metro e ottanta, di essere troppo nero di pelle e troppo ingenuo per capire che gingillarsi con un revolver giocattolo può valere una condanna a morte istantanea senza giudice e giuria. Il suo uccisore, poco più di un ragazzo anche lui, un “ cop”, un piedipiatti al suo primo anno in servizio a 24 anni, aveva semplicemente creduto a quello che una telefonata anonima al 911, al servizio emergenza, aveva detto: che c’era un “ black”, un nero armato che si aggirava in un giardinetto pubblico. Sapeva che è sempre meglio prima sparare e poi chiedere chi sei, che quelle sagome scure sono il nemico e che a pochi passi da dove Tamir cadde impugnando il suo stupido giocattolo c’era una stele che ricordava due agenti del Cleveland Police Department come lui, uccisi in servizio. «Una tempesta perfetta », così il pubblico ministero che ha presentato il caso alla giuria popolare per decidere l’incriminazione, l’ha raccontato, un vortice di equivoci, di gesti fraintesi, di pregiudizi, di paura, nel quale il ragazzo in uniforme ha perduto la testa, sparando al ragazzo vestito della propria pelle scura.
Non sarà rinviato a giudizio per “omicidio colposo” come non sono stati mandati sotto processo quest’anno, e nella stessa Cleveland, l’agente Tim Brelo e i suoi colleghi che spararano 137 colpi contro l’auto dove viaggiavano Timothy Russel e Malissa Williams, entrambi disarmati ed entrambi morti. Come non è stato ancora incriminato Jason VanDyke, che a Chicago ha fatto secco Laquan MacDonald, e come non saranno inviati davanti al giudici gli agenti che, sempre a Chicago, hanno ucciso il giorno dopo Natale una donna di 55 anni e un 19nne malato di mente armato di una mazza da baseball. La donna, che pare avesse chiamato la polizia, è stata colpita attraverso la porta, prima che riuscisse ad aprirla.
“To Protect and Serve”, proteggere e servire, è il motto di ogni dipartimento di polizia, ma dalla morte di Michael Brown a Ferguson, nei sobborghi di St. Louis poco più di un anno fa, per milioni di cittadini di colore americani raccolti nel movimento “Black Lives Matter”, le vite dei neri contano, il motto si è tragicamente rovesciato: proteggersi dalla polizia, non protetti dalla polizia. Baltimora, Los Angeles, Cleveland, ora Chicago dove si muovono cortei di protesta e si alzano voci per chiedere le dimissioni del sindaco, clintoniano e obamiano di ferro, Rahm Emanuel, sono il sentiero del sangue sparso dalla guerra senza nome.
L’assassinio impunito di Tamir Rice è stato un episodio, immortalato da un video sgranato in bianco e nero che ha ripreso la sequenza della morte. L’uccisione di 1.085 persone da parte di agenti delle Forze dell’Ordine nei 50 stati americani, oltre diecimila dall’11 settembre a oggi, è la storia che racconta molto più di un’ennesima manifestazione di razzismo. La maggioranza dei caduti nei conflitti con le polizia non sono neri, ma bianchi. Uno su 4 è classificato come “latino” e per non farsi mancare niente ci sono anche 50 “nativi”, indiani, fra i morti. E 145, numero record, sono gli agenti caduti in servizio nel 2005.
La storia racconta il film vero di una guerra che taglia le strade, che divide i quartieri delle città secondo gli invisibili fili spinati della condizione sociale, che esaspera le vittime quanto i loro uccisori e sbriciola il ponte di cristallo che era stato costruito dopo gli anni della grande crisi “in bianco e nero” e che l’elezione di un presidente per metà di sangue africano sembrava avere saldato. I poliziotti si muovono nei quartieri violenti come cacciatori in una giungla, dove ogni ombra può nascondere il killer e la prima e sola legge è quella della sopravvivenza. Nella notte della paura, ogni “uomo nero”, come ogni bianco che può essere armato di pistole o fucile è il potenziale nemico mortale. E i pubblici ministeri incaricati di portare gli elementi per il rinvio a giudizio o il proscioglimento, tendono invarialbilmente a favorire quegli uomini e quelle donne in uniforme dai quali dipendono per le loro indagini.
Soltanto 54 agenti sono stati rinviati a processo, nel 2015, su quei 1.085 casi di omicidi ed è il massimo numero mai registrato nella giurisprudenza. «Chiediamo che i processi siano trasmessi in diretta televisiva », domandano a Chicago, vogliono che il lavoro dei Gran Giurì sia reso pubblico e non segreto come ora è. «Tutti ci odiano fino al giorno in cui ci chiamano gridando al telefono del 911» replica l’Associazione nazionale degli agenti tra i quali il 12% sono oggi afroamericani, che tirano sui proprio “fratelli di colore”, dicono la statistiche, con la stessa facilità dei bianchi. Tamir è morto per gioco, a Cleveland, ma la paura non ha colore, nella terra dove le pistole vere sono un giocattolo.
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LE PROTESTE
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