mercoledì 23 dicembre 2015

Repubblica 23.12.15
Kundera
“La mia Praga e i russi che ora non odio più”
Un dialogo con lo scrittore ceco che racconta i suoi esordi, le curiosità e l’eredità del comunismo
di Massimo Rizzante


“Lo scherzo” è stato immediatamente accolto in Occidente quasi come un modello della letteratura anticomunista o, come si diceva allora, dissidente. Eppure il romanzo fu pubblicato del tutto legalmente nella Cecoslovacchia comunista un anno prima della celebre Primavera di Praga, esattamente nella primavera del 1967...
«Ho cominciato a scrivere “Lo scherzo” verso il 1961, più o meno sicuro che sarebbe stato pubblicato. Durante gli anni sessanta, molto tempo prima della Primavera di Praga, il realismo socialista e tutta l’ideologia ufficiale erano
già morti, avevano ormai solo una funzione di facciata che nessuno prendeva più sul serio. Terminato nel dicembre del 1965, il manoscritto rimase circa un anno negli uffici della censura che, alla fine, non pretese nessun cambiamento. Il romanzo fu pubblicato nella primavera del 1967 ed ebbe in rapida successione tre edizioni che raggiunsero globalmente una tiratura di 117.000 copie. Nella primavera del 1968 il libro ottenne il premio dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi. Dal romanzo ricavai in seguito una sceneggiatura per il mio amico Jaromil Jireš, il quale ne fece un film che non ho mai smesso d’amare. La critica letteraria si occupò poco dell’aspetto politico del libro, mettendo in evidenza invece la sua matrice esistenziale (…). Come vedi, agli inizi del mio percorso di romanziere mi sono sentito perfettamente compreso in patria. Ma fu un momento di breve durata. Un anno dopo, nel 1968, l’invasione russa instaurò di nuovo uno stalinismo antidiluviano e intellettualmente oppressivo. Fu allora che Lo scherzo sparì dalle librerie e dalle biblioteche».
E fu allora che l’avventura internazionale del tuo romanzo ebbe inizio...
«Nel 1967, subito dopo la pubblicazione del romanzo, la mia casa editrice praghese, euforica per il successo del libro, propose il romanzo a Gallimard. Qui il manoscritto fu consegnato, come di regola, a un lettore, un ceco che viveva a Parigi. Questi trovò il romanzo privo di ogni interesse e la faccenda finì lì. Il caso volle che un intellettuale praghese, Antonín Liehm, una sorta di emissario dell’arte non ufficiale ceca all’estero, parlasse del romanzo ad Aragon che, a quell’epoca, mostrava una grande solidarietà nei confronti degli intellettuali dei paesi comunisti che si opponevano ai loro regimi (questo ruolo di Aragon è stato dimenticato, e io sono sempre felice di ricordarlo). Senza neppure conoscere il testo ceco, egli lo raccomandò a Claude Gallimard, il quale decise di pubblicarlo. A questo punto il caso intervenne di nuovo: Lo scherzo uscì i primi giorni di settembre del 1968, cioè esattamente tre settimane dopo l’invasione russa della Cecoslovacchia! Fu sotto lo choc provocato da quell’avvenimento che Aragon, probabilmente di getto e all’ultimo momento, scrisse la sua prefazione al romanzo, diventata poi celebre».
In Francia l’accoglienza del libro fu straordinaria. Il momento di grande comprensione che avevi vissuto l’anno prima a Praga si rinnovò, quindi, anche a Parigi?
«Mia moglie mi prende spesso in giro: “Tu sei arrivato a Parigi come un vincitore sui carri armati russi”. In quelle settimane di settembre del 1968 i giornali, in effetti, non parlavano d’altro che dei carri armati russi a Praga e il romanzo di un ceco attirò automaticamente la simpatia dei lettori e delle grandi firme della critica. Per tutti io ero soprattutto un soldato giunto a bordo di un carro armato e tutti elogiavano il coraggio con il quale avevo lottato contro il totalitarismo. Ma quando stavo scrivendo Lo scherzo io non mi sono mai sentito particolarmente coraggioso. La mia sfida non era politica, ma esclusivamente estetica.
Che genere di sfida ti eri ripromesso?
«Cogliere il contenuto esistenziale inedito di una situazione storica inedita. (…)
Una volta sbarcato in Francia, hai cominciato a scrivere in francese i tuoi saggi per diverse riviste, saggi che poi in parte sono confluiti nel 1986 nell’”Arte del romanzo”, nel 1993 nei “Testamenti traditi”, nel 2005 nel “Sipario” e nel 2009 in “Un incontro”. Nel 1995 hai scritto in francese il tuo primo romanzo. Ma il ceco e il francese non sono solo due lingue, sono anche due esperienze, due modi di esprimere le proprie radici. Abbandonare una lingua per un’altra non significa forse rompere definitivamente con il proprio passato?
«Si pensa sempre che un romanziere abbia le proprie radici in un paese. Non è così. Come romanziere egli affonda le proprie radici in alcuni temi esistenziali che lo affascinano e sui quali ha qualcosa da dire. Al di fuori del cerchio magico dei suoi temi, perde tutta la sua forza. Immagina per un momento che Kafka fosse stato costretto a scrivere una saga famigliare o un romanzo storico su Maria Teresa: come un qualunque cattivo scolaro, non avrebbe affatto superato l’esame».
D’accordo. Ma ti chiedo: questo cerchio magico di temi esistenziali non è forse legato a un paese, a una lingua, a una precisa esperienza storica?
«Certo. Lo choc della rivoluzione comunista ha risvegliato in me una curiosità esistenziale: ero spinto ad approfondire la strana situazione in cui io e le persone che mi stavano attorno ci trovavamo. Senza questa esperienza legata al mio paese natale, non sarei mai diventato romanziere. Ma i temi esistenziali non conoscono frontiere. L’atteggiamento lirico, che io ho visto in tutta la sua mostruosità nella Cecoslovacchia comunista, è presente nella vita umana di tutti i tempi, e il caro Vincent, uno dei personaggi della Lentezza (1995) è il cugino francese di Jaromil, il poeta ceco della Vita è altrove (1969)». (...)
Tu hai fama di essere piuttosto allergico ai russi. Con tutto quello che hai scritto sull’Europa centrale hai mostrato la profonda differenza tra le piccole nazioni dell’Europa centrale e la Russia...
«La Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia sono state trasformate dopo la seconda guerra mondiale in satelliti della Russia. Questa è stata la loro disgrazia comune. Tuttavia, la storia dei rapporti di ogni singola nazione con la Russia è diversa. I polacchi non potevano che detestare i russi, i quali, dalla fine del XVIII secolo non avevano fatto altro che incorporare il territorio polacco al loro impero. Gli ungheresi erano stati alleati dei tedeschi durante la prima e la seconda guerra mondiale. Così nel 1945 l’esercito russo vittorioso non fu troppo gentile con loro. I cechi, invece, erano da sempre russofili. Quando nel 1945 i russi hanno liberato la Cecoslovacchia, sono stati accolti con amore. Questo amore per i russi rese molto potente il Partito comunista ceco e fece sì che la sua opposizione al regime stalinista fosse un po’ meno dura di quella in Polonia e in Ungheria. È stato soltanto dopo l’invasione del 1968 che i cechi, come gli altri popoli dell’Europa centrale, hanno cominciato a odiare i russi».
E tu li odi ancora?
«No, per niente. Ma ci siamo allontanati dal tema del nostro dialogo...».
IL LIBRO Il colloquio con Milan Kundera è in Un dialogo infinito di Massimo Rizzante ( Effigie, pagg. 258, euro 19)