martedì 15 dicembre 2015

Repubblica 15.12.15
L’ex membro del cda
“Comandava un gruppo ristretto, non sapevamo cosa deliberavamo”
“Nel 2009 denunciai Etruria a Bankitalia nelle loro riunioni era tutto già deciso”
Cominciai a litigare: non mi sembrava corretto che i consiglieri si fossero concessi crediti per 185 milioni
Nella mia azienda ci sono quattro dipendenti che hanno perso tutti i loro risparmi e ora sono alla canna del gas
intervista di Maurizio Bologni


FIRENZE. Rossano Soldini, 71 anni, aretino, signore della scarpa made in Italy a capo di un calzaturificio di tradizione, è stato per poco più di due anni, tra metà 2007 e ottobre 2009, membro del consiglio di amministrazione di Banca Etruria. Si dimise sbattendo la porta. Perché?
«Quando entrai nel cda, per me fu un onore, una soddisfazione, motivo di orgoglio. Quella era la banca della nostra terra, delle nostre imprese, quella che sosteneva l’economia sana dell’aretino. Entrai con spirito di collaborazione. E invece fu una grande delusione».
Cosa non le piacque?
«Pensavo di poter dare un contributo con la mia esperienza di imprenditore, invece ero solo un passacarte. Io e la gran parte degli altri consiglieri di amministrazione. Comandava il comitato di presidenza, formato da presidente, due vice, direttore generale, un paio di consiglieri di amministrazione e il potente segretario. Ci portavano il verbale della seduta precedente, sessanta pagine di documenti, e dopo cinque minuti pretendevano di metterlo ai voti. Non sapevamo cosa deliberavano, non ci permettevano di capire. Chiedevi informazioni, non te le davano. Facevi domande, non ti rispondevano. Conduzione non lineare. Cominciai a litigare col segretario del cda e da allora litigai anche con altri. È no, così non poteva andare avanti».
E poi c’era la questione degli affidamenti di credito ai membri del cda, che nel periodo in cui lei rimase in carica i consiglieri si “auto concessero” per 185 milioni di euro, potevano averne fino a 20 milioni a testa.
«No, non mi sembrò una cosa corretta. Quando entrai nel cda, affidamenti ne avevo anch’io, ma mi guardai bene dal chiederne altri, semmai ridussi quelli che avevo. E mi sarebbe sembrato logico che tutti si fossero comportati allo stesso modo. Non era così».
Cos’altro non le andò a genio?
«Quella non era più la banca nata per aiutare gli imprenditori del territorio, aveva amministratori che venivano da lontano e guardava oltre il territorio di origine».
Chi guidava la banca allora?
«Nel primo periodo presidente era Faralli, nel secondo Fornasari, ma per poco tra giugno e ottobre 2009 quando io mi dimisi».
E allora cosa fece?
«Il 23 ottobre 2009, tre giorni prima dell’assemblea dei soci di Banca Etruria, andai in Banca d’Italia e volli verbalizzare tutto quanto avevo visto sui comportamenti disinvolti di chi guidava la Banca. Poi tornai ad Arezzo e pubblicai a pagamento sui giornali locali una lettera di spiegazioni alla città».
Degli ultimi tempi che cosa sa?
«Nulla. I giornalisti mi chiedono di Boschi, ma io non so nulla. Posso solo dire che alcuni consiglieri, magari ignari, saranno chiamati a pagare. Ma è giusto che ci siano le azioni di responsabilità e che gli amministratori sciagurati rispondano della tragedia umana che loro hanno creato e che noi tocchiamo con mano. Anche se forse le autorità centrali potevano evitarci un epilogo tanto drammatico come hanno concesso in altri casi. E anche se Banca d’Italia poteva fare di più».
Perché dice di toccare con mano la tragedia umana?
«È diffusa. In azienda, dove ho 200 dipendenti, ce ne sono quattro che hanno perso tutti i loro risparmi investiti in Banca Etruria. Sono alla canna del gas. Fuori da qui conosco un’anziana che ha un figlio down e che non sa più come andare avanti».
Di tutto ciò che le rimane?
«Amarezza. E la massima di mio padre Gustavo, fondatore dell’azienda: “Se i disonesti sapessero quanto è utile essere onesti, molti lo diventerebbero per specularci”».