La Stampa 9.12.15
La crisi economica e non il terrorismo il motore del Front
Ha vinto nelle regioni dove la disoccupazione è più alta
di Alessandro Barbera
La Liberté è rimasta sepolta sotto i cadaveri del Bataclan. La Fraternité l’ha fatta a pezzi la globalizzazione, in Francia come nel resto d’Europa. Ma quanto ha pesato l’Egalité nell’enorme vittoria di Marine Le Pen al primo turno delle elezioni amministrative? Se le stragi avessero fatto la differenza, il risultato del Front National a Parigi avrebbe dovuto essere eclatante. E invece se si esclude la Bretagna, lì registra il peggior risultato con uno striminzito 9,7 per cento dei consensi.
Il flop a Parigi
Nel decimo arrondissement, il cuore sanguinante della Capitale, la percentuale scende al 7,3 per cento. Può sembrare solo una questione di censo. L’elettore lì è aperto, laico, cosmopolita, niente a che vedere con chi vive nelle periferie che hanno allevato una generazione di terroristi. Ma quello è anzitutto un francese ricco. Se giri per le strade e chiedi dove stia il grande malato d’Europa, qui non sanno di che parli.
Bloomberg ha confrontato il risultato di domenica del Front National con il tasso di disoccupazione regione per regione: quanto più è alta la percentuale dei senza lavoro, tanto più forte è il successo dell’estrema destra. Vero è che le dodici grandi aree nate dalla nuova divisione amministrativa sono grandi e complesse, eppure il risultato migliore la Le Pen lo incassa nel Nord-Pas-de-Calais, poi in Provenza, in Alsazia e Lorena, nel Languedoc, zone in gran parte rurali, dove la disoccupazione supera il dieci per cento e non sempre note per le tensioni etniche. Insomma, nella vittoria della Le Pen c’è anzitutto la sofferenza di una nazione che punisce i due grandi partiti che in questi anni l’hanno governata con scarsi risultati: i socialisti e l’ex Ump di Nicolas Sarkozy.
Tasse alle stelle
La pressione fiscale in Francia resta oltre il 44 per cento, la più alta d’Europa dopo la Danimarca, la crescita è debole (+1,1 per cento la previsione alla fine dell’anno) appena migliore di ciò che spera di ottenere Matteo Renzi. Ma la spesa pubblica è al 57,2 per cento del Pil, ben oltre il 51,1% dell’Italia e il 49,3% della Grecia. La disoccupazione è di sette decimali sotto a quella italiana (10,8 contro l’11,5 per cento) e però calmierata da un esercito di dipendenti pubblici nell’amministrazione centrale e locale. Mentre a queste latitudini si tagliava, oltralpe si assumeva.
Immigrazione, identità, eclissi dei partiti tradizionali: nella crisi della politica continentale c’è certamente molto di questo. Eppure il prosaico «It’s the economy stupid» coniato nel 1992 dallo stratega di Bill Clinton James Carville si conferma decisivo. Per recuperare consensi il premier spagnolo Mariano Rajoy si è spinto a pelar verdure in un programma televisivo. Risalire la china del 44 per cento incassato quattro anni fa è impossibile, ma nonostante questo i sondaggi lo danno saldamente in testa con oltre il 28 per cento, almeno sette punti sopra il minimo storico, il Psoe, i liberisti di Ciudadanos, almeno dieci punti sopra Podemos di Pablo Iglesias. Al netto della reazione patriottica alle ambizioni autonomiste della Catalogna, il recupero di Rajoy è speculare al trionfo della Le Pen: l’economia spagnola viaggia ad una velocità quattro volte quella dell’Italia, tre volte più veloce della Francia. La disoccupazione è ancora altissima al 21,6 per cento, eppure in rapido calo. Più che nei grandi centri urbani, Rajoy recupera consenso nelle zone più povere, quelle che avevano pagato il dazio più alto alla crisi iniziata nel 2011 e culminata con il salvataggio europeo delle banche. Si vota domenica 20 dicembre, un paio di giorni prima le aziende spagnole distribuiranno la tredicesima a lungo sospesa. A Madrid dicono che la scelta della data non è a caso. It’s the economy, stupid.