lunedì 7 dicembre 2015

La Stampa 7.12.15
Agire sempre nell’interesse del neonato
di Vladimiro Zagrebelsky


La questione della maternità surrogata è tra le più complesse. Nella maggior parte dei casi, ma non sempre, si tratta di affitto dell’utero altrui. Ma la semplificazione estrema non aiuta, poiché il giudizio negativo che ne consegue non elimina i problemi che sorgono nella grande varietà dei casi della vita.
L’ultimo, sorprendente aspetto della discussione in corso in Italia è quello sollevato dalla recente presa di posizione espressa da «Libere», nell’ambito del movimento «Se non ora quando». Mi riferisco alla risentita reazione del rappresentante di un’associazione per i diritti degli omosessuali, che ha particolarmente stigmatizzato il fatto che il rifiuto della pratica sia venuto «da sinistra». Il presupposto di un simile rilievo, quasi un’accusa di tradimento, sarebbe che l’utero in affitto è di sinistra e la sua negazione è di destra. Raramente lo sconcerto identitario ha così sfidato il ridicolo. Perché il richiamo alla dignità della donna, non riducibile a incubatrice per conto altrui, e l’opposizione allo sfruttamento della miseria di chi non ha che l’utero da mettere sul mercato, sono nel cuore di valori umani e politici tutt’altro che estranei alla sinistra, ma neanche di essa esclusivi. Insomma, qui destra e sinistra non c’entrano.
Ma se ci si limita a discutere della questione se vietare oppure no il ricorso a questa pratica, ci si pone su un terreno da una parte inutile e dall’altra non risolutivo. Inutile, perché essa è e resta vietata dalla legge italiana, come da quella di gran parte dei Paesi europei. Non risolutivo perché rimangono in piedi tutti i problemi che esistono, per così dire, a valle del divieto.
Si dice «utero in affitto» alludendo al commercio di donne disponibili per denaro a ricevere in utero l’embrione altrui per portare a compimento la gravidanza e dare alla luce un bambino destinato a essere consegnato ai committenti. E’ questa in effetti la pratica di gran lunga prevalente. Ma sono noti casi in cui non vi è nulla di egoistico e ancor meno di economico, nella disponibilità di una donna a supplire all’impossibilità di un’altra donna a condurre la gravidanza. Madri ancor giovani che si offrono in favore della figlia divenuta incapace. Pochi casi, certo, ma non assimilabili a quelli commerciali dell’utero in affitto. E d’altra parte il divieto di comprare e vendere organi lascia aperta la possibilità del dono, senza che la tragedia della vendita, ad esempio di un rene, così presente in tanti Paesi poveri, impedisca di vedere il dono tra fratelli o tra genitori e figli come un ammirevole atto di amore. La differenza, se c’è, tra il dono di un rene e l’offerta dell’uso dell’utero dovrebbe essere indagata, prima di confondere tutto sotto l’unica etichetta di utero in affitto. Un documento elaborato nell’ambito del Consiglio d’Europa ha sostenuto la necessità di vietare il ricorso alla maternità surrogata a pagamento, ma ha lasciato aperta la possibilità dell’atto altruistico.
La varietà delle legislazioni esistenti nel mondo (ed anche in Europa) e la facilità con cui ora ci si muove alla ricerca di soluzione ai propri problemi, rendono concreta e frequente la nascita di bambini con il metodo della madre surrogata. Si tratta in grandissima misura di figli di coppie eterosessuali coniugate, desiderose di figli, ma in cui la donna non ha la possibilità di condurre una gravidanza. Tornata nel suo Paese – che vieta quella pratica - la coppia chiede che venga riconosciuto che il nato è suo figlio (nome, cittadinanza, ecc.). Che fare? Si tratta di vicende concrete, che non possono essere affrontate solo guardando alla coppia che ha violato le leggi del suo Paese, utilizzando quelle disponibili altrove. Si può immaginare di negarle riconoscimento e addirittura punirla. Ma poi, che si fa del figlio, che è una persona titolare di diritti, indipendentemente dal modo in cui è nata? Recentemente un caso simile è stato deciso dalla Corte Europea dei diritti umani. Si trattava di coniugi francesi che, per superare l’impossibilità fisica della moglie, avevano fatto ricorso a maternità surrogata negli Stati Uniti. La Francia, che vieta quella pratica, non aveva riconosciuto il legame familiare tra la coppia e il bambino. Decidendo il ricorso, la Corte Europea ha dovuto destreggiarsi tra divieti e diritti e ha adottato una soluzione curiosa. Ha preso atto del rifiuto della legge francese di ammettere il vincolo genitoriale della coppia rispetto al figlio, ma ha riconosciuto a quest’ultimo il diritto di essere considerato figlio dell’uomo e della donna che lo hanno voluto e allevato. Soluzione forse obbligata da parte di quei giudici, ma certo tale da confliggere con il buon senso. Come si può essere figli di chi non è padre o madre?
Quella storia segnala il punto più grave della questione della maternità surrogata: il figlio che ne è nato e cui non si può dire che non avrebbe dovuto nascere. Nella materia il principio – generico, ma universalmente accettato – è quello che ogni decisione deve essere guidata dall’interesse preminente del bambino. Una politica diretta a contrastare l’una o l’altra pratica, avendo carattere generale, non può prevalere sull’interesse concreto e effettivo di uno specifico bambino. E’ questa una materia in cui obblighi e divieti assoluti non rendono giustizia a tutti i protagonisti delle vicende umane: nel nostro caso ai bambini che sono venuti al mondo. Una volta si ricorreva a categorie come gli illegittimi, i bastardi, i naturali, privi di diritti e contrapposti ai figli legittimi. Ora la discriminazione sulla base della nascita è impossibile, inumana, incivile.
Il documento da cui abbiamo iniziato, chiede alle istituzioni europee di promuovere un generale bando delle maternità surrogate. Esso non avrebbe attirato tanta attenzione se non fosse giunto mentre in Italia il Parlamento è bloccato nella discussione sul riconoscimento delle coppie di fatto, etero e omosessuali. Si sostiene che ammettere che il compagno omosessuale possa adottare il figlio dell’uomo che l’ha avuto con il sistema dell’utero in affitto, significherebbe legittimare il ricorso a quel metodo. Non è così. Semplicemente si ammetterebbe la possibilità, invece del divieto, di dare al bambino due genitori anziché uno solo. Le violazioni all’estero del divieto di ricorso a quella pratica non sarebbero né incentivate, né impedite. Ma si riconoscerebbe una posizione al compagno del padre del bimbo, con i conseguenti diritti e doveri di assistenza.
L’aggressività che accompagna la discussione sul riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto, ha travolto le poche e pacate affermazioni di un documento, che, in un altro momento, sarebbe stato tranquillamente discusso come una posizione ideale legittima e da tanti condivisa. Sapendo però che, se anche l’intenzione del documento fosse realizzata, non tutti i problemi sparirebbero d’incanto.