venerdì 4 dicembre 2015

La Stampa 4.12.15
Come intervenire a Tripoli
di Stefano Stefanini


Sul Golfo della Sirte è tornato il tempo delle colonie.
Come una vecchia potenza europea, lo Stato Islamico colonizza la costa libica con soldati, amministratori, giudici e poliziotti. In aggiunta instaura terrore. È dunque la Libia la «prossima emergenza»?
L’ha detto il presidente del Consiglio - a ragione. Ha anche ragione nel temere che la pressione militare in Siria e in Iraq porti Isis a rilocarsi sulla sponda Sud del Mediterraneo. È il principio del limone descrittomi dai nostri militari in Afghanistan: stretta al centro la guerriglia si disperde in periferia, come il succo di un limone schiacciato. Al Qaeda e Isis ne hanno fatto una strategia geopolitica. Negli ultimi quindici anni l’internazionale jihadista è si spostata dall’Afghanistan all’Africa, è tornata verso la Siria; se necessario, è pronta a ripiegare sulla Libia. Messa sotto pressione va dove trova meno resistenza.
Infine, Matteo Renzi ha ragione a vedervi un pericolo diretto al quale l’Italia non vuole farsi trovare impreparata. I dispositivi sul piano dell’intelligence e delle capacità operative in teatro sono stati messi a punto. Il canale di Sicilia è stretto, dall’altra parte ci sono i rubinetti energetici e migratori. C’è capacità, anzi volontà, di colpire. Ancora il 13 novembre pomeriggio avevo sentito sostenere, in buona fede, che «Isis non ha interesse a colpire in Europa». Nessuno lo dice più.
Dall’analisi - impeccabile - alla strategia mancano ancora tre passaggi. Primo, l’urgenza. Senza ozi di Capua all’orizzonte Isis non infiacchisce. Nel temporeggiamento si è rafforzata. L’Italia ha tenuto eroicamente aperta l’ambasciata a Tripoli fino allo scorso febbraio. L’ha lasciata a malincuore solo quando la sicurezza è precipitata, rassicurandosi al pensiero che jihadisti si sparavano fra loro.
Nella galassia libica di milizie a fazioni, Isis è diventata è il terzo incomodo fra i due contendenti principali, il governo Islamico di Tripoli e quello internazionalmente riconosciuto di Tobruk. Questa minaccia sembra finalmente spingerli a più miti consigli negoziali. È una finestra d’opportunità che il nuovo mediatore dell’Onu, Martin Kobler, intende sfruttare per rilanciare la prospettiva di riconciliazione nazionale che l’Italia attendeva. Occorre che abbia dietro le spalle più coinvolgimento internazionale, come avvenuto per la Siria dove l’iniziativa diplomatica è decollata solo quando dietro Staffan de Mistura hanno gettato il loro peso Stati Uniti e Russia, trascinandovi i più o meno riluttanti Arabia Saudita, Iran e Turchia.
Secondo, costruire una solida alleanza internazionale. La solidarietà di cui l’Italia avrà bisogno per la Libia non s’improvvisa. Che sia internazionale, europea, atlantica richiede do ut des. Da sempre: l’unità d’Italia non nasce forse sui campi insanguinati della Crimea (nel 1855, a scanso equivoci)?
Terzo, contrastare il modus operandi dello Stato Islamico. Isis trova vuoti di potere e d’istituzioni. Riempie i primi e sostituisce le seconde. Gestisce il territorio. Si autofinanzia. Riapre scuole; mette polizia per le strade; amministra giustizia; preleva dazi; apre agenzie delle entrate. Tra Siria e Iraq circa otto milioni di persone vivono sotto la legge del califfato.
Inafferrabilità e radicamento sono i due punti di forza. Isis trova terreno ideale negli spazi africani, fra Stati deboli e confini porosi. I tentacoli jihadisti si estendono al Mali e alla Nigeria, e di lì a Paesi confinanti come il Camerun, colpito da Boko Haram otto giorni dopo Parigi («solo» una decina di vittime perchè tre dei quattro suicidi hanno avuto fretta di farsi esplodere).
Per stabilizzare l’Africa jihadista non basta riportare ordine a Misurata e Tripoli. La pressione in Siria spinge Isis verso la Libia. Dalla Libia, avrebbe l’imbarazzo della scelta fra Sud, Est e Ovest. Manterrebbe capacità di colpire, di far del male e di ritornare sul terreno perso. Isis è un animale territoriale. Va scacciato ed escluso da nuove conquiste. Dobbiamo essere grati alla Francia, e adesso anche alla Germania, per tener duro in Mali; a Egitto, Tunisia e Algeria, pur colpiti da pesanti attentati, per mantenere alto il livello di guardia.
Pur continuando ad avvitarsi nel confronto con la Turchia, nel discorso di ieri sullo Stato dell’Unione, Vladimir Putin ha fatto appello ad una «coalizione Onu»; ne aveva parlato da noi Silvio Berlusconi. È la direzione in cui muoversi nel labirinto d’interessi nazionali del Palazzo di Vetro. È pure vero che lo Stato Islamico pone una sfida culturale; e che bisogna sgretolare la presa del «brand» Isis su molte comunità musulmane e attraverso i social media. Ma intanto Isis va contrastato, ha preso il potere. A tal fine, le armi sono indispensabili. L’entrata in scena dei Tornado e Typhoon della Raf britannica contro obiettivi in Siria rafforza il dispositivo militare.
Quali sono i capisaldi della strategia di Isis, oltre il proselitismo in Europa e l’ispirazione a terroristi «free lance» fino in California? Le basi territoriali; gli anelli statali deboli. Questo significa: uno, sradicare lo Stato Islamico dalla Siria e (non «o») dal Golfo della Sirte; due, prosciugare il succo di limone, sostenendo gli Stati a rischio (anche regimi che non ci piacciono sono meglio dell’anarchia) e aiutando quelli falliti a rimettersi in piedi. Altrimenti il tempo lavora per Isis, non per noi.