giovedì 31 dicembre 2015

La Stampa 31.12.15
Il M5S è ancora il “partito di Grillo”
di Massimiliano Panarari


Ma dove vai se i fondatori non ce li hai...? Da qualche tempo, il M5S, tra annunci e qualche atto (il nuovo simbolo senza il nome del fondatore), va dicendo di voler superare lo stadio «grillino». Nei movimenti allo stato nascente, che si forgiano nella lotta contro tutto e tutti (e hanno bisogno di posizionare la loro offerta sul mercato politico), sono comprensibili il radicalismo e la figura del capo carismatico, mentre quando si passa a coltivare ambizioni di governo (come sostenuto dagli stessi dirigenti più in vista, e in tv) bisogna cambiare registro e accettare le mediazioni (come avvenuto con l’elezione dei giudici costituzionali).
Stiamo allora per assistere all’istituzionalizzazione del Movimento? A ben guardare, no, per niente: il M5S si riconferma come un «partito-non partito» di tipo personale. Anzi, un partito bipersonale e bicefalo, dal momento che ha una coppia al vertice, il volto comunicativo Grillo e la testa politica Gianroberto Casaleggio (più che «lato oscuro della Forza», come si è detto di lui in questi giorni, sempre maggiormente eminenza-ideologo-spin doctor alla luce del sole). E a confermare, una volta di più, il (volutamente) mancato compimento del processo di istituzionalizzazione arriva anche la fresca espulsione – ultima di una lunga serie, non interrottasi – della senatrice Serenella Fucksia.
L’istituzionalizzazione costituisce un passaggio indispensabile (e quasi obbligato) per qualunque formazione politica che veda giungere suoi rappresentanti all’interno di assemblee elettive o di enti locali (dove le esperienze amministrative col brand pentastellato non brillano propriamente…). Nei sistemi politici occidentali questo processo comporta la riduzione della carica antisistema dell’organizzazione e la sua tendenziale conversione in un partito con un organigramma e regole interne (ambedue non metabolizzabili da parte del Movimento, che afferma di avere appunto un «non statuto» e di affidarsi al direttismo democratico online, e considera l’etichetta di partito alla stregua di un insulto). Storicamente, la resistenza all’istituzionalizzazione è stata quella dell’arroccamento all’interno del fortilizio dell’ideologia, con l’espulsione dei dissidenti. Ma il M5S è una forza postideologica (dimensione a cui deve parte dei successi), e non possiede una vera ortodossia sotto questo profilo.
E, dunque, reagisce rafforzando la propria caratteristica essenziale di partito (bi)personale-carismatico, nel quale l’eretico non è colui che si smarca da un atteggiamento ideologico troppo elastico e prêt-à-porter, fondato sulla rivendicazione di virtù prepolitiche (come l’onestà) e (deliberatamente) poco coerente per produrre dei deviazionisti, bensì chi non risulta in linea con il «Principio del capo» (dei due capi) che, nonostante le apparenze, identifica tuttora il criterio fondamentale di legittimità per avere potere e ruoli. Perché il M5S è ancora, in tutto e per tutto, il «partito di Grillo (e Casaleggio)», per conto del quale operano (talora piuttosto efficacemente) una serie di militanti e di «portavoce» in seno al Parlamento. L’istituzionalizzazione toglierebbe troppo appeal dal punto di vista dei consensi: grande è la confusione sotto il cielo della vita pubblica, ergo la situazione è (elettoralmente) eccellente per il Movimento.