giovedì 17 dicembre 2015

La Stampa 17.12.15
Mezzo secolo di misteri italiani
tra poteri invisibili e cialtroneria
Gelli ha incarnato i poteri occulti ma anche le millanterie provinciali
di Luigi La Spina


Ci sono uomini la cui vita è trascorsa così nelle tenebre che nemmeno la morte riesce a rischiararla. È il caso di Licio Gelli, che se n’è andato nella tomba senza che si possa distinguerne il vero ruolo nella storia della cosiddetta nostra prima Repubblica e senza neppure poter escludere dalla sua biografia uno dei tanti soprannomi con i quali si è tentato di definirlo: «venerabile maestro» della loggia massonica più oscura, la P2, burattinaio di mille fili nella classe dirigente della seconda metà del secolo scorso.
Golpista di un improbabile progetto di «rinascita democratica», diabolico regista di tutti i complotti, veri e presunti, contro lo Stato. Ma anche il prototipo dell’italico millantatore, provinciale seduttore di carrieristi dall’ambizione sproporzionata per i loro modesti ingegni, assiduo frequentatore delle anticamere dei potenti, come dei retrobottega di trafficanti, quelli dei soldi e quelli delle anime.
L’assoluta oscurità
Eppure, l’esistenza del quasi centenario Gelli potrebbe persino meritare l’epitaffio più terribile e calzante che Norberto Bobbio scrisse in un famoso libro, «Democrazia e segreto», a proposito dei vizi della Repubblica: «Non si capisce nulla del nostro sistema di potere se non si è disposti ad ammettere che, al di sotto del governo visibile, c’è un governo che agisce nella penombra... e ancor più in fondo un governo che agisce nella più assoluta oscurità... un potere invisibile che agisce accanto a quello dello Stato, insieme dentro e contro, sotto certi aspetti concorrente, sotto altri connivente, che si vale del segreto non proprio per abbatterlo, ma neppure per servirlo».
Non c’è miglior descrizione dell’abilità mefistofelica con cui il capo della P2 si mosse, tra il palcoscenico e i camerini del teatro della nostra vita pubblica, di questo passo di Bobbio che individua magistralmente quel «filo nero» nella storia dei primi cinquant’anni di vita democratica che  attraversa politica, magistratura, forze armate, servizi segreti, banche, giornalismo, in un labirinto di intrighi in cui la malavita comune fa sempre da indispensabile complice, qualche volta servizievole, qualche volta ricattatore.
La lista
Fu una dolcissima sera del meraviglioso maggio romano del 1981 a illuminare all’improvviso il mistero di quella contiguità, concorrenziale e connivente, tra una parte, sia della classe dirigente nazionale sia della società civile d’allora, e il sottobosco di un potere occulto, teso a impadronirsi dei più importanti centri di controllo della macchina statale, ma anche dei mezzi più influenti nell’orientamento dell’opinione pubblica. Il governo Forlani decise di pubblicare i nomi dei quasi mille appartenenti alla loggia di Gelli e davanti a noi cronisti, intenti a strapparci di mano quei fogli sbalorditivi, comparve una verità tanto inquietante quanto confusa. Era la prova di quanto fosse pervasivo il condizionamento del burattinaio di Castiglion Fibocchi, perché nell’elenco c’erano ministri, parlamentari, imprenditori, finanzieri, magistrati, editori e giornalisti famosi. Ma era indistinto il ruolo di quei personaggi nelle trame di Gelli e incomprensibile il grado di consapevolezza e, quindi, di responsabilità nei suoi progetti eversivi.
L’esito di quella rivelazione fu, quindi, duplice e contraddittorio. Gettò un’infamante, ma generica macchia di ignominia sui nomi coinvolti, ma alimentò una serie di dissociazioni, smentite, confessioni, pentimenti, accuse incrociate tali da rendere, per sempre, faticoso e impossibile l’accertamento giudiziario, o semplicemente morale, della verità. In quelle liste c’era lo specchio dell’immutabile società italiana, con tutte le sue multiformi incarnazioni: c’erano nostalgici di uno squallido passato, militanti contro un pericolo comunista in quegli anni già avviato alla definitiva sconfitta, in combutta con servizi segreti deviati, nazionali e americani, ma pure impazienti carrieristi che cercavano una scorciatoia per l’ambita poltrona e, persino, forse, ingenui scalatori sociali convinti di far parte del club più elitario del Paese.
I tanti traditori
Traditori della Costituzione alla quale i rappresentanti dello Stato avevano giurato fedeltà e traditori della deontologia professionale, come medici, avvocati, giornalisti ebbero così destini diversi. Alcuni scomparvero dalla scena pubblica, altri rimasero «in sonno» per qualche tempo, non più dall’appartenenza alla massoneria, ma dalla ribalta politica e sociale, altri ancora, in virtù di spettacolari abilità mediatiche, addirittura accrebbero successi e popolarità. Tutti evitarono guai giudiziari, ma anche il loro capo, Gelli appunto, passò in galera poco tempo, tra fughe all’estero, complicati procedimenti di estradizione, clamorose evasioni, prescrizioni dei reati, libertà provvisorie per motivi di salute. E, alla fine, persino la sua famosa villa «Wanda», dal nome della sua prima moglie, gli fu restituita.
I suoi eredi
Una lunga parabola, quella del «venerabile», tipica di tanti vizi di casa nostra, pubblici e privati. Un uomo accusato di essere il protagonista di tutti i peggiori crimini della storia recente, dal golpe Borghese al crac Sindona, dall’omicidio Moro alla strage di Bologna, che riesce, sostanzialmente, a sfuggire alla pena prevista dalla giustizia. Un personaggio che volteggia, indecifrabile, tra le vette del male, emblema di quel «potere invisibile» della prima Repubblica, e la cialtroneria dei più famosi interpreti della commedia all’italiana, farsesco epigono di Totò e Tognazzi. Purtroppo, Gelli non si è portato nella tomba anche i suoi misteri. È possibile, anzi è probabile, che gli eredi di quei suoi misteri siano ancora tra noi.