giovedì 17 dicembre 2015

La Stampa 17.12.15
Rino Formica
“Incarnava lo Strapaese che puntava alla Stracittà”
“In questo ci sono similitudini col renzismo”
di Fabio Martini


Col proverbiale gusto per le battute, Rino Formica scandisce il suo ultimo aforisma: «Quaranta anni fa, era il 1975, Gelli dava inizio alla scalata della P2 e quello stesso anno nasceva Matteo Renzi. Un passaggio di testimone, simbolico naturalmente, ma c’è qualcosa che unisce due destini toscani da parvenu: è lo Strapaese che vuole conquistare la Stracittà...». Ottantotto anni, lucidità e acume persino acuiti dall’età, già ministro socialista, Rino Formica ha vissuto da protagonista gli ultimi 25 anni della Prima Repubblica e da un ventennio segue la politica con una curiosità e una libertà di pensiero che ne fanno uno degli osservatori meno conformisti.
L’interpretazione della figura di Licio Gelli è oscillata per decenni: potente per caso e pasticcione di provincia o terminale di poteri fortissimi, massonici e americani?
«Gelli ha gestito per anni una casella postale. Un episodio per capirne il ruolo. Nella lista P2 c’era, tra i tanti, un capo dei Servizi, il generale Miceli che a suo tempo dichiarò davanti al Parlamento di avere rifiutato il nulla-osta di sicurezza al presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Se un capo dei Servizi fa un simile rifiuto, aveva bisogno di stare sotto Gelli?».
Però la P2 è riuscita a condizionare la storia del Paese, come ha fatto?
«Alla P2 aderivano personaggi che avevano alte responsabilità, ma che non rispondevano alle istituzioni del proprio Paese e semmai ad istituzioni sovranazionali. Personaggi spregiudicati, a cominciare da Gelli».
Al di là dei singoli episodi chi è stato Licio Gelli?
«Uno che diceva ai suoi interlocutori: io gestisco sta’ casella e voi fatemi fare affari...».
E gli interlocutori cosa chiedevano in cambio?
«Bassi servizi, lavori sporchi. Per esempio la gestione del terrorismo nero»
In cosa Gelli ha cambiato la storia del Paese?
«Il ruolo di Gelli e della P2 si spiega così: nel dopoguerra l’Italia diventa terra di frontiera, l’Ovest aveva interesse che la frontiera fosse ben presidiata, l’Est che fosse più slabbrata possibile. L’Italia, utilizzando gli accorgimenti di chi presidia la frontiera, doveva essere garbato con entrambi e sgarbato di volta in volta con l’uno o con l’altro. In questa alternanza ogni tanto usciva dalle righe e si aprivano spazi per i mestatori. Poi con l’89 è finita la birra»
Alla fin fine con la scoperta delle carte di Gelli, finisce anche il suo potere?
«Sulle carte non c’è una grande chiarezza. Alcune sono state trovate, altre no. Erano a difesa di Gelli, non sono mai servite per accusarlo. Lui teneva la “riserva” e infatti è morto nella sua villa».
Lei è arrivato ad immaginare Renzi come il prosecutore di una certa idea della politica di Gelli: non è troppo?
«Pur in tempi così diversi, mi limito ad osservare una certa similitudine tra due clan della provincia toscana, dove la politica si continua a fare nelle sale da barba, i traffici immobiliari nello studio del notaio, i matrimoni in parrocchia. Clan con i loro vizietti, che vanno alla conquista di un grande centro di potere mondiale come Roma. Tra le due epoche c’è una certa differenza: non presidiamo più la frontiera e sul piano economico non siamo eccezionali più in nulla. Per essere competitivi, non basta aver scoperto la frutta e verdura! E quanto al piano politico la differenza è decisiva: questo governo non fa una elaborazione ex ante, ma ex post. Il riformismo modernizzatore anticipa non si limita ad adattarsi all’emergenza».