martedì 15 dicembre 2015

La Stampa 15.12.15
Le rischiose commissioni d’inchiesta
di Marcello Sorgi

Molto più delle mozioni di sfiducia annunciate dalle opposizioni contro la ministra Boschi, rischia di avere effetti deflagranti la commissione parlamentare di inchiesta proposta da Renzi sul caso delle quattro banche commissariate dal governo. Sebbene l’intento del premier sia di ottenere massima trasparenza, per dimostrare di non aver nulla da nascondere, l’esito di queste commissioni non è mai prevedibile; e la natura politica connaturata ad organi nati per essere inquirenti, ma attraversati al loro interno da maggioranze trasversali le più svariate, fa sì che, non una, ma più verità, alla fine vengano fuori, e ciascuna di esse sia utilizzata da chi l’ha accertata a scapito degli avversari.
Questa tendenza, per così dire congenita, delle commissioni di inchiesta, s’è particolarmente aggravata nella Seconda Repubblica, quando a proporne (e a ottenerne) l’istituzione sono stati i governi e non le opposizioni. Alla fine lo scontro politico sui risultati raggiunti dall’indagine parlamentare è diventato così forte da non consentire più di distinguere la propaganda dall’effettivo contenuto delle relazioni approvate. L’esempio più recente ed emblematico di quest’evoluzione è costituito dalla Commissione Mitrokhin, voluta dal governo Berlusconi nel 2002, all’inizio della prima vera legislatura di governo del centrodestra. Il punto di partenza erano i 261 documenti dell’agente del Kgb Mitrokhin inviati dai servizi segreti inglesi a quelli italiani e riguardanti la rete del servizio sovietico, e più in generale delle spie dell’Est, in Italia, ai tempi della guerra fredda. Questa documentazione era stata consegnata nel ’99 anche al governo D’Alema, che non l’aveva resa pubblica valutando la genericità delle informazioni contenute nel dossier e la distanza di tempo intercorsa dai fatti utili solo a sollevare un polverone. Berlusconi al contrario, appena tornato a Palazzo Chigi nel 2001, aveva deciso di scoperchiare il caso Mitrokhin per mettere in imbarazzo il centrosinistra e accusarlo di essere stato reticente per nascondere i vecchi legami del Pci con il Pcus. La commissione, presieduta da Paolo Guzzanti, prese le mosse dalle carte di Mitrokhin e via via allargò i confini dell’inchiesta all’intero campo della guerra fredda, al terrorismo degli Anni Settanta e agli eventuali interventi dei servizi dell’Est, naturalmente al caso Moro (su cui aveva a lungo indagato un’altra commissione parlamentare, e una nuovissima, di recente, ha ripreso a lavorare), sull’attentato a Papa Wojtyla del 1981 e sul possibile coinvolgimento del Patto di Varsavia, sulle visite del terrorista Carlos alle Feste dell’Unità e così via, per citare i principali filoni di un universo mondo che a un certo punto parve dover riscrivere l’intera storia del Novecento: programma troppo vasto per un organo dalle risorse limitate e inadatto a produrre effetti politici che infatti non ci furono. Berlusconi pubblicò a sue spese una specie di vocabolario intitolato «Libro nero del comunismo», lo distribuì gratuitamente al congresso di An provocando le ire di Fini, ma l’idea di adoperare la commissione come una clava, per batterla sulle teste di D’Alema e Prodi, in conclusione fallì.
Non troppo diversa era stata la sorte delle commissioni d’inchiesta nate all’inizio della Repubblica, quando, in tempi di democrazia bloccata, servivano ad accontentare le richieste legittime di un’opposizione condannata a restare al suo posto, senza andare mai al governo. La prima, la più famosa, era stata la commissione Antimafia voluta da Parri e Lombardi nel ’63, quando ancora la parola mafia non veniva pronunciata nei tribunali. Era la madre di una lunga serie che arriva a quella presieduta oggi dalla Bindi, divenuta celebre per aver dichiarato impresentabile l’attuale governatore della Campania De Luca. Ma allora, più di mezzo secolo fa, la commissione soleva dividersi e produrre due relazioni, di maggioranza e di minoranza, che si contraddicevano punto per punto. L’aspetto caratteristico era che le maggioranze e le minoranze nascevano da spezzoni di partiti, producendo destabilizzazioni che arrivavano a sfociare in crisi di governo. Una polemica durissima, ad esempio, si accese una volta anche nel Pci, tra Emanuele Macaluso, storico dirigente del partito e protagonista della prima commissione Antimafia, e Luciano Violante, che ne avrebbe presieduto una successiva negli Anni Novanta. Violante insisteva per pubblicare le schede che trent’anni prima la commissione in cui aveva lavorato Macaluso aveva messo a punto su diversi esponenti politici in odore di rapporti mafiosi. Macaluso, più garantista, si opponeva, perché le giudicava datate e prive di seri fondamenti: appunti di marescialli di polizia che collaboravano con gli organismi parlamentari e spesso li compilavano interpretando i sentimenti politici dei parlamentari. Solo una volta i due fronti, uno proteso a negare i rapporti tra politica e mafia e l’altro ovviamente a dimostrarli, si capovolsero; e ad opera del futuro ministro dell’Interno Pisanu, che temporaneamente presiedeva la commissione, produssero un atto d’accusa sulle relazioni tra un pezzo di stato maggiore della Dc e la criminalità organizzata che fece sobbalzare l’intero Scudocrociato.
L’insieme discutibile di metodo inquisitorio-politico, maggioranze trasversali occasionali e obiettivi propagandistici non riguardò però solo l’Antimafia. Ma per fare altri esempi, anche la già citata Commissione Moro, nata dopo l’assassinio del leader Dc, dedicata ai grandi attentati terroristici e impegnata a svelare le connivenze tra servizi «deviati», ambienti dell’eversione e criminalità, la Sindona (approfondimenti della vicenda del banchiere mafioso protetto da Andreotti e avvelenato in carcere), la P2 (sullo scandalo della loggia di Gelli), l’indagine parlamentare sulla corruzione seguita al terremoto in Belice.
Anche per questo, Renzi e il governo dovrebbero riflettere bene prima di realizzare il proposito di istituire una nuova commissione sul caso delle quattro banche commissariate dal governo. L’esito più probabile sarebbe di allargare l’inchiesta dai quattro istituti di credito coinvolti all’intero sistema bancario, al ruolo di Bankitalia e della Consob, al possibile contagio di altri sportelli traballanti. Obiettivi, questi, ai quali è meglio si dedichino le autorità competenti, la Banca d’Italia come la magistratura ordinaria, dotate di strumenti tecnici più efficaci e della riservatezza che richiedono indagini così delicate. Intanto il Parlamento potrà discutere e superare il caso Boschi: con un solo giorno di seduta e un semplice voto dell’aula.