martedì 15 dicembre 2015

Repubblica 15.12.15
Lo scaricabarile
di Massimo iva


C’È UN BARILE in questa trista vicenda bancaria che corre avanti e indietro senza mai trovare un posto dove fermarsi. Rimbalza e saltella ai piani alti delle istituzioni pubbliche, ma con un movimento che giorno dopo giorno sta scivolando sempre più verso il basso. Ed è il barile delle responsabilità che più scende e più rischia di diventare quello che nella vulgata popolare si chiama il classico bidone.
Sarà che il gioco dello scaricabarile è antico come il mondo, ma stavolta occorre segnalare che i pur augusti partecipanti si muovono mettendo in campo argomenti più utili a denunciare che a nascondere il loro imbarazzo. È il caso, in particolare, della Banca d’Italia, l’istituzione deputata al controllo degli equilibri del sistema creditizio e segnatamente alla vigilanza sulla corretta gestione dei singoli istituti bancari. Che i suoi esponenti invitino a sdrammatizzare l’allarme generale ricordando che l’attuale vicenda coinvolge meno dell’uno per cento dell’intero mercato è un indubbio segno di senso della responsabilità. Dove questo senso scompare del tutto, però, è quando si sostiene e si vuol far credere che — nel caso specifico delle quattro piccole banche finite in dissesto — Via Nazionale abbia fatto tutto quel che doveva fare e non abbia da rimproverarsi né una svista né un ritardo.
Come usano dire gli avvocati, questo argomento prova un po’ troppo. Perché apre alla deduzione che, secondo la prassi vigente della vigilanza bancaria, altri casi come quelli esplosi in queste settimane potrebbero tranquillamente covare nel sistema all’insaputa dei pur diligenti e occhiuti controllori di Via Nazionale. Con la conseguenza, certamente indesiderata dagli stessi vertici di Banca d’Italia, di indebolire l’affidabilità anche delle coscienziose rassicurazioni sulla solidità di fondo del sistema creditizio domestico.
Un’altra importante istituzione che ha scelto di rinchiudersi nel fortilizio del “noi abbiamo fatto tutto quel che dovevamo” è la Consob, la commissione di controllo su società e Borsa. Per allontanare da sé il barile delle responsabilità, il suo presidente ha appena fatto un’intervista al “Corriere della sera” i cui passaggi salienti si riassumono in due lamentele: 1) di non avere poteri d’intervento in tema di salvataggi bancari; 2) di non essere stato consultato dal governo sulle misure da assumere nel districare la matassa. Come dire: non contiamo nulla, perché ci tirate in ballo? Ma rispedendo altrove il barile, il presidente di Consob non ha perso l’occasione di dargli una bella spinta verso il basso in direzione dei malcapitati che hanno visto andare in fumo i loro risparmi. Attenzione, ha avvertito testualmente il nostro: «Nei prospetti informativi delle obbligazioni subordinate c’è scritto sulla prima pagina e in grassetto che si possono subire perdite in conto capitale». Come dire: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, eccetera. Non un bel vedere da parte di chi guida un organismo incaricato di tutelare la trasparenza degli scambi. Chissà quale e quanto peso vorranno dare a quel “grassetto” gli arbitri o i tribunali che saranno investiti dalle sacrosante cause dei risparmiatori coinvolti, ma va notato che lo stesso presidente di Consob non sembrerebbe tanto sopravvalutarlo dato che lui stesso, in un passaggio successivo dell’intervista, si allinea alla proposta dei Bankitalia di stabilire il divieto di vendita di titoli subordinati al dettaglio. Proposito che apre una contraddizione fra il giudizio di insufficienza del grassetto per il futuro e il suo uso come scudo per ogni responsabilità sul passato.
Nell’andirivieni del barile non hanno perso l’occasione di stare al gioco anche i sepolcri imbiancati di Bruxelles rimproverando alle autorità italiane di aver lasciato esibire sul mercato titoli “inadeguati”. Giudizio che potrebbe essere anche condivisibile, se non fosse che mai da quella fonte una simile sentenza è stata pronunciata quando si è trattato di correre al soccorso delle banche francesi e soprattutto tedesche che si erano imbottite di titoli non meno inadeguati in Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Per non dire dell’ancor più insolente tentativo di riparare la faccia feroce di Bruxelles verso Roma dietro la capziosa tesi di voler così difendere i soldi dei contribuenti italiani. Argomento — guarda caso — mai messo in campo quando si è trattato di prelevare dalle tasche dei nostri concittadini una sessantina di miliardi per salvare banche e clienti degli altri paesi.
Intendiamoci, che in questa vicenda ci siano colpe diffuse a livello periferico è fuori di dubbio. Ci sono stati amministratori e dirigenti di banca che dovranno essere chiamati davanti a un giudice per rispondere di palesi atti di mala gestione, con probabili aggravanti corruttive. Ci sono funzionari che, vuoi per servilismo vuoi per ambizioni di carriera, si sono prestati a turlupinare i clienti più ingenui. E ci sarà pure qualche obbligazionista che ha scientemente corso l’azzardo per spuntare un tasso d’interesse migliore. Ma non è che la questione si possa richiudere nell’angusto cerchio di un malcostume paesano. Se questo è fiorito e durato nel tempo è anche perché chi doveva smascherare le pratiche cattive non lo ha fatto nei tempi e modi dovuti. Altrimenti sì che il barile diventa un bidone e il paese perde l’occasione di rivedere da cima a fondo metodi e struttura della vigilanza sull’intermediazione finanziaria.
Perché, purtroppo, questo è il nodo di fondo che emerge da questa brutta storia. Nell’era della banca telematica e dell’elettronica che consente di conoscere anche i minimi dettagli dei movimenti di denaro in tempo reale, resta di drammatica attualità un interrogativo vecchio di duemila anni: “Quis custodiet ipsos custodes?”.