venerdì 11 dicembre 2015

La Stampa 11.12.15
Lo scontro tra l’Italia e l’Europa
di Mario Deaglio


Tra l’Italia e la Commissione europea si è acceso nelle ultime settimane uno scontro a tutto campo senza precedenti per il durissimo livello delle polemiche, appena velato da un’acida cortesia formale.
Questo scontro vede al centro i problemi economici e ha toccato livelli elevatissimi quando, pochi giorni fa, il presidente del Consiglio italiano ha dichiarato di non accettare i «tempi tecnici» di Bruxelles per la valutazione della legge italiana di stabilità, che avrebbero bloccato le nuove spese fino a marzo e di procedere subito con gli stanziamenti per la sicurezza. In precedenza Renzi aveva respinto le critiche europee sugli sgravi fiscali sui fabbricati, inseriti nella stessa legge, e criticato a sua volta quella che ha chiamato l’«Europa dello zero virgola» per indicare l’accanimento sui dettagli delle cifre e la mancanza di grandi disegni nei palazzi del potere europeo.
Potrebbe quindi non essere una pura coincidenza il fatto che, nelle ultime ore, siano piovute sull’Italia due nuove procedure d’infrazione, la prima per non aver sufficientemente schedato i migranti giunti sul territorio italiano e la seconda per non aver sradicato abbastanza ulivi nella lotta contro la xylella, un pericoloso parassita di tali piante.
Dal canto suo, l’Italia ha chiaramente indicato la sua insoddisfazione bloccando il rinnovo automatico delle sanzioni alla Russia, che scadono alla fine dell’anno e chiedendo un dibattito politico su quella che molti ritenevano una semplice questione burocratica.
Mercoledì lo scontro si è allargato coinvolgendo, oltre al governo, anche la Banca d’Italia: il commissario europeo alla stabilità finanziaria ha dichiarato che i risparmiatori che avevano operato con le quattro banche in crisi «forse non sapevano che cosa compravano», un’implicita, grave accusa alla vigilanza bancaria, mentre si profila un’altra procedura d’infrazione contro l’Italia per la mancata applicazione della direttiva europea sulla garanzia dei depositi. La risposta di Via Nazionale non si è fatta attendere: il capo della vigilanza, Barbagallo, ha dichiarato che il coinvolgimento dei risparmiatori è stato imposto proprio dall’Unione Europea.
Nel frattempo, la Germania continua a salvare banche locali con soldi pubblici senza che nessun altro Paese si permetta di dire una parola e la Francia continua a operare in deroga alle norme del patto di stabilità con un deficit pubblico ben superiore a quello dell’Italia. Dopo i recenti attentati, il presidente Hollande ha dichiarato che la sicurezza ha la precedenza sul patto di stabilità, lasciando intendere che ci sarà un’estensione dello sforamento francese del deficit pubblico, oltre i limiti, molto generosi, già concessi a Parigi. La stessa precedenza della sicurezza sulla stabilità viene negata all’Italia, quando il nostro Paese si propone di fare sostanzialmente la stessa cosa, ossia di stanziare fondi in deroga per misure di antiterrorismo.
I risparmiatori delle quattro banche salvate si trovano quindi al centro di un vero e proprio terremoto che chiama in causa i fondamenti e i principi sui quali si devono fondare sia l’Unione Europea nel suo complesso sia i rapporti tra l’Unione Europea e gli Stati che ne fanno parte. L’intervento «umanitario» – come l’ha definito il ministro Padoan - a favore dei risparmiatori colpiti può essere una medicina di pronto soccorso ma, più che curare i problemi, ne rivela l’entità e la gravità.
In tutta Europa, ma in Italia in particolare, la necessità di interventi pubblici appare determinata dall’effetto congiunto di due anomalie: la spregiudicatezza di una frangia del mondo bancario nel collocare i propri titoli di credito presso risparmiatori privi di nozioni finanziarie adeguate e la convinzione di una frangia di risparmiatori che sia possibile accettare titoli dai rendimenti anormalmente generosi senza domandarsi che cosa può determinare tali rendimenti. Tutto sommato, sia gli uni che gli altri pensano che alla fine interverrà sempre lo Stato a salvare tutti. Le cose non stanno così: che l’Europa ce la faccia ad andare avanti oppure no, i tempi dello «Stato-mamma» sono davvero finiti.