Il Sole 9.12.15
La minoranza punta alla battaglia congressuale
Se il doppio incarico leader-premier è «pilastro» del Pd
di Emilia Patta
Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, dopo la fine della breve era veltroniana con le primarie del 2009 vinte da Bersani, lo hanno sempre pensato: le cariche di segretario e premier è meglio che siano divise. Separazione di “carriere” che negli ultimi giorni è tornata di attualità: a chiederlo esplicitamente i leader della minoranza interna Gianni Cuperlo e Roberto Speranza e anche il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, che con questa mossa ha fatto pensare alla sua intenzione di proporsi come l’anti-Renzi del Pd al congresso previsto nel 2017. Eppure lo statuto voluto da Walter Veltroni nell’ormai lontano 2007, cioè l’anno di nascita del Pd dopo lo scioglimento dei Ds e della Margherita, si incentra proprio su questo punto, che può essere definito in termini giuridici il pilastro della costituzione materiale: il segretario del Pd è anche il candidato premier naturale e, in caso di primarie di coalizione, l’unico candidato del partito. È la cosiddetta “vocazione maggioritaria” del Pd sempre osteggiata proprio da Bersani e D’Alema, che credevano e credono nella necessità di una coalizione di centrosinistra il più ampia possibile.
Durante la gestione bersaniana del Pd non ci fu il tempo né il clima politico per il pur evocato “ritocco” alle primarie (e quindi allo statuto). E il ciclone Matteo Renzi, dopo la non-vittoria alle politiche del febbraio 2013, ha travolto tutto. Compreso - non a caso - il premier allora in carica Enrico Letta, che appunto leader di partito non era. Così come non lo era Romano Prodi durante il suo primo governo, nato nel ’96: e proprio la rivalità politica con D’Alema, allora capo dei Ds ossia del partito di maggioranza relativa, portò alla fine del Prodi 1 con l’arrivo dello stesso D’Alema a Palazzo Chigi. La contraddizione irrisolta tra leadership e premiership si è riproposta con modalità simili durante il secondo governo Prodi (2006-2008). Il Professore cercò allora di predisporre gli anticorpi: costituì un suo partito (l’Asinello, che poi confluì con i Popolari nella Margherita) e cercò la legittimazione politica diretta attraverso le prime primarie nazionali, naturalmente aperte, per la scelta del candidato premier: il 16 ottobre del 2005 ben 4 milioni e 311mila elettori si recarono ai gazebo per incoronare Prodi con il 74,17% dei sì. Eppure tutto questo non bastò a blindarlo al governo, e furono proprio altre primarie a mettere in scena definitivamente la contraddizione irrisolta: quelle del 14 ottobre del 2007 per la scelta del leader-candidato premier - come previsto appunto dallo statuto del neonato Pd - che incoronarono Veltroni (3 milioni e mezzo di elettori, 75,82% di sì). Iniziò proprio quel giorno la delegittimazione strisciante del premier in carica Prodi, che cadde meno di un anno dopo anche per problemi di coesione della coalizione di governo.
Si capisce dunque l’assoluta intenzione di Renzi di non rimettere in discussione la coincidenza delle due cariche. Anche perché, a parte la Francia che è un caso a sé dal momento che con le presidenziali si elegge il capo dello Stato che in quanto tale rappresenta tutti i francesi, la coincidenza dei due ruoli c’è in tutte le democrazie parlamentari d’Europa: Germania, Inghilterra e Spagna in primis. La minoranza del Pd argomenta la necessità di separare leadership e premiership con il fatto che l’agenda del governo rende impossibile al premier-segretario curare il partito sui territori (e su questo punto Renzi ha in effetti la necessità di intervenire). Ma è chiaro che sarebbe un modo per tornare a controllare la “ditta”. Per questo il tema sarà centrale nella prossima battaglia congressuale.