giovedì 3 dicembre 2015

Il Sole 3.12.15
La Turchia complice (e vittima) del terrorismo


Ma la Turchia è complice o vittima dei terroristi? Potremmo dire che la Turchia è complice e vittima al tempo stesso. «La storia del terrorismo è scritta dallo Stato: le popolazioni spettatrici non possono sapere tutto del terrorismo ma possono sempre saperne abbastanza da essere convinte che tutto il resto dovrà sembrare loro accettabile». La Turchia di Erdogan, che dopo un’ondata di paura scatenata dallo spaventosa strage di Ankara del 10 ottobre ha stravinto le elezioni, somiglia a questa frase scritta decenni fa dal filosofo situazionista Guy Debord.
Per aver pubblicato le prove della forniture di armi ai jihadisti, rivelate con foto dalla stessa gendarmeria turca, la settimana scorsa sono stati arrestati il direttore di Chumurryet Can Dundar e il suo vice mentre a Diyarbakir veniva freddato dalla polizia o milizie l’avvocato dei curdi. Il “deep state”, lo Stato profondo turco, è sempre in azione. Tempo fa Erdogan aveva chiesto che Dundar fosse messo all’ergastolo perché le sue inchieste descrivevano l’addestramento dei jihadisti nella provincia di Konya. Ma crediamo più facilmente agli autocrati che non alle persone perbene come Dundar.
Non possiamo dire di non sapere, anche se l’Europa foraggia la Turchia per tenersi due milioni di profughi. Erdogan nel 2011 aveva inaugurato l’”autostrada della jihad” per abbattere Assad con il benevolo assenso degli Usa, della Francia e dell’Occidente: scandalizzarsi di quanto viene rivelato oggi è soltanto un’ipocrisia. Ai loro occhi fu solo un errore di calcolo. È stato ammesso in febbraio dallo stesso vicepresidente Usa in un discorso in cui accusava Erdogan di essere complice dell’Isis: Joe Biden ha dovuto scusarsi ma a Parigi proprio Obama ha chiesto al presidente turco di chiudere il confine con la Siria. Le accuse della Russia alla Turchia per il traffico di petrolio siriano non meravigliano: ne abbiamo scritto più volte, aggiungendo che l’oro nero dell’Isis veniva venduto anche ad Assad. Ma queste foto somigliano un po’ troppo alla “smoking gun” di Colin Powell, la pistola fumante prova delle armi di distruzione di massa di Saddam che non si trovarono mai. Il commercio di petrolio c’è ma ormai è assai ridotto: il Califfato, secondo gli Usa, estrae al massimo 10mila barili al giorno.
Negli anni ’90 la Turchia acquistava sottocosto dal Kurdistan il petrolio di contrabbando di Saddam, sotto embargo, per un miliardo di dollari l’anno e nessuno faceva una piega perché il traffico doveva compensare le perdite delle esportazioni turche in Iraq. Le carcasse dei camion cisterna sono ancora ben visibili sulla strada di Silopi. Allora si arricchirono i generali di Ankara e Massud Barzani, ora Erdogan e il figlio Bilal, accusato dal sito americano Al Monitor di esportare petrolio dell’Isis. Ma fino a qualche tempo fa questo commercio veniva accettato come “danno collaterale” della guerra civile siriana con i suoi 250mila morti, così come si è accettato, in cambio di lucrose commesse e investimenti, che Qatar e Arabia finanziassero quelli che ora sono terroristi e prima erano solo “ribelli” anti-Assad. Per pagare i nostri errori con la risacca del terrorismo in Europa non abbiamo bisogno neppure delle “prove” vere o presunte di Putin.
Alberto
Negri