domenica 6 dicembre 2015

il manifesto 6.12.15
A San Bernardino, tutta chiese e armi, una strage americana
Per l’Fbi è terrorismo, ma sulla tranquilla coppietta di periferia che diventa un commando assassino gli interrogativi restano
Da «suburbia» multietnica a capitale delle psicosi da guerra di civiltà. Ma se l’Is fosse giunto ufficialmente fin qui, avrebbe trovato una terra già satura di fondamentalismi e pistole
di Luca Celada


LOS ANGELES All’indomani dell’«ufficializzazione» della pista terrorista da parte dell’Fbi, rimangono tuttavia più interrogativi che risposte sui retroscena della strage di San Bernardino. Alcuni elementi sembrano a questo punto affiancarla ai gesti compiuti da «individui radicalizzati» come l’attentato alla maratona di Boston o la strage di Fort Hood da parte di Nidal Hasan nel 2009. Lo indicherebbero la meticolosità dei preparativi, l’arsenale ammassato da Syed Rizawan Farook e Tashfeen Malik, la tranquilla coppietta di periferia trasformatasi in commando assassino. Ci sarebbe poi quell post su Facebook, sincrono al massacro, in cui, con uno pesudonimo, Tashfeen Malik, avrebbe «giurato» fedeltà allo «sceicco» Abu Bakr al-Baghdadi.
L’attenzione degli inquirenti al momento è soprattutto su di lei, la ragazza di buona famiglia integralista pakistana cresciuta in Arabia Saudita laureata in farmacia con cui Farook, il docile, integrato ispettore sanitario della contea si sposò nel 2014 alla Mecca. I due si sono forse conosciuti attraverso internet. «Come marito posso dirvi che in tutti i matrimoni esiste una misura di influenza» ha detto nell’ultima conferenza stampa il responsabile delle indagini Fbi, facendo balenare l’ipotesi di plagio integralista da parte della donna ventinovenne. Una possibile «sposa manciuriana», insomma, volata nella profonda provincia americana dal cuore integralista del Punjab pakistano, epicentro di reclutamento islamico. Nell’ipotesi più azzardata, una jihadista che avrebbe adescato un tranquillo musulmano di seconda generazione, che nelle inserzioni online aveva cercato una «compagna che indossi il niqab». Qualunque sia stata la dinamica si delineerebbe una «immersione profonda» della coppia nell’insospettabilità di provincia; dall’appartamentino bilocale, l’auto d’ordinanza nel garage, l’impiego statale e la figlia neonata nella culla.
Una vita «sotto al radar» per una strage americana, a partire dalle vittime, piccoli impiegati pubblici che sono anche loro uno spaccato di provincia multietnica americana: l’ebreo messianico (con cui Farook avrebbe avuto diverbi ideologico-religiosi), l’afroamericana, la vietnamita di seconda generazione, gli ispanici. Assieme hanno trovato la morte assurda mentre scaldavano le vivande di una colazione aziendale di fine anno per mano di natural born killers piombati in mezzo al tranquillo tableaux. Se si rivelassero effettivamente agenti della «guerra», se il conflitto globale fra occidente e islam fosse infine giunto «ufficialmente» in terra americana, lo scontro di civiltà sarebbe sbarcato in una terra fertile: intrisa di fondamentalismo religioso, portata ai fanatismi. E satura di armi da fuoco.
San Bernardino, sonnolento sobborgo di 200 mila anime di uno degli hinterland più depressi della California, ha nella fattispecie 100 e passa parrocchie cristiane, 11 negozi di armi e dieci poligoni di tiro aperti al pubblico (anche se tutti sanno che per divertirsi un po’ con la pistola basta andare nel vicino deserto del Mojave). Questa è la capitale dell’Inland Empire – l’altisonante nome ironicamente omaggiato qualche anno fa da un film di David Lynch. In realtà San Bernardino al massimo è capitale di un impero del declino, un sobborgo al centro del cataclisma dei subprime, la gigantesca speculazione a base di muti «carta straccia» imbastita da banche e Wall Street specialmente sulle spalle dei proletariati “periferici” fino al catastrofico crack del 2008. Qui nella fattispecie il tracollo ha costretto il comune a dichiarare nel 2012 la bancarotta – maggiore città californiana a formalizzare il fallimento.
Oggi vicino alle chiese e ai commercianti di pistole ci sono anche quattro moschee, in realtà poco più di modeste cassette su strade polverose adibite al culto della comunità musulmana. Una suburbia multietnica come tante che si è trasformata nella capitale delle psicosi amalgamate di un’America in preda a una crisi di nervi. In questa fatiscente palude in cui da tempo è impantanato l’american dream, sembra ora cadere anche il mito dell’ingranaggio assimilatore di cui i Farook erano in apparenza paradigmatico esempio.
Da qui i postumi della strage di mercoledì continuano ad emanare concentricamente sul paese alimentando dibattiti e narrazioni sovrapposte il cui comune denominatore è l’endemica violenza. Neppure la strage di innocenti alla scuola elementare di Sandy Hook, ad esempio, è finora servita a imporre regole più severe sull’accesso alle armi. E poco dopo i fatti in California il senato ha bocciato un emendamento che avrebbe vietato l’acquisto di armi agli individui già inseriti nelle liste no-fly delle compagnie aeree. I repubblicani fautori della guerra a oltranza e dei metodi Guantanamo, sulle armi hanno motivato il voto contrario con la difesa dei «diritti individuali».
Ora alle esortazioni di Obama si sono aggiunte quelle del New York Times e di molti autorevoli politici. La domanda che sintetizza l’America post-San Bernardino è se una psicosi – quella del terrorismo islamico — potrà prevalere su una psicopatologia nazionale, l’attaccamento fisiologico, totemico, costituzionalmente codificato, alle armi da fuoco. Il dibattito è certamente riaperto anche se sembra evidente che con 330 milioni idi armi in mano alla cittadinanza non basterebbero norme sull’acquisto a modificare “l’anomalia” americana, in assenza di un ricambio generazionale e culturale disposto a ridiscutere il secondo emendamento – quello che elèva il porto d’armi a sacrosanto diritto costituzionale. Fino ad allora discorsi e corsivi servono solo a delineare i contorni di due Americhe profondamente dissociate: donne e minoranze urbane a favore delle riforme, contro i maschi bianchi prevalentemente di provincia, intransigenti e con in mano il grosso delle armi.
Questi ultimi comprendono una grossa fetta di supporter di Donald Trump che ha subito consolidato il proprio primato fra i candidati repubblicani (36%) invocando più forte degli altri una non meglio precisata «guerra totale» e la distribuzione di altre armi ai cittadini.

il manifesto 6.12.15
Due anni di renzismo (ir)realizzato
di Michele Prospero


L’8 dicembre di due anni fa Renzi è diventato il segretario del Pd. Per chi della velocità aveva fatto un mito, e dall’energia creativa del corpo del capo aveva ricavato l’attestato della garanzia di successo, due anni di potere sono un tempo enorme, valido per sopportare una verifica. Una radiografia l’ha fornita il rapporto Censis con la metafora bruciante del paese in «letargo». Quando Renzi concluse la sua marcia trionfale tra i gazebo, raccolse, oltre al sostegno di ambienti esterni pronti a finanziare una scalata ostile, anche un’ansia di successo, sfumato nel 2013, e un bisogno di rinnovamento delle classi dirigenti. Un biennio di leadership incontrastata basta però per lasciar appassire i sogni di gloria e per smentire ogni attesa di ricambio effettivo nelle pratiche e nei volti del ceto politico locale.
Il governo della mancia per tutti non attira un voto in più al Pd. E le sue disinvolte e creative misure economiche non agganciano la ripresa, anzi aggravano il divario con il passo spedito di altri partner europei. Le esclusioni sociali crescono, l’evasione fiscale e contributiva regna incontrastata, il differenziale territoriale si acuisce, i servizi pubblici, la sanità deperiscono. Galleggia l’illegalità, solerte è la misura per il salvataggio delle banche amiche.
Le imprese, incassato l’oro delle decontribuzioni e dei tagli Irap, continuano a rigettare ogni strategia competitiva fondata sull’innovazione e la qualità. Con la libertà di licenziamento, sancita dalle nuove leggi sul mercato del lavoro varate dal governo, le aziende si sentono protette da una irresistibile corazza. E pensano di proseguire nella strada della competizione al ribasso, tramite la marginalizzazione del sindacato, la precarietà camuffata dalle tutele crescenti. Il basso costo del lavoro è loro garantito in eterno dal potere di licenziare con modico indennizzo monetario.
Presto il nero diventerà la figura dominante nei rapporti contrattuali perché, dopo 40 anni di lavoro e con una pensione che non sarà di molto superiore a quella sociale, al dipendente risulterà più conveniente chiedere di essere pagato in nero, così almeno potrà racimolare qualche spicciolo in più dal mancato versamento dei contributi. Senza una politica degli investimenti, e senza una crescita dei salari pubblici e privati (altro che mance graziosamente elargite, senza alcun progetto di società), il sistema si avvita in una spirale regressiva e catastrofica.
Questo biennio perduto lascerà ferite sociali e politiche difficili da rimarginare. La volontà del capo di governo di presentarsi come il generoso protettore di tutta la nazione, che distribuisce bonus e mance ai ragazzi, ai carabinieri, agli insegnanti, non solo disperde risorse preziose, perché scarse, senza alcun risultato tangibile nell’inclusione sociale ma non viene premiato nella sua spericolata raccolta del consenso clientelare due punto zero.
Ha un bel dire Paolo Mieli che Renzi non è un capo divisivo, ma vive nella splendida condizione di chi ha la felice fisionomia di un leader vincente che scavalca mirabilmente gli steccati e pesca fiducia ovunque. Ascoltando meglio gli umori reali, non mancherà la percezione di un vivo sentimento di inimicizia, e anche di odio politico, che cresce e impedisce allo statista di Rignano di sfondare, nonostante l’infinita presenza in video, il sostegno generale dei media, il gradimento dei poteri che influenzano, la smobilitazione della destra.
Non basta, per rimediare alla deriva, raccogliere l’invito a costruire il partito, senza il quale, in effetti, tra il capo e il territorio esiste solo un solidissimo vuoto. Il problema è che Renzi non può costruire un partito, per ragioni strutturali. Ha distrutto quel poco di organizzazione che rimaneva, costringendo alla fuga gli illusi che fingevano di ritrovare nei gazebo i residui di vecchie simbologie e nei comitati elettorali degli affaristi in carriera i detriti di memorie, e non può edificare una nuova struttura, con gli eventi fuggevoli dei mille banchetti.
A Renzi il partito serve solo come fonte di legittimità per ordinare lo «stai sereno» e per continuare ad abitare a palazzo Chigi finché vuole. Non ha una cultura moderna della leadership, ma sprigiona solo una caricaturale infatuazione per i simboli esteriori del comando da caserma. Non è vero quello che ha raccontato Eugenio Scalfari a Otto e mezzo, e cioè che Renzi comanda da solo perché in tutte le democrazie avviene così.
Ovunque esistono gruppi dirigenti rispettati e non trattati come subalterni inoffensivi con cui il capo scherza nelle direzioni in diretta streaming. Ogni capo convive con oligarchie agguerrite, con gruppi parlamentari non arrendevoli. Persino Obama ne sa qualcosa. E il nuovo leader laburista Corbyn ha avuto l’investitura del partito ma i gruppi parlamentari, espressioni di un’altra cultura politica, non si piegano, e resistono anche platealmente alle sue direttive in politica estera. Non fanno come i deputati del Pd, designati per l’ottanta per cento come seguaci di Bersani, e poi tutti inginocchiati a riverire il nuovo padrone senza mai un cenno di disobbedienza.
Se ci fosse stato un partito, Renzi non lo avrebbe mai scalato, e se avesse, dopo la conquista, ricostruito un partito, proprio i suoi dirigenti lo avrebbero già disarcionato, per una manifesta inattitudine alla leadership autorevole. Altrove a togliere di mezzo un capo che ha perso le regionali, ha liquidato il nucleo organizzativo del partito, costretto alla diserzione la membership, manifestato una palese inadeguatezza al governo e naviga in chiaro affanno nei sondaggi, sarebbe il suo stesso partito. Ma la fortuna di Renzi è di non avere un partito. E può accontentarsi di un simulacro che gli dà i gradi di comandante di giornata.
Due anni terribili di deconsolidamento della democrazia costituzionale e del lavoro sono trascorsi e c’è poco da festeggiare con banchetti unitari in prossimità della catastrofe. Il solo auspicio è che l’odio e la delusione che covano nella sinistra ferita si trasformino in politica, e ci siano classi dirigenti pronte a raccogliere la difficile impresa, di ricominciare con un pensiero critico dopo il forte rumore dello schianto.

il manifesto 6.12.15
Renzi, sofferenza bancaria
Governo. Gli enti di credito come quello di papà Boschi salvati a spese dei risparmiato. L'esecutivo tenta di metterci una pezza, ma non sarà per tutti. Il presidente del Consiglio sente la protesta e prova a difendersi: «Abbiamo salvato quattro istituti che altrimenti avrebbero chiuso»
di Andrea Colombo


ROMA Stavolta Renzi tornerà parzialmente indietro. Il decreto salvabanche verrà modificato con un emendamento inserito nella legge di stabilità: per salvare i piccoli azionisti, che il governo aveva svaligiato defraudandoli dei loro risparmi, ma soprattutto per salvare il governo e il partito da un’ondata di piena che minaccia di travolgerli. Verrà istituito un «fondo di solidarietà», al quale concorreranno le stesse banche e il governo. In quale misura i salvati parteciperanno al fondo è ancora incerto. Potrebbe trattarsi della metà del totale, come chiedono le medesime banche, oppure dei due terzi,come preferirebbe il governo.
Neppure sulla cifra complessiva però c’è chiarezza. Renzi e Padoan lo vorrebbero di 100 milioni, ma in commissione Bilancio lo stesso Pd insiste per portarlo a 120. «Con la perdita di valore delle azioni — afferma il presidente della commissione Boccia — il governo non c’entra nulla, perché è un bubbone che ha ereditato. Per trovare una soluzione c’è bisogno del contributo di tutti e la cifra di 120 milioni individuata dal Pd è quella giusta». È un particolare di non poco conto, dal momento che i piccoli azionisti alla fine ci perderanno certamente: si tratta di capire quanto.
Non è detto che il rebus venga sciolto oggi: più probabilmente gli emendamenti chiave verranno congelati e la discussione rinviata a quando sarà stata trovata la quadra. La commissione bilancio di Montecitorio, riunita in sessione domenicale, discuterà con sul collo il fiato di degli stessi azionisti, che hanno convocato una manifestazione di fronte alla camera. Il partito che avvertirà più direttamente la tensione è proprio il Pd: perché è il partito-governo ma soprattutto perché i piccoli azionisti dei quattro istituti salvati (Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara, Cassa di risparmio della provincia di Chieti) rappresentano un campione esemplare dell’elettorato del Pd, quello delle regioni rosse: Toscana, Emilia, Umbria. In tutto, i defraudati sono 130mila, e il valore delle azioni vaporizzate nel giro di poche ore si aggira sui 780 milioni di euro.
Sulla manifestazione, organizzata dalle «Vittime del salvabanche», ha già messo il cappello l’M5S. Grillo ha invitato i suoi ad appoggiare la protesta convocata per le 15: «Il Pd ha salvato le banche, ora salviamo i risparmiatori». Retorica facile, ma in questo caso innegabilmente efficace. Salvini, che promette di manifestare anche lui giovedì prossimo ad Arezzo, va giù più duro: «Il governo ha salvato Banca Etruria (la signorina Boschi ne sa qualcosa?) fregando azionisti e obbligazionisti».
Tanto è vistoso l’arrembaggio dei pentastellati e dei leghisti, altrettanto è palese l’imbarazzo del governo. Centinaia di mail e messaggi inviati davvero a tutti, Matteo Renzi incluso, e un’ostilità che nelle città dissanguate si avverte per le strade, hanno chiarito che l’incidente è serio e grave. La Boschi, il cui padre è vicepresidente di Banca Etruria, ha preferito disertare i banchetti della sua Arezzo ripiegando su Ercolano. Persino Renzi ha perso un po’ dell’abituale tracotanza: «È una questione delicata. Il punto centrale è che senza il governo quattro banche avrebbero chiuso. Ora stiamo studiando qualche forma di sollievo a un particolare tipo di titolari di obbligazioni».
Sulla carta il premier non ha torto. Di fatto il governo — consigliato anche del geniaccio della finanza nonché amicone David Serra — e Bankitalia, nella fretta di salvare le banche, non hanno minimamente preso in considerazione la differenza tra i grandi azionisti e obbligazionisti e i piccoli risparmiatori. In teoria anche questi ultimi hanno «accettato il rischio» di condividere la sorte della banca. In realtà nella stragrande maggioranza dei casi, si sono limitati ad accogliere il consiglio che gli veniva fornito dai funzionari della banca stessa, investendo in quello che veniva indicato come un porto sicuro. L’emendamento con annesso fondo ci metterà una pezza. Non restituirà tutto. Non cancellerà la rabbia.

il manifesto 6.12.15
Banche, le perdite dei piccoli
di Vincenzo Comito


C’era voluta molta fantasia per riuscire a varare il salvataggio di quattro banche di periferia, operazione sulla quale i giornali hanno dato molte informazioni. Il fallimento era dovuto al convergere armonioso di un comune sentire tra manager corrotti, imprenditori arruffoni e corruttori, consigli di amministrazione, collegi sindacali, enti pubblici, partiti di governo e di opposizione, ignari e/o complici, nonché di una Banca d’Italia lenta nei suoi accertamenti e nelle sue decisioni. Diverse soluzioni per la chiusura della partita erano state scartate per il severo scrutinio delle autorità europee, attente custodi di una esclusione dei soldi pubblici da qualsiasi salvataggio. Si era infine deciso di chiudere in fretta l’operazione prima della scadenza fatidica del 1 gennaio 2016, quando le regole dei salvataggi cambieranno. Mentre sino a fine dicembre 2015 obbligazionisti ordinari e depositanti oltre i 100mila euro sono esentati dalla partecipazione alle perdite, che riguarda solo gli azionisti ordinari e di risparmio e gli obbligazionisti subordinati, con il nuovo anno invece tutte le categorie dovranno partecipare al sacrificio.
Il provvedimento varato dal governo presentava diversi problemi. Intanto per salvare i quattro istituti si è utilizzato interamente il fondo di risoluzione a tale fine istituito, non solo per quanto riguarda i contributi versati ma anche per quelli di competenza dei prossimi tre anni. Nessuno sa cosa succederà se qualche altra banca andrà in crisi. Poi c’è il problema degli azionisti di risparmio e degli obbligazionisti subordinati, che perdono tutto; sembra che soltanto in questa categoria siano comprese circa 130mila persone, per un capitale di quasi 800 milioni. Si tratta spesso, anche se non sempre, di piccoli risparmiatori, spesso ignari dei rischi a cui andavano incontro e di frequente sollecitati dai funzionari dei vari istituti a comprare della carta straccia. Non si sa se prendersela di più con questi impiegati, spesso anche loro poco edotti di quello che fanno, spronati dai capi e con la prospettiva di guadagnare qualche euro in più, o con dei risparmiatori avidi di rendimenti fuori misura e che non conoscono le basilari regole della finanza. Il governo, sentendo ora la minaccia di perdere voti, si mobilita. Sono in campo due diverse proposte per venire incontro alla rabbia dei risparmiatori. Da una parte si vorrebbe distribuire 120 milioni di euro solo a chi dimostrerà lo stato di bisogno — non si sa come-, dall’altra invece si fornirebbe ai contribuenti un credito d’imposta pari al 26% delle perdite subite. Nel frattempo, come al solito, anche la Consob fa forse finta di arrabbiarsi e di mobilitarsi. Nessuno ovviamente pensa a varare delle politiche di prevenzione. Con una migliore informazione finanziaria e una vigilanza più attenta degli organi preposti.

il manifesto 6.12.15
Primarie il 28 febbraio, ma è pasticcio alla milanese
Pisapia 'giocatore' e non più arbitro nella corsa dei gazebo fa innervosire il Pd
Ma a sinistra Sel ora rischia l'implosione
di Daniela Preziosi


Il pasticciaccio brutto stavolta — e per una volta — non si consuma nella romanissima via Merulana, ma nella milanesissima Piazza della Scala, a Palazzo Marino. Nella capitale lombarda la matassa delle primarie si ingarbuglia ad alta velocità. E se presto qualcuno non si fermerà a rimettere il bandolo al suo posto la premiata ditta Pisapia rischia di trasformarsi da luminoso modello di alleanza (in maggioranza ha anche il Prc) a modello di scissione a sinistra.
Ieri il giovane segretario del Pd Pietro Bussolati (colomba renziana) ha rivolto una preghiera ai vendoliani di rito milanese, fedeli di Pisapia: «Sel ha rotto le alleanze ovunque, noi abbiamo lavorato in questi mesi perché ci sia un’alleanza del centrosinistra qua, continueremo. Però è Sel che deve decidere facendo chiarezza». In realtà venerdì sera è stato il Pd milanese a far saltare l’incontro del tavolo che avrebbe dovuto dare l’ok all’inizio della raccolta delle firme per le candidature alle primarie, che doveva partire domani e concludersi dopo un mese. Formalmente la delegazione dem non si è presentata in polemica con il sindaco che, tornato dall’incontro con Renzi a Roma (poi ripartito per Parigi, da dove è rientrato ieri sera), avrebbe deciso da solo lo spostamento delle primarie dal 7 marzo al 28. Ieri Pisapia ha cercato di mettere pace nella sua nervosissima famiglia: «Come data delle primarie propongo il 28 febbraio perché i candidati abbiano il tempo di presentare il proprio progetto di città. Su questa tempistica non ho avuto valutazioni negative e confido che al più presto si riunisca il tavolo della coalizione per un accordo condiviso». In questo caso a raccolta delle firme inizierebbe domani e finirebbe il 20 gennaio.
Ma non è la data delle primarie a innervosire il Pd quanto il cambio di ruolo dello stesso Pisapia nella vicenda dei gazebo: da arbitro a giocatore. Perché di fronte ai tanti segnali di sostegno di Renzi a Sala, il sindaco ha risposto con intensità uguale e contraria lanciando e benedicendo la sua vice Francesca Balzani. Nulla di ufficiale, ancora. Del resto entrambe le candidature, Sala e Balzani, formalmente ancora non esistono.
In questi giorni a Milano i vendoliani sono sottoposti a richieste di giuramento sulla lealtà in caso di vittoria ai gazebo di Sala. La cosa non giova ai rapporti fra alleati. Del resto non è un segreto che un pezzo della sinistra non digerisce Mister Expo e non lo voterà. Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel, lo ha detto al Corriere della sera: «Se accettassimo il vincolo delle primarie e poi lui vincesse saremmo costretti ad appoggiarlo e questo non lo possiamo fare». In questo delicato shangai la Sel milanese tenta un equilibrio: «Sala è un corpo estraneo all’alleanza, non possiamo decidere al buio. Ma in caso di scelte dilemmatiche l’ultima parola spetterà agli organismi dirigenti della città», spiega la segretaria Anita Pirovano. La novità però è ch il sindaco Pisapia si va convincendo che Balzani, con il suo appoggio, può vincere su Sala. E che, come spiega chi ci ha parlato, l’elettore di centrosinistra non potendo votare «per Giuliano» sarebbe pronto a votare «con Giuliano».
Purché però si risolva un punto dirimente: che i nomi della sinistra non siano due. Come sono oggi: a fronte di una candidata in pectore, la vicesindaco, a sinistra c’è Pier Francesco Majorino, in corsa da giugno. Che peraltro non ha preso bene il lancio della nuova sfidante e a oggi non ha intenzione di ritirarsi. Ieri su facebook ’Pier’ ha chiesto «che la raccolta firme inizi presto» e che «non si giochi con l’alleanza di centrosinistra: se qualcuno vuole fare a Milano la coalizione che governa il Paese ce lo si dica (e a quel punto è davvero inutile farle, le primarie). Meglio il divorzio breve che l’agonia lunga». Ce l’ha con Renzi. Ma anche con Sel. Anzi con tutta ’Si’, Sinistra italiana. Venerdì infatti anche Stefano Fassina, candidato a Roma fuori dalle primarie, ha spiegato che Sala «non rappresenta la pluralità di interessi e culture politiche che Pisapia teneva assieme».
Oggi Pisapia sarà a Sky, ospite del programma di Maria Latella. Con ogni probabilità sarà un ’Pisapia’ ormai giocatore delle primarie. E in questo caso la sinistra, quella milanese e quella ’italiana’, dovrà farci i conti.