Repubblica 6.12.15La Piazza di Francesco
Tra due giorni il Papa aprirà l’Anno Santo Che non è il primo
E che di sicuro non sarà neppure l’ultimo
di Filippo Ceccarelli
ROMA. TRE FORZE, TRE VETTORI, TRE CAMPI MAGNETICI e tre destini convergono tra cielo e terra su piazza San Pietro. Sono il Giubileo, le minacce dell’Is e le magagne di Vatileaks bis. Il simultaneo addensamento di segni, per giunta in forma di congiunzione, impiccio e mischione, rende superflui ulteriori video-presagi abbastanza comuni in questi paraggi tipo fulmini sul Cupolone, anelli piscatori scivolati da dita apostoliche, gabbiani e cornacchie che uccidono colombe, vento che solleva tonache inquiete, fa volare bianche papaline e sfogliare evangeli. A passarci, la piazza appare tranquilla. Ogni tanto protestano gli “urtisti”, i venditori ebrei di sacri souvenir, ma è da un po’ che nessuno viene a darsi fuoco (l’ultimo un omosessuale sulla cui triste sorte fu girato un documentario). L’anno scorso, più o meno in questi giorni d’avvento, si manifestarono le Femen che nude e pinte puntarono al bambinello del presepe ingaggiando un tira e molla con un imbarazzato gendarme vaticano. Delegata per lo più a “Sorella Transenna”, la sicurezza appare discreta e per via del no fly zone è impensabile che lo spazio ai piedi della basilica funzioni da pista di atterraggio come per quel pacifista-futurista austriaco che nel 2003 scese dalle nuvole con il suo paramotopendio. Al netto di imprudenze e premonizioni, tocca accontentarsi del fanta-giubileo andreottiano, un raccontino che il Divo scrisse quindici anni orsono (poi ristampato per gli auguri natalizi) in cui prefigurava l’anno santo straordinario del 2025: apertura elettronica della Porta Santa, ripristino delle vesti cardinalizie raffaellesche, nascita di una squadra calcistica del Vaticano (maglia gialla e bianca), concerto di Pavarotti ormai novantenne, ricevimenti senza alcolici per capi di Stato islamici, lavori del Comune di Roma rinviati al 2050.
A tale proposito, le cronache cittadine proclamano le dieci piaghe dell’Urbe: Metro A, Metro B, Metro C, Ferrovia Roma-Lido, Immondizia, Topi, Traffico, Parcheggi, Atac e Cacca degli storni — a parte la leggendaria scortesia degli osti e quella, non meno ribalda, manifestata dai taxisti dinanzi alle banconote da cinquanta euro.
A piazza Sonnino, ingombra di guano, è apparso per tempo l’avviso “Menu del Giubileo”: lasagna o spaghetti, coscia di pollo, scamorza, bicchiere di vino o acqua, otto euri, “ de meno nun potemo” si legge di traverso a mo’ di ultimatum. L’altro giorno monsignor Fisichella ha presentato, sotto l’auspicio di un misterioso “Brand S33N”, la linea di “una collezione coordinata di prodotti ispirati all’Amore, alla Speranza e alla Preghiera destinata a un pubblico più esigente”. Si tratta di gadget, proseguiva la nota, “che sappiano essere in perfetta sintonia con l’appello di Papa Francesco alla morigeratezza”, evvài.
Nel frattempo il presidente Renzi ha trovato i soldi e battezzato il provvedimento: “Decreto Happy days”. Ma se si ritorna con il pensiero all’ultimo Anno Santo, quello del 2000, più che alla felicità dei cittadini o alle realizzazioni di una classe dirigente presto degenerata in “mafia capitale”, i ricordi si accavallano e si distorcono ridestando atmosfere irreali, oniriche, felliniane. Quindi l’inno di Morricone; la sfilata di moda di don Mazzi al ristorante “Gusto”; i capricci di Storace trovatosi in dotazione itinerante la statua dell’ermafrodita; una fantastica truffa, sempre a sfondo giubilare, sugli immobili Inail; le interminabili dispute intorno a un certo tunnel, da scavarsi nei pressi di anti- chissimo cimitero, che valse all’allora sindaco Rutelli il provvisorio nomignolo di “Sottopazzo”. Scontata l’elezione di “Miss Giubileo”, meno l’idea di una nuova piazza capace di contenere seicentomila persone. Con trepida sollecitudine il gruppo consiliare berlusconiano propose che a ogni sacerdote fossero riservati due posti-auto vicino a ogni chiesa. Venne anche chiuso d’autorità un pornoshop non lontano dalla Santa Sede. Ma Jessica Rizzo cantò l’Ave Maria.
Sono minuzie, d’accordo, al meglio irrilevanze, al peggio scemenze. Ciò nondimeno qui a Roma si diffida dei Grandi Eventi, come pure documenta un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli: “ Dopo er Giubbileo, pe’ li romani,/ pe’solito c’è sempre er zassatone”, il sassatone cioè, una violenta pietrata declinata al maschile per accentuare l’inesorabile disvalore dell’Anno Santo.
D’altra parte sono tempi in cui la santità si nasconde e allergica com’è ai riflettori va cercata semmai con il lumicino. Dalle parti di San Pietro sono tornati a passare la notte mendicanti, senzatetto, nomadi, derelitti. Sono ombre, corpi, sofferenze, bisogni, insomma i poveri. Su ispirazione dell’Elemosiniere del Papa, monsignor Konrad, dietro il maestoso Colonnato di Bernini funzionano da dieci mesi delle docce. Una volta alla settimana viene un barbiere. Anche in questo chi crede può riconoscere un segno dei tempi; chi non crede un gesto di pietà.
Con qualche frequenza la vetta della basilica è espugnata da qualche temeraria protesta. Già cinque volte un signore di Trieste, Luigi Di Finizio, ormai detto “il ragno del Cupolone”, si è calato giù con funi, striscioni, acqua e vettovaglie contro la normativa Bolkestein che penalizza la categoria dei balneari. Passa la notte arrampicato su una specie di guglia, di giorno negozia via telefonino e scatta foto bellissime. L’ultima volta i preti si sono scocciati e prima di rilasciarlo l’hanno sbattuto in carcere.
Il celebre obelisco della piazza è finito sulla copertina di Dabiq, rotocalco del terrore patinato, con in cima il nero drappello dell’Is. Ma vaglielo a spiegare agli jiahdisti che l’immane blocco di granito rosso fu trasportato lì da imperatori — chi dice Caligola, chi Nerone — non esattamente amici dei cristiani. E provati pure a spiegargli, specie dopo la sòla dei cavalli dei cosacchi bolscevichi abbeverati nelle fontane gemelle, il cinico esorcismo con cui i romani replicano alle nuove minacce con cachinni e sghignazzi: “ Attenti ar raccordo, che restate
imbottijati!”; oppure, sulle donne: “ Pijateve puro mi’ socera!”.
Alcuni feroci guerriglieri hanno proclamato sui social che presto non ci saranno più pontefici. Ma anche qui, sul Papa degli ultimi tempi, esiste la più vasta letteratura interna, per così dire, basti pensare alle terrificanti invettive di Fra Girolamo Savonarola, come pure agli approfondimenti a cura di Francesco Guicciardini — mica pizza & fichi.
Intorno a San Pietro pare sempre che tutto sia già accaduto: però anche di più, e di peggio. «Io ringrazio Dio che non ci sia Lucrezia Borgia» diceva l’altro giorno Papa Francesco a proposito degli impicci finanziari, di potere curiale e di sesso che riempiono le odierne cronache, dopo averle saturate nel 2013. Ecco, è uscito di recente un bel librone, Vite efferate di papi (Quodlibet, ben 500 pagine, 19 euro) nel quale con filologico entusiasmo il professor Dino Baldi dimostra che davvero nulla di nuovo avviene nei palazzi apostolici; per cui se di monsignor Balda, prima intrigante e poi canterino, ce n’è praticamente uno ogni pontificato, e se i banchieri imbroglioni neppure si contano, Francesca Immacolata Chaouqui è anche lei una figura ricorrente di manipolatrice pontificale, e non per caso il marito la chiamava “la Papessa”, proprio come fu chiamata a suo tempo donna Olimpia, pure detta “Pimpaccia” alla corte di Innocenzo X.
Quanto ai giornalisti che hanno scoperto gli altarini, si scopre che gli è andata bene. O almeno: nel 1587 tale Annibale Cappello, un gazzettiere che diffondeva avvisi manoscritti con notizie riservate finì impiccato, con la lingua e la mano destra esposte al fianco del corpo penzolante.
A quel tempo le esecuzioni avvenivano a Ponte Sant’Angelo, quello de La grande bellezza e che Bertolaso, come si è appreso con un certo sconcerto qualche settimana fa, era pronto a far saltare durante la piena del Tevere («Ma le statue le avremmo salvate», bontà sua!). Sisto V lasciava lì per giorni i cadaveri dei giustiziati impestando l’aria. Quando un cardinale lo supplicò di spostare le carcasse un po’ più in là: «Che odorato sensibile! — gli rispose fissandolo negli occhi — Voi sentite il puzzo delle teste dei morti; a me invece dà più noia il puzzo di certi vivi che mi trovo intorno».
Non era un tipo che perdonava facile. Si spera e si confida che Francesco lo sia. Magari alla fine assolve tutti, gli imputati, i giornalisti, i monsignori della post-simonia, i cardinali pedofili e ladroni, gli arrampicatori del cupolone e del terrazzo della Prefettura Vip, le gigantesche Femen, i romani che scherzano con i santi, forse pure l’Is. E sarà un bel giorno per guardare avanti, farsi un esamino di coscienza, e a quel punto riaprire il limpidissimo saggio di Arturo Carlo Jemolo Chiesa e Stato in Italia. Quelle ultime righe così personali e universali: “Sul fresco cielo di giugno, appena lavato dalla pioggia, ti ergi dinanzi ai miei occhi, cupola di San Pietro. Non c’è linea che più riesca attraverso i sensi a giungermi al cuore di quella che ti circoscrive e che pare realizzare l’antica aspirazione dell’uomo, il ponte gettato tra lui e il cielo. E sei a un tempo il gesto di offerta dell’uomo proteso verso Dio e il simbolo del riparo, dell’ovile che non ha limiti nella sua capacità di accogliere, che nessuno respingerà. E che tutti potrà riparare dalla collera di Dio e dalle tentazioni del maligno... Solo ancora vivente tra i grandi monumenti romani, solo ancora intatto”. (Amen).
La Stampa 6.12.15
Chaouqui sceglie la difesa vip e chiama in aula la Roma bene
“All’ultimo tolti Bisignani e Letta”. Mieli teste per Nuzzi
di lario Lombardo
La prossima settimana ci potrebbe essere una lunga passerella di vip nell’aula del tribunale della Santa Sede dove si sta celebrando il capitolo secondo di Vatileaks. Domani, giorno dell’interrogatorio di monsignor Lucio Vallejo Balda e di Francesca Chaouqui, verranno anche presentati i testimoni delle difese dei cinque coimputati. La pierre calabrese, che con il prelato spagnolo è accusata di aver fornito materiale segreto ai due giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, ne presenterà una decina, da quanto è dato sapere, tra loro c’erano fino a ieri anche il sottosegretario di Palazzo Chigi, Gianni Letta, uomo di fiducia di Silvio Berlusconi, e Luigi Bisignani, faccendiere, tirato in ballo più e più volte nelle trame vaticane e anello di congiunzione tra Chaouqui e la contessa-madrina Marisa Pinto Olori del Poggio. «Abbiamo poi preferito toglierli dalla lista», spiega lei. Balda di testimoni ne presenterà solo quattro. Nessuno invece Fittipaldi, mentre Nuzzi chiamerà quattro persone, tra i quali il giornalista di Report, Paolo Mondani, che aveva già confermato di aver incontrato Balda per la trasmissione di Raitre, e l’attuale presidente di Rcs Libri Paolo Mieli, contattato, come ci spiega lo stesso ex direttore del Corriere della Sera, a fine luglio in qualità di editore: «Nuzzi – racconta Mieli - aveva saputo della pubblicazione di un altro libro simile al suo e voleva chiedermi un consiglio su come fosse meglio organizzare la data di uscita. Mi disse di non conoscere personalmente Fittipaldi».
E’ questo il punto su cui insisterà la difesa per smontare l’ipotesi di un reato in concorso, commesso secondo una catena che partiva da Balda e attraverso la Chaouqui sarebbe arrivata ai due giornalisti. “Avarizia” di Fittipaldi e “Via Crucis” di Nuzzi usciranno quasi in contemporanea, agli inizi di novembre e all’indomani degli arresti del prelato e della pierre, entrambi ex membri della Commissione finanziaria voluta da papa Francesco, accusati di aver divulgato di nascosto notizie e documenti «concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede». Nonostante le tante, incredibili coincidenze, però, i legali dei giornalisti sosterranno la stessa tesi difensiva: i due giornalisti non si conoscevano, e avrebbero lavorato in maniera parallela su fonti autonome.
Domani, alla vigilia dell’inizio del Giubileo, gli imputati si ritroveranno di fronte ai loro accusatori. Per primo verrà sentito Balda. Poi Chaouqui. Successivamente giudici della Santa Sede, che avrebbero voluto chiudere in fretta un processo che rischiava di oscurare la data di inizio del grande evento religioso, ascolteranno l’ex collaboratore del monsignore, Nicola Maio, anche lui coimputato, e i due giornalisti. Potrebbero arrivare a sentenza già domenica prossima, e seguendo il filo dell’inchiesta, l’impressione anche dei diretti interessati è che l’assoluzione, in un processo che segue logiche lontane da quelle italiane, non sia così scontata. Sarà poi l’altra indagine, quella aperta dalla Procura di Roma, a ricostruire chi sia realmente la Chaouqui, quale sia stato il suo ruolo e quello del marito Corrado Lanino, al centro di una rete che, secondo i pm, hackerava e accumulava informazioni per ricattare e costruire carriere all’ombra di San Pietro.
La Stampa 6.12.15
Ora Renzi ha capito che non si vive solo di leadership romana
Grande partecipazione ai gazebo per rilanciare il Pd Attesa per la Leopolda: sarà di lotta o di governo?
di Federico Geremicca
Dopo mesi di polemiche interne, crisi di nervi e minacce di scissione, il Pd torna all’aperto per sgranchirsi le gambe in vista del 2016 e di sfide che si annunciano decisive: elezioni amministrative di primavera e referendum sulla riforma del Senato in testa a tutte. Duemilacentotredici tra gazebo e banchetti per tornare a guardare in faccia la propria gente: e non si ricorda mobilitazione recente (o anche meno recente...) con tali numeri e tale partecipazione.
I democratici, così, riscoprono l’amata e abbandonata piazza, ma lo fanno in uno scenario politico assai cambiato dall’avvio della segreteria-Renzi ad oggi: almeno due nuove formazioni alla sua sinistra (Possibile, di Pippo Civati, e Sinistra Italiana, di Fassina, D’Attorre e Cofferati), il rapporto col sindacato teso e logorato, un Movimento Cinque Stelle che cresce invece di deperire ed un centrodestra il cui cuore ha ripreso a pompare qualche idea e qualche consenso conseguente.
È la conferma che pensare di poter vivere sugli allori è rischiosissimo, in politica come - per esempio - nello sport: e Renzi, cultore della prima quanto della seconda attività, se lo è ricordato e ha suonato la carica: «Oggi accade qualcosa di meraviglioso», ha detto infatti ieri davanti al banchetto nella sua Rignano sull’Arno. Secondo alcuni, naturalmente, questo «qualcosa di meraviglioso» sarebbe stato meglio farlo accadere prima, ma tant’è. L’importante è aver riacceso i motori. Guadagnando perfino la benedizione di Pier Luigi Bersani: «È una iniziativa saggia e giusta...».
D’altra parte, i dolorosi casi di Marino e De Luca (più o meno malamente chiusi) e quelli appena aperti di Napoli e di Milano, confermano a sufficienza quanto una forte leadership romana non basti a garantire successi e ordine anche in periferia: un segretario - per di più anche premier - da solo rischia l’insuccesso e il naufragio. Per di più, proprio partendo da questa constatazione, nel Pd si era cominciato a canticchiare da settimane un flebile ritornello contrario al «doppio incarico» del segretario-presidente. Sono campagne insidiose, si sa: cominciano sottotraccia, ma possono finire in qualunque modo... Giusto, dunque, dare risposte e farlo per tempo. Ed è possibile, insomma, che «Italia, coraggio», i gazebo e i banchetti nascano anche così: da una sorta di stato di necessità, più che da una vera e sedimentata convinzione...
Non ci vorrà a molto a capire se tra Matteo Renzi e il suo Pd - un Pd che nei piani alti non lo ha mai amato - è scoppiato qualcosa di simile all’amore. Tra sette giorni, infatti, il segretario svestirà i panni del segretario per rivestire quelli dell’«innovatore», benedicendo un’altra Leopolda, vero e proprio «tempio dell’eresia» e rampa di lancio della rottamazione e del rottamatore. Alla Leopolda il Pd è stato solitamente inteso come ospite: nemmeno sempre e nemmeno poi così gradito. Vedremo come andrà stavolta: ma secondo i più, sarebbe inutile farsi illusioni...
E in effetti, la dicotomia governo-innovazione, status quo-rottamazione, non è facilmente risolvibile: almeno non nei tempi e nei modi di cui avrebbe bisogno oggi il Pd. Dopo due anni di governo, infatti, non sarebbe semplice salire sul palchetto della vecchia stazione per ripetere che tutto va male e tutto è da cambiare; così come sarebbe assai pericoloso, al contrario, parlare in quella «fossa di giovani leoni» per annunciare che sì, la missione è compiuta, l’Italia ha cambiato verso, la volta buona non è stata lasciata fuggire. Al di là delle coreografie, pur simbolicamente assai importanti (ci saranno simboli Pd? verrà finalmente qualcuno della «vecchia guardia»?) sarà dunque interessante ascoltare come Matteo Renzi tenterà di tenere assieme il suo ieri, il suo oggi e il suo domani. Di fronte a renziani della primissima ora, infatti, trucchi ed equilibrismi non saranno poi così possibili. Alcuni attendono il solito Renzi di lotta, altri un più inedito Renzi di governo. Quel che nessuno gradirebbe - e capirebbe - è l’uomo solo al comando che chiede al suo popolo di non disturbare il manovratore. E non lo si capirebbe perché è proprio quel che i Grandi Capi, i Leader di Roma dicevano a lui mentre annunciava una nuova e non gradita Leopolda...
Corriere 6.12.15
La piazza del Pd (per contrastare M5S)
E a Milano Pisapia media sulle primarie
Il sindaco: ai gazebo il 28 febbraio. Il sondaggio dei dem lombardi che dà Sala in testa
di Monica Guerzoni
ROMA Il Pd torna nelle strade, riscopre i volantini, i volontari e la mobilitazione. E, dai duemila banchetti spuntati come funghi su e giù per l’Italia, prova a fermare l’ascesa dei 5 Stelle. Il voto nelle città si avvicina e i dirigenti democratici prendono a bersaglio i sindaci pentastellati, accusandoli di inadeguatezza, demagogia, incapacità.
«Livorno non si merita un tale malgoverno» attacca Andrea Romano dalla città toscana, guidata da Filippo Nogarin e invasa nei giorni scorsi dai rifiuti. E intanto l’Unità fa a pezzi la politica del M5S. A Civitavecchia è «bomba rifiuti», a Pomezia «interviene l’Anticorruzione» e via così, in un crescendo di titoli a effetto. Una precisa strategia, che rivela come il Pd non voglia ripetere l’errore di sottovalutazione commesso nel 2013 da Bersani. Renzi ha capito che il rischio del sorpasso è concreto, soprattutto a Roma, e ha deciso di fare i conti per tempo con l’avversario più insidioso. Anche per questo il Nazareno ha ideato la due giorni dell’orgoglio democratico, 2.113 banchetti e 30 mila volontari, ieri e oggi.
La Serracchiani — che ha rilanciato lo stop alle primarie per chi, come Bassolino, ha già fatto due mandati da sindaco — era a Pordenone e Rosato a Muggia (Trieste). Gentiloni, Poletti, Orfini e Zanda hanno scelto Roma. A Milano, dove si sono fatti vedere Guerini e Martina e dove il Pd continua a litigare con Sel per le primarie — Pisapia media indicando come data per i gazebo il 28 febbraio — ha acceso speranze un sondaggio che gira ai piani alti del partito e vede i dem in vantaggio su centrodestra e M5S. Quanto a notorietà Sala è avanti (53%) tra i possibili candidati del centrosinistra. Segue Majorino con il 43%, mentre resta indietro con il 17% la Balzani. Nella classifica del gradimento Sala è in testa con il 30%, seguito da Majorino, Sallusti, Passera, Balzani (8%) e Bedori. Sala raccoglierebbe anche un quarto di elettori del M5S, vincerebbe al primo turno e, al ballottaggio, la spunterebbe sia su Sallusti per il centrodestra che sulla Bedori dei 5 Stelle.
Ma poiché tra i sondaggi e i risultati del voto c’è di mezzo il mare, Renzi ha chiesto ai suoi parlamentari di darsi da fare ai banchetti. La minoranza non si è sottratta. Speranza ha parlato a Potenza e Bersani, da Fiorenzuola d’Adda, ha auspicato che l’unità ritrovata non duri un paio di giorni soltanto: «Il Pd deve mostrare di essere un collettivo, dalle Alpi alla Sicilia». Cuperlo, dallo storico indirizzo della sinistra di via dei Giubbonari, a Roma, festeggia la «vitalità» di un partito che «esce dalle sedi, dai circoli, dalle sezioni, si confronta con i cittadini e ascolta le critiche». È il tentativo di contrastare i 5 Stelle sul loro terreno, quello del contatto diretto con i cittadini. Se il M5S è «il contenitore ideale di ogni sfogo, delusione o incazzatura», come ha scritto Claudio Velardi sull’ Unità , il Pd deve intercettare lo scontento prima che si trasformi in un voto per Grillo.
Da Rignano sull’Arno, Renzi ha declinato l’hashtag #Italiacoraggio! contro il terrorismo e a favore delle riforme: «Qualcuno vorrebbe chiuderci in casa, ma il Pd non ha paura». Lo stesso leitmotiv ha intonato la Boschi, la cui presenza a Ercolano ha creato la ressa e il ferimento di un anziano. «C’è bisogno di coraggio, in un momento difficile — ha detto —. Dobbiamo stare uniti, nelle piazze, e rilanciare il Paese». Per Forza Italia è solo una trovata per esorcizzare l’amara realtà, svelata dai dati Istat. Ma la numero due del governo tranquillizza: «Siamo tornati ad avere il segno più davanti al Pil».
Corriere 6.12.15
Nuovo modello
Il calo degli iscritti e il potere di Renzi nel Pd
La diminuzione dei tesserati non rappresenta una particolare fonte di preoccupazione per il segretario, essendo addirittura una condizione necessaria al consolidamento della sua leadership
I problemi sono a livello locale, dove spesso a contare sono dirigenti di dubbia fedeltà
di Giovanni Belardelli
Nei giorni scorsi il Pd ha ripreso a discutere sul calo degli iscritti. Calo preoccupante e drammatico, secondo l’opposizione interna al partito, di dimensioni limitate secondo i renziani. In ogni caso, che la diminuzione vi sia stata è indubbio: quasi 800 mila iscritti con Veltroni segretario, un po’ meno di 500 mila con Bersani, solo 350 mila nel 2014. Sennonché, nella discussione interna al Pd ma anche negli articoli che la stampa ha dedicato alla questione, mi pare non si sia messa ancora a fuoco la questione essenziale, sintetizzabile in una domanda. Siamo davvero sicuri che per Renzi il calo degli iscritti costituisca un problema?
A Renzi infatti, che ha conquistato la segreteria del Pd grazie a primarie rivolte ai potenziali elettori, tutto ciò che rimanda al vecchio partito bersaniano di derivazione comunista, che misurava la sua forza sul numero degli iscritti e delle sezioni, risulta estraneo. A caratterizzare il suo modo di governare, più che l’obiettivo sempre rimasto nel vago di un «partito della nazione» (che ancora presupporrebbe un’idea di partito strutturato in modo tradizionale, di tipo novecentesco per intenderci), è l’idea di una politica postpartitica fondata sul rapporto diretto tra il leader e i cittadini. In questo quadro, ogni struttura intermedia che si interpone nel rapporto — la Cgil, certo, ma anche il Pd inte so come «la ditta» bersaniana — risulta soprattutto di ostacolo. Anche per Renzi, naturalmente, un partito serve; ma non è quello d’antan, che organizzava i dibattiti in sezione e orientava gli iscritti attraverso i meccanismi del centralismo democratico, bensì è il partito che, sul modello del Partito democratico americano, si mobilita in occasione delle elezioni per assicurare il successo del leader. È il rapporto con gli elettori, non con gli iscritti, che interessa Renzi. Non da ultimo perché è grazie agli elettori che ha ottenuto un notevole successo nel meccanismo di finanziamento attraverso il 2 per mille, con 550 mila persone che hanno dato la loro indicazione in favore del Pd.
Lo scarso interesse per il partito-di-iscritti è del resto rafforzato dalle tendenze cesaristiche che alcuni politici e intellettuali di sinistra (ad esempio Biagio De Giovanni in un’intervista al Corriere del 24 novembre) attribuiscono al presidente del Consiglio. Si dovrebbe semmai parlare, nel caso di Renzi, di un «cesarismo democratico», poiché le implicazioni autoritarie del cesarismo (da Giulio Cesare ai due Bonaparte) in questo caso sono evidentemente tenute a bada dal rispetto delle procedure democratiche. Ma certo l’osservazione coglie un elemento reale: lo stesso uso che il premier intende fare del referendum sulla riforma costituzionale (referendum previsto dalla Carta come strumento nelle mani di chi si oppone alla riforma, non per confermare e accrescere il consenso nei confronti di chi l’ha realizzata, come lo concepisce invece il presidente del Consiglio) sembra giustificare appunto i timori di una deriva cesaristica o plebiscitaria.
Del resto, un elemento populistico-plebiscitario è intrinseco alle democrazie contemporanee, anche se in Italia la presenza di partiti strutturati ha reso difficile riconoscerlo. Quanto meno, fino alla comparsa di Berlusconi che, se rappresentava un’anomalia per tutto ciò che concerneva il conflitto di interessi, si collocava invece sulla scia di quella personalizzazione della politica, di quel rapporto diretto con gli elettori fondato sui media e in particolare sulla televisione, che rappresenta una caratteristica normale delle democrazie contemporanee.
Alla luce di tutto ciò, mi pare evidente che il calo di iscritti non costituisca particolare fonte di preoccupazione per Renzi, essendo addirittura — si potrebbe argomentare — una condizione necessaria al consolidamento del suo potere. È un potere, come si sa, che diventa incerto a livello locale, dove spesso a contare sono dei leader di dubbia fedeltà al segretario del partito. Ma questo è un problema che non credo Renzi possa pensare di affrontare riportando il Pd al modello bersaniano della «ditta» .
La Stampa 6.12.15
Ma nelle regioni rosse monta la rabbia per il salva-banche
Il premier: cercheremo di tutelare anche i risparmiatori
Gli istituti coinvolti PopEtruria, Banca delle Marche, CariFerrara e CariChieti: a pagare il conto sono azionisti e obbligazionisti subordinati
Gianluca Paolucci
Montepulciano, provincia di Siena, lunedì 23 novembre scorso. In via di Voltaia, pieno centro storico, di prima mattina c’è già un piccolo capannello di persone di fronte alla filiale della Popolare dell’Etruria. Hanno in mano i fogli degli estratti conto e in faccia i segni di chi ha dormito poco e male. La sera prima un decreto del governo ha salvato PopEtruria insieme con Banca Marche, CariFerrara e CariChieti. A pagare il conto sono azionisti e obbligazionisti subordinati. Sommando l’azzeramento dei risparmi arrivato per decreto alla circostanza che da queste parti l’altra banca si chiama Monte dei Paschi di Siena, si ottiene una miscela esplosiva non solo finanziaria ma anche politica.
«Mi chiede delle conseguenze negative per il Pd del decreto salvabanche? Certo che ci sono. Le vedo e le sento quando vado al bar o a mettere la benzina. La gente mi ferma e mi chiede cosa accadrà e perché non si può fare qualcosa. Bisogna recepire questa istanza». A parlare è Rolando Nannicini, ex sindaco di Montevarchi, già parlamentare Pd di provenienza Pci nonché padre di Tommaso, economista molto vicino a Matteo Renzi. La Popolare dell’Etruria non è mai stata «vicina» al partito, tiene a precisare Nannicini. Altra storia, altri gruppi di potere. Il padre della Boschi, Pier Luigi, vicepresidente di PopEtruria prima del commissariamento, arriva da Coldiretti, che col «partito» ha poco a che spartire.
Sta di fatto che da lunedì 23 novembre circa 130 mila persone si sentono «derubate» dal decreto del governo. Solo in Toscana sono 36 mila.
Il problema principale sono quelli, forse 10 mila, che avevano sottoscritto i titoli subordinati dei quattro istituti per un controvalore di circa 788 milioni di euro. Poca cosa rispetto ai 14 miliardi di Parmalat, ma vallo a spiegare alla nonna di V. B., che aveva investito lì i soldi per il funerale («Mi raccomando non metta il nome, se lo sa mia nonna mi muore di crepacuore»).
La loro rabbia si sfoga sui social network. E per strada, al bar, nei piccoli paesi dove ciascuna delle quattro banche era «la» banca. Oggi si conteranno di fronte alla Camera, mentre inizia l’iter della manovra.
I segretari del Pd di Toscana, Emilia, Marche e Abruzzo si sono affrettati a fare una nota congiunta per dire, mentre era già partito l’attacco al Pd da parte delle altre forze politiche, che «la verità è che il governo ha fatto tutto quello che le norme italiane ed europee consentivano di fare. Non è al governo che si può imputare il fatto che tanti risparmiatori hanno acquistato titoli oggettivamente rischiosi, in buona fede, convinti che rischiosi non fossero». Per questo lo stesso Matteo Renzi, ieri a Rignano sull’Arno, ha tenuto a ribadire che «queste persone, alle quali va tutta la nostra vicinanza, non sono correntisti come tutti gli altri: hanno acquistato obbligazioni particolari e noi cercheremo una soluzione». La strada però è stretta: le regole europee vietano risarcimenti. «Ricordiamoci che l’alternativa era la chiusura», dice Renzi. Intanto il fondo di solidarietà per risarcire almeno in parte i risparmiatori più in difficoltà sembra ancora nella fase delle ipotesi: i 120 milioni di euro di dotazione circolati venerdì sono già stati ridotti a 100 milioni.
La Stampa 6.12.15
Pensioni, arriva la beffa
Assegni più bassi nel 70% dei casi
di Carlo Gravina
Ai pensionati non basterà una “semplice” calcolatrice per sapere esattamente a quanto ammonta l’assegno previdenziale di gennaio. Ma c’è di più, per l’effetto combinato del decreto del ministero dell’Economia - che ha stabilito il tasso provvisorio di rivalutazione per il 2016 e rivisto al ribasso quello del 2015 - e i provvedimenti presi dal governo dopo la sentenza della Consulta che ha bocciato il blocco Fornero, scoprire quanto si prenderà di pensione l’anno prossimo sarà un vero e proprio rebus. E non mancheranno le sorprese, visto che oltre il 70% degli assegni erogati sarà più basso di quello del 2015.
Per capire cosa è successo bisogna fare un passo indietro e tornare al 19 novembre, giorno in cui il Mef (Ministero dell’Economia e delle Finanze) ha stabilito che per il 2016, a causa della bassa inflazione, il tasso provvisorio di adeguamento al costo della vita sarà zero. Almeno per il momento, le pensioni l’anno prossimo non si rivaluteranno. Sempre nello stesso provvedimento è stato stabilito che il tasso definitivo di adeguamento per il 2015 è dello 0,2% rispetto allo 0,3% stabilito provvisoriamente più di un anno fa. Questo significa che a gennaio i pensionati dovranno restituire la differenza all’Inps percependo quindi una pensione più bassa. Gli effetti di questa decisione peseranno soprattutto sugli assegni più bassi, quelli inferiori a tre volte il minimo (l’Istat calcola che sono circa il 70-72% le pensioni che non superano i 1300 euro netti al mese, circa 18 milioni di assegni) perché queste pensioni non sono state toccate dalla sentenza della Corte costituzionale che ha bloccato, per gli assegni tra 3 e 6 volte il minimo, lo stop all’adeguamento previsto dalla norma precedente. Gli assegni più bassi, quindi, a gennaio dovranno restituire mediamente una decina di euro. Stesso discorso per chi ha un assegno superiore a 3200 euro al mese: rimborso a gennaio e pensione complessivamente più bassa per il 2016. Ovviamente il mini rimborso di gennaio varrà anche per gli assegni tra 3 e 6 volte il minimo. Chi quindi percepisce un assegno medio lordo tra i 1500 e 3000 euro dovrà restituire qualcosa a gennaio, ma in virtù della sentenza della Consulta che ha obbligato il governo ad adeguamenti più alti, riuscirà a incassare una pensione più alta, anche attorno ai 100 euro.
La Stampa 6.12.15
Italia evasiva in un mondo di protagonisti
di Roberto Toscano
Il mondo si trova oggi di fronte al caos medio-orientale - un caos multi-dimensionale che vede contemporaneamente un processo di disfacimento degli Stati della regione, le atrocità dello Stato islamico, un groviglio di finte alleanze e finte inimicizie, la produzione di flussi di rifugiati nonché il contagio trans-nazionale, da Parigi alla California, del terrorismo jihadista.
Ambiziosi personaggi come Putin e Erdogan ne ricavano un’occasione non solo di perseguire i propri obiettivi strategici, ma anche di consolidare all’interno la propria popolarità sventolando la bandiera del nazionalismo e accreditarsi sulla scena internazionale come leader imprescindibili. Sperano nello stesso tempo di far dimenticare di essere entrambi - in questo, avversari estremamente simili - imbarcati in un disegno politico di democrazia formale e autoritarismo reale.
Ma anche chi non aspira al protagonismo e chi non è certo sospettabile di istinti militaristi arriva oggi a ritenere che bisogna fare qualcosa, che non ci si può chiamare fuori da questa sfida ormai veramente globale.
Non si tratta solo della Francia, il cui impegno militare si spiega facilmente come reazione agli attentati di Parigi, ma della Germania, coinvolta soprattutto come destinazione privilegiata dei profughi siriani. Il Parlamento tedesco, quello di un Paese profondamente segnato da una storia che lo ha vaccinato contro le tendenze militariste, approva a grande maggioranza un impegno militare contro lo Stato islamico.
Anche nel Regno Unito il Parlamento autorizza un’azione militare, con il sostegno di una parte dei parlamentari del Labour, un partito tradizionalmente non interventista. Vale la pena di leggere il discorso di Hilary Benn, ministro-ombra della difesa laburista, per capire che la natura e la gravità della sfida hanno superato molte resistenze, modificato molte posizioni di principio. Si potrebbe pensare che il parallelo con la sfida del nazifascismo tracciato nel discorso di Benn sia una forzatura. Lo è solo per le dimensioni quantitative della sfida (al Baghadi non è Hitler, e lo Stato islamico non è la Germania nazista) ma non dalla sua natura politica.
Come definire in altri modi un totalitarismo ideologico che predica e pratica una politica genocida nei confronti delle minoranze religiose (sciiti, cristiani, yazidi), che applica una violenza senza limiti contro donne letteralmente vendute come schiave e omossessuali, distrugge il patrimonio archeologico e soprattutto ambisce a smantellare gli Stati esistenti per realizzare l’utopia reazionaria di un Califfato?
Non vi è dubbio che il rischio di una semplificazione militarista del problema medio-orientale esista, e che possa rinascere sotto altre forme il disgraziato e fallito disegno bushiano della «Guerra globale contro il terrorismo». E’ corretto dire che la forza militare non basta. Non esiste infatti (vedi le catastrofi irachena e libica) una prospettiva seria di successo senza un disegno politico proiettato verso il futuro, senza la capacità di affrontare il groviglio di ingiustizie, frustrazioni e oppressioni che stanno alla radice del radicalismo islamico. Ma «non basta» non vuole dire «non serve»: senza il contrasto militare da parte dei peshmerga curdi e di un esercito iracheno «vertebrato» dai Pasdaran iraniani lo Stato islamico si sarebbe già installato a Baghdad.
La soluzione di questo groviglio di sfide non arriverà dai soli bombardamenti, ma bombardare i convogli che portano in Turchia il petrolio dello Stato islamico, fonte essenziale di finanziamento, è essenziale, ed è anche essenziale aiutare militarmente i curdi.
Servirà però, nello stesso tempo, una diplomazia molto più robusta per fermare i finanziamenti che provengono al jihadismo da Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo. Servirà portare avanti il processo di Vienna mirato a mettere fine al conflitto siriano, senza il quale Al Qaeda non sarebbe mai diventato Isis e non si sarebbe mai impiantato su base territoriale.
Discutere su come esercitare la forza militare per invertire l’espansione territoriale dello Stato islamico, disegnare una strategia diplomatica sia su base multilaterale sia bilaterale, impegnarci per alleviare sul piano umanitario le sofferenze di popolazioni da troppo tempo lacerate dalla guerra e dal terrorismo. Si chiama politica estera, e non si tratta certo di un «optional».
E allora come mai il Parlamento italiano, a differenza da quello tedesco o britannico o francese, non sembra sensibile a questa esigenza?
Sul fronte ci siamo anche noi - con i nostri ricognitori, i nostri addestratori - ma preferiamo farlo «off the record». Come se fosse possibile defilarci da una serie di dilemmi rispetto ai quali non si possono evitare scelte difficili ma non eludibili. Scelte politiche, non di tattica e strategia militari.
Quello che più colpisce è che questa evasività, sempre più ingiustificabile, non sia solo del governo, ma di tutti i partiti. Dovremmo, al contrario, essere capaci di decidere, sulla base di un’aperta discussione politica nel Paese e nel Parlamento, quale sia la giusta miscela di strumento militare, diplomazia, azione umanitaria - e soprattutto quale sia il contributo che siamo disposti a dare. Si chiama democrazia.
La Stampa 6.12.15
“Bombardare l’Isis non serve. L’Italia fa bene a non partecipare”
L’ex ministro degli Esteri Bonino: i raid rischiano di essere controproducenti
intervista di Antonella Rampino
Emma Bonino, in questa terza guerra mondiale a pezzi perché l’Occidente va in ordine sparso, incapace di una comune e dunque efficace strategia?
«Non solo l’Occidente, tutti sono in ordine sparso, per divergenti analisi ed interessi contrapposti. Questa è anzitutto una guerra intrasunnita. Isis, come già Al Qaeda, nasce dall’ideologia wahabita. L’Occidente ha alleanze storiche con quell’area del Golfo, ma pare che neppure i tremila morti delle Twin Towers abbiano insegnato qualcosa... La Turchia fa la sua partita, la Russia gioca spregiudicatamente per tornare sulla scena internazionale, e solo ora sembra preoccuparsi dei foreign fighters che la Turchia ha lasciato passare in Siria e che possono tornare nei Paesi di influenza russa. I comuni denominatori sono pochi...».
La Gran Bretagna bombarderà Isis, come già fa la Francia, la Germania ha intensificato l’impegno pur senza arrivare al livello combat...Basta bombardare lo Stato islamico per sconfiggerlo? E, in questo quadro europeo, la posizione italiana non rischia di essere inadeguata?
«Mi pare siano tutti inadeguati, sia quelli che bombardano spinti da emozioni e reazioni reali con un occhio alle scadenze elettorali come la Francia, o al referendum su Brexit, per mostrare agli europei che si è indispensabili come nel caso della Gran Bretagna. Si bombarda, ma pubblicamente poi si dice che bombardare non basta, mentre è sempre più chiaro che non vi sono più molti obiettivi da colpire dall’alto, senza una guida che venga dai famosi «boots on the ground», le truppe di terra. Prova ne sia l’appello che in questo senso ieri ha fatto ai Paesi arabi John Kerry. E mentre noi bombardiamo, tutta la stampa araba ripete ogni giorno più volte al giorno, sul Al Jazeera, Al Arabya e via cantando, che si tratta di attacchi «occidentali» al mondo arabo. Di questo devono essersi resi conto gli inglesi, che oltre ad aumentare la spesa per la difesa hanno anche dato più fondi alla Bbc in lingua araba. La battaglia che dobbiamo condurre è anzitutto culturale, si dice. Appunto. Dobbiamo pensare a medio-lungo termine, e cominciare a mettere il dito nelle contraddizioni».
Sia più precisa.
«Anzitutto dobbiamo renderci conto che non ci sono soluzioni miracolose, ma solo parziali e complesse. La prima cosa è chiamare alle proprie responsabilità i sunniti, le monarchie del Golfo e la Fratellanza Musulmana che si stanno combattendo. Poi dobbiamo cominciare ad occuparci di rafforzare la nostra sicurezza. Pochi giorni fa il coordinatore Ue dell’antiterrorismo, Gilles de Kerchove, ha implorato per un’unificazione delle intelligence. Inutilmente. Non vogliamo un’intelligence comune, non vogliamo una politica estera e una politica di difesa comune. Siamo solo disposti a mandare dei Tornado... E intanto continuiamo a passare da un’emergenza all’altra, mettiamo un cerotto e ci dimentichiamo dei migranti, come fossero scomparsi, senza alcuna visione non dico di lungo ma nemmeno di medio termine. Politiche fragili. Adesso per esempio siamo concentrati sulla Siria, dimenticandoci dello Yemen e della Libia, e non rafforzando come dovremmo Tunisia, Marocco e Giordania, paesi a rischio baratro. Dovremmo fare quello che può e deve fare l’Europa, a prescindere da Stati Uniti, Russia o chiunque altro».
E l’Italia, che non bombarda?
«L’Italia fa bene a non precipitarsi in automatismi militari che rischiano di essere controproducenti e che nessuno dichiara efficaci, dato anche che è presente in altri scenari, dall’Afghanistan al Libano. Ma questo non la esime dall’impegnarsi per pretendere un’intelligence europea, per ottenere di più sulla politica dell’immigrazione, invece di limitarsi a partecipare ai dibattiti su Schengen sì o no, e sulle frontiere esterne della Ue. Ci accorgiamo che tutto questo ha anche l’effetto di alimentare i nazionalismi? Ci accorgiamo che sta montando l’impulso a tornare alle frontiere nazionali? Faccio notare che i confini esterni dell’area Schengen sono pari a 9 mila chilometri, quelli della sola frontiera franco-tedesca ne valgono tremila. Tornando all’Italia, per quanto riguarda la Libia, dove inviterei a non sottovalutare il livello di penetrazione dell’Isis, davvero dobbiamo precipitarci a sostenere l’accordo Leon ora passato nelle mani di Kobler? Non dovremmo invece dire che la base di quell’accordo è troppo limitata perché possa tenere, quand’anche venisse varato?»
Corriere 6.12.15
Né crociate né buonismi sulla strada difficile di una vera integrazione
di Antonio Macaluso
Il 13 novembre ha segnato per sempre la nostra vita di cittadini dell’Occidente e siamo stati preda del terrore
Così come la storia recente ha dimostrato che le democrazie non si possono esportare, anche i modelli di vita non sono sovrapponibili
Paura, guerra, integrazione. Sono le parole del momento e si intersecano, l’una con l’altra, in un gioco flessibile di significati e sentimenti. Non esiste una combinazione ottimale, predefinita, universale ma il legame varia a secon da delle sensibilità personali, delle convenienze di singoli, gruppi, movimenti, organizzazioni e delle «ragion di Stato» dei governi. La paura può evocare la guerra o spingere verso una integrazione che abbia funzione di disinnesco delle ostilità, oppure è la guerra che porta paura e restringe gli spazi di integrazione. O è l’integrazione che fa paura e la guerra è uno spauracchio velato o esibito. Ma poi: paura di chi e di cosa? E guerra di chi contro chi? E integrazione dove e tra chi?
Il 13 novembre ha segnato per sempre la nostra vita di cittadini dell’Occidente. Ancor prima di immaginare una qualsiasi reazione, che fosse la guerra o una spinta verso una maggiore integrazione con gli islamici che vivono nei nostri Paesi, siamo stati facile preda della paura. Paura di quello che stava accadendo in diretta, di come sarebbe cambiata la nostra vita da quella sera, paura della vita e della morte. Uno choc, una ferita da cicatrizzare con una risposta armata, una vera e propria guerra, o puntando – con tempi assai più lunghi — ad una pacificatrice integrazione. Una parola che può voler dire molte cose belle e buone ma può anche contenere il germe della sconfitta dei propri valori. I casi di crocifissi rimossi e feste religiose vissute con la sordina, di accondiscendenze pelose, di silenzi che sono il prezzo pagato in anticipo a possibili accuse di razzismo, sono in fondo almeno una parte di quella integrazione di cui tanto di parla. «Meglio essere vigliacchi per un minuto che morti per il resto della vita», recita una battuta di Woody Allen che nasconde dietro l’ironia uno stile diffuso di comportamento. Quello che tanto odiava Oriana Fallaci quando, definendoci scemi, ci invitava — noi occidentali — a non arretrare, a non permettere di distruggere «il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente, cioè meno bigotto o addirittura non bigotto». Insomma, a difendere «la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri». Un’invettiva che può essere letta come un macigno sulla strada dell’integrazione, ma anche come l’indicazione di una direzione di marcia non arrendevole e rinunciataria.
E’ evidente perfino ai più scalmanati urlatori nostrani di questi giorni che la storia si è incaricata da tempo di archiviare per sempre l’era delle crociate religiose. Ma lo è altrettanto che integrazione non può essere sinonimo di resa. Le trattative si fanno in due e, pur volendo marginalizzare le ali estreme, gli accordi non possono non basarsi sul principio della reciprocità di intenti. Quando tutte le sere, in qualunque talkshow, ascoltiamo musulmani che si lamentano per la difficoltà di avere luoghi di culto più adatti, grandi e confortevoli, dobbiamo ricordarci di quanto sia difficile essere cristiani nei Paesi a maggioranza islamica. Nel suo ultimo libro, Defying Isis , il giornalista americano Johnny Moore calcola che ogni anno centomila cristiani vengono assassinati a causa della loro fede: 273 al giorno, 11 l’ora. Anche ammesso che il numero sia sovrastimato, è incontrovertibile che la religione cristiana sia la più oppressa nel mondo. Così come lo è che non esiste scuola di un paese islamico che abbia rinunciato a qualunque simbolo religioso per rispetto di qualche alunno cristiano. Per non parlare delle norme quotidiane di comportamento, che all’integrazione con il «nostro» mondo non lasciano nulla.
Così come le democrazie non si possono esportare – la storia recente delle primavere arabe militarmente sostenute dall’Occidente ce l’ha insegnato (a nostre spese) - anche i modelli di vita non sono fungibili, sovrapponibili. E ci sono comunque pilastri fondamentali — diritti, libertà, semplici consuetudini — oltre i quali si decide, prede della paura, di svendere a pezzi quello che i tagliagole dell’Isis vorrebbero prendersi in un colpo solo a suon di bombe. Non sarà certamente con le armi, ma neanche con un buonismo tremebondo e a senso unico che si riuscirà, nel tempo, a costruire una convivenza integrata. E non sarà un Natale da celebrare a basso volume a farci passare la paura di andare al cinema, allo stadio, in discoteca, al ristorante, in metro, in bus, in piazza… Perfino Gandhi sosteneva che la paura può servire, ma non la codardia.
La Stampa 6.12.15
Marine la laica, Marion la cattolica
I due volti della stessa medaglia
Così zia e nipote stanno guidando il Front National che spera nel trionfo
di Leonardo Martinelli
Se oggi vittoria sarà per il Front National (e sembra proprio di sì), al primo turno delle regionali francesi, i militanti dovranno ringraziare il duetto formato da Marine e Marion, emanazioni del patriarca, Jean-Marie Le Pen.
Ma anche un’accoppiata improbabile: ruspante Marine Le Pen, con quel vocione che sembra il padre e le foto che la ritraggono mentre aspira un sigaro o svuota un bicchierone di birra; eterea Marion Maréchal le Pen, con la voce delicata e un fisico da mannequin («ma sotto un’apparenza dolce nasconde un carattere e una determinazione d’acciaio», dixit la zia e ha perfettamente ragione). Le differenze sono pure di sostanza: laica e «moderna» Marine, cattolicissima e tradizionalista Marion.
La prima è la candidata a presidente nella regione del Nord (Nord-Pas-de-Calais e Picardia). La seconda nel Sud, nella Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Sono date come superfavorite e da settimane stanno facendo da traino al partito. Entrambe sono passate dalla magione di Jean-Marie, il palazzotto antico sulle alture di Saint-Cloud (che lui ereditò da un imprenditore strambo, in condizioni ancora oggi oscure). Vi hanno trascorso molta della loro infanzia e adolescenza e anche oltre, in epoche diverse: Marine ha 47 anni, Marion quasi 26.
L’ascesa della zia
La prima ha vissuto lì gli alti e bassi dei genitori, compresa la fuga della mamma con l’amante e le foto della signora su Playboy per tirare su qualche soldo. Con la sua corazza psicologica, ha resistito tutto sommato bene. Più tardi, studentessa universitaria, in seguito avvocato e poi dirigente del Front National, la chiamavano «la night-clubbeuse», perché, appena poteva, scappava in discoteca, spesso con la sorella Yann. Lei partorisce Marion nel 1989 e manco si sa chi sia il padre. Poi Yann si sposerà con Samuel Maréchal, che la riconoscerà. Solo a tredici anni la ragazzina scoprirà le vere generalità del padre, che ha frequentato regolarmente (è morto nel frattempo). Da piccola Marion si ritrovava soprattutto da sola con il nonno nella magione, ad ascoltare in silenzio i suoi sproloqui. Con lui non ha mai rotto i ponti, neanche dopo la mediatica litigata di Jean-Marie con Marine.
Il gioco delle parti
Oggi le due donne sono il prodotto dei loro due distinti passati. La «night-clubbeuse» dice di essere cattolica ma non praticante. Prende sempre posizione a favore della laicità ed è una repubblicana convinta. Nel 2013 mai mise piede nelle manifestazioni contro il matrimonio gay. Anzi, il suo direttore di campagna attuale è Sébastien Chenu, omosessuale dichiarato, nel passato anche attivista per i diritti dei gay. Un altro dei suoi consiglieri, Julien Odoul, fece nudo nel 2009 la copertina della rivista gay Tetu, eletto migliore fisico dai lettori. Marine Le Pen è priva di qualsiasi remora cattolica che le impedisca di dire che «il sistema penale senza la pena di morte non tiene». Marion, invece, alle manifestazioni del 2013 si fece vedere, eccome. Lì si avvicinò ai cattolici più reazionari. Anche per quello è contraria alla pena di morte. Ha promesso, se sarà eletta, di eliminare i sussidi regionali ai centri di pianificazione familiare «perché banalizzano l’aborto» (la zia l’ha subito criticata). Marine si è presa un colpo anche quando Marion ha iniziato a esprimere simpatie monarchiche. E quando ha puntato il dito contro un progetto consolidato «per sostituire i francesi di origine con quelli musulmani in certi quartieri»: affermazioni liquidate da Marine come complottiste.
C’è chi dice che sia tutta una montatura. Più probabile, invece che la furba Marine sfrutti la bella Marion per captare un elettorato cattolico che di lei non si fida per niente. Speriamo per loro che i nodi non vengano mai al pettine.
La Stampa 6.12.15
Il texano Cruz guida l’offensiva repubblicana
“I cattivi si battono sparando”
di Alberto Simoni
La signora Michele Fiore manda biglietti di auguri di Natale con una fotografia nella quale grandi e piccoli della sua famiglia sfoggiano un piccolo (nemmeno troppo) arsenale. La signora Michele Fiore non è un signora qualunque, ma è una deputata repubblicana del Nevada. Orgogliosamente pro-fucili; diciamo che delle 300mila pistole e affini in giro per l’America, a giudicare dalla foto molte stanno a casa sua. Un suo collega, con ambizioni un po’ più alte, Ted Cruz, primo inseguitore di Donald Trump nei sondaggi per la nomination del Grand Old Party (Gop, il nome storico del Partito di Reagan e Lincoln), venerdì si è fatto fotografare mentre maneggia una pistola. Qualche mese aveva diffuso un video nel quale friggeva la pancetta sulla canna rovente di un fucile a ripetizione e ne apprezzava il sapore. Se sei un repubblicano con sogni presidenziali, hai solo un’opzione dopo quanto successo a San Bernardino: dichiarare che è un atto di terrorismo, parlare di guerre e dire - come fa Ted Cruz – «che non si fermano i cattivi semplicemente togliendo le armi dalla circolazione. Anzi, i cattivi si fermano usando le armi». Donald Trump la pensa come lui, e non è l’unico. Cruz rappresenta l’altra America, quella ostile all’editoriale del «New York Times» e la sua non è una voce fuori dal coro fra i conservatori. Basti pensare al leader di Red State, blog ultraconservatore, Erick Erickson che ha pensato bene di rispondere al «New York Times» crivellando di colpi la prima pagina.
La signora Michele Fiore manda biglietti di auguri di Natale con una fotografia nella quale grandi e piccoli della sua famiglia sfoggiano un piccolo (nemmeno troppo) arsenale. La signora Michele Fiore non è un signora qualunque, ma è una deputata repubblicana del Nevada. Orgogliosamente pro-fucili; diciamo che delle 300mila pistole e affini in giro per l’America, a giudicare dalla foto molte stanno a casa sua. Un suo collega, con ambizioni un po’ più alte, Ted Cruz, primo inseguitore di Donald Trump nei sondaggi per la nomination del Grand Old Party (Gop, il nome storico del Partito di Reagan e Lincoln), venerdì si è fatto fotografare mentre maneggia una pistola. Qualche mese aveva diffuso un video nel quale friggeva la pancetta sulla canna rovente di un fucile a ripetizione e ne apprezzava il sapore. Se sei un repubblicano con sogni presidenziali, hai solo un’opzione dopo quanto successo a San Bernardino: dichiarare che è un atto di terrorismo, parlare di guerre e dire - come fa Ted Cruz – «che non si fermano i cattivi semplicemente togliendo le armi dalla circolazione. Anzi, i cattivi si fermano usando le armi». Donald Trump la pensa come lui, e non è l’unico. Cruz rappresenta l’altra America, quella ostile all’editoriale del «New York Times» e la sua non è una voce fuori dal coro fra i conservatori. Basti pensare al leader di Red State, blog ultraconservatore, Erick Erickson che ha pensato bene di rispondere al «New York Times» crivellando di colpi la prima pagina.
Corriere 6.12.15
Erdogan torna in scenache cosa vuole la turchia
risponde sergio Romano
Ho visto che a Bruxelles si sono messi d’accordo per rilanciare il negoziato sull’adesione della Turchia all’Unione Europea. Ma, insomma, lei ha capito che cosa vuole veramente Erdogan?
Michela Bassi
Cara Signora,
Recep Tayyip Erdogan divenne primo ministro nel marzo del 2003 ed è oggi presidente di una Repubblica in cui il capo dello Stato, nelle sue intenzioni, potrebbe avere fra poco i poteri del presidente francese. Nell’arco di dodici anni la sua politica estera è passata attraverso fasi diverse.
In un primo momento Erdogan ha creduto che il suo Paese potesse diventare una potenza regionale, candidata all’Unione Europea, circondata e rispettata da Paesi con cui Ankara avrebbe avuto rapporti cordiali, non più gravati da vecchi contenziosi. Gli giovò, in quegli anni, il miracolo economico della Turchia, la possibilità di presentarla al mondo arabo-musulmano come il solo Stato della regione che fosse riuscito a coniugare solidità istituzionale e sviluppo. Ma questo disegno si è imbattuto lungo la strada in parecchi ostacoli. Non tutti i Paesi dell’Ue erano disposti ad accogliere la Turchia nel loro club; e non tutti i vecchi contenziosi, soprattutto con armeni e curdi, potevano essere liquidati, secondo le speranze di Erdogan, a costo zero.
La sua politica estera stava già zoppicando quando, improvvisamente, le rivolte arabe del 2011 hanno aperto nuove prospettive. Erdogan ha puntato sul loro successo e su quello della Fratellanza musulmana, ha creduto che la Turchia avesse le carte necessarie per essere punto di riferimento di tutti i Paesi arabi della regione. Nel giro di qualche mese il bilancio era molto meno positivo di quanto Erdogan avesse sperato. In Egitto il colpo di Stato dei militari contro la Fratellanza ha avuto per effetto la rottura dei rapporti diplomatici fra Il Cairo e Ankara. In Siria, dove Bashar al Assad cercava di reprimere la rivolta con la forza, Erdogan, per non rinunciare al proprio disegno, ha scelto di stare nel campo dei suoi nemici e ha permesso che il suo Paese diventasse, per i ribelli, una retrovia del conflitto. Un altro colpo è stato dato alla sua politica dall’apparizione dell’Isis sulla scena. Quando è stato chiaro che i migliori combattenti contro lo Stato Islamico erano le milizie curde, Erdogan ha temuto, non senza qualche motivo, che i curdi, prima o dopo, avrebbero chiesto la creazione del Kurdistan e che il conto sarebbe finito, in buona parte, sulle spalle della Turchia. Poteva continuare a fare una politica che diventava ogni giorno di più sgradita alla Nato, alle democrazie occidentali e, dopo l’abbattimento di un aereo russo, a Vladimir Putin?
Il fattore che lo ha tratto d’impiccio è stato la crisi dei rifugiati. Quando Angela Merkel ha capito che il problema, senza la collaborazione della Turchia, sarebbe stato insolubile, Erdogan ha scoperto di avere ancora qualche carta in mano. Ben consigliato, probabilmente, dal suo primo ministro (l’ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu), ha chiesto e ottenuto la riapertura dei negoziati per l’adesione all’Unione Europea. Molti altri problemi rimangono sul tavolo fra cui quello della sua ambigua politica siriana. Ma la nuova fase della politica estera turca contiene, in linea di principio, nuove prospettive. Vedremo quale uso saprà farne.
Corriere 6.12.15
Il renminbi «promosso» segnale del ruolo cinese
di danilo Taino
Chi non usa andare in Cina, difficilmente ha avuto tra le mani un renminbi, o yuan, cioè una banconota del Paese. Può essere stata una sorpresa, dunque, la decisione del Fondo monetario internazionale (Fmi) di introdurre, il 30 novembre, il renminbi nel paniere delle cinque valute — al fianco di quelle americana, dell’eurozona, nipponica e britannica) — che formano l’unità di riserva dell’Fmi stesso. Si è trattato del riconoscimento del ruolo sempre maggiore della Cina nell’economia del mondo. Ma è anche stata una decisione delicata.
La scelta di quali valute introdurre nel paniere avviene sulla base di due criteri: il volume delle esportazioni e il criterio di «valuta liberamente utilizzabile», cioè ampiamente usata nelle transazioni internazionali e commerciata nei principali mercati valutari. Nel primo criterio, il renminbi è potente. La quota di esportazioni di beni e servizi dalla Cina sul totale mondiale calcolata dallo staff dell’Fmi è stata in media del 10,5% nel periodo 2010-2014 , in crescita dal 7,7% del quinquennio precedente. Si paragona al 18,3% dell’area euro (in calo dal 19,9% ), al 13,6% degli Stati Uniti ( 14,3% ), al 5% del Giappone ( 7,2% ), al 4,8% della Gran Bretagna ( 5,7% ). Questa è la ragione principale sulla base della quale la valuta di Pechino è stata introdotta nel paniere e con un peso significativo, il 10,92% della composizione, ancora molto meno del dollaro ( 41,73% ) e dell’euro ( 30,93% ) ma più dello yen ( 7,95% ) e della sterlina ( 7,74% ).
Anche il criterio di valuta liberamente utilizzabile, però, ha avuto un ruolo. I Paesi che detengono renminbi nei loro asset ufficiali in valuta sono passati da 27 a 38 tra il 2013 e il 2014 . L’uso della moneta cinese da parte delle banche mondiali è salito all’ 1,8% . E le lettere di credito in renminbi sono state, tra la metà del 2014 e la metà del 2015 , il 3,8% del totale mondiale (l’ 86% in dollari, il 7,1% in euro). Anche nei mercati finanziari la Cina cresce ma, insomma, non è certo una potenza. L’ammissione nel paniere del renminbi ne farà probabilmente crescere l’utilizzo e l’influenza. Soprattutto, dovrebbe garantire che Pechino rimanga sul tragitto di mercati finanziari aperti e non manipolati, altrimenti non potrebbe restare nel paniere dell’Fmi. Quest’ultima è forse la conseguenza più rilevante della decisione di dare un alto status a una valuta che, vista dall’Occidente, potrebbe sembrare non averlo.
Corriere 6.12.15
In Cina la città dei Boschi Verticali
L’architetto Boeri incaricato di realizzare un complesso urbano ispirato ai due grattacieli milanesi
di Guido Santevecchi
PECHINO Una Città Foresta per centomila abitanti, dove moltiplicare il Bosco Verticale di Milano. È il nuovo progetto al quale sta lavorando Stefano Boeri, il padre delle due torri cariche di alberi e piante premiate come grattacielo più bello del mondo. L’architetto ha ricevuto la richiesta dal governo dello Hebei cinese e dalla municipalità di Shijiazhuang.
Il nome Shijiazhuang avrebbe un che di poetico: significa Villaggio della famiglia Shi. La poesia di questa città di tre milioni di abitanti finisce qui, perché le montagne che la sovrastano sono butterate da miniere di carbone e la pianura in cui l’hanno piazzata qualche decennio fa i pianificatori della Cina industriale è diventata un calderone fumante di acciaierie e centrali a carbone. Così l’ex villaggio Shijiazhuang, nello Hebei, ha un orribile primato: quello di capitale di provincia più inquinata della Repubblica popolare, di mostro che nel 2014 ha sputato e poi respirato per 264 giorni uno smog irrespirabile. È il «ground zero» urbano delle polveri ultrasottili Pm2,5; di quelle più spesse identificate come Pm10 e anche del biossido di zolfo e di quello d’azoto. Un tale inferno che l’anno scorso un suo abitante ha pensato di far causa alla municipalità, in un caso disperato ed eccezionale di sfida al potere cinese (lo hanno «convinto» che era meglio rinunciare).
«Un progetto come quello della Città Foresta a Shijiazhuang nasce proprio perché la situazione lì è estrema e ora c’è la volontà politica di intervenire», dice l’architetto Boeri, appena tornato da una ricognizione sul posto. L’area è già stata individuata in una zona industriale abbandonata. Boeri ha tracciato le linee di una città piccola per la Cina, 100 mila abitanti in un perimetro di 1,5 km per 1,5. «Avrà una forma a fiore con cinque quartieri come petali, e un centinaio di boschi verticali come palazzi residenziali, ma anche edifici più bassi per le altre strutture urbane, uffici, laboratori, musei, scuole, completamente avvolti, sulle superfici orizzontali e su quelle verticali, da milioni di foglie di piante, alberi, prati. Verde sia agricolo e produttivo sia naturale». Negli schizzi compaiono anche teleferiche per i trasporti. Quanto tempo prevede per i lavori? «In Cina i tempi possono essere rapidissimi, presentiamo il master plan entro dicembre, speriamo nel primo insediamento a fine 2016, e 5 anni per consegnare la città».
Una cittadina di dimensioni ridotte, proprio mentre il governo centrale sta lavorando a Jing-Jin-Ji, megalopoli da oltre 130 milioni di abitanti, costituita unendo con una cintura di autostrade e ferrovie Pechino, Tianjin e la provincia urbana dello Hebei. Jing indica Beijing; Jin Tianjin; e Ji Hebei. «Ma così nascono immense periferie prive di luoghi centrali e servizi collettivi, senza vivibilità» spiega Boeri. «Vogliono sperimentare questo nostro modello come alternativa a Jing-Jin-Ji che saldando tra loro i bordi delle metropoli sta creando conurbazioni infinite e ingovernabili». Quindi, i cento Boschi verticali che saranno piantati a Shijiazhung sono il seme per città di nuova generazione in un Paese come la Cina dove ogni anno 14 milioni di contadini emigrano verso aree urbane.
Nella visione dell’architetto italiano «questo prototipo di Città Foresta molto densa che riduce il consumo di suolo perché va in verticale, è totalmente cablata, attraversabile a piedi, ciclabile, con reti di trasporto sostenibili, capace di assorbire e usare energie rinnovabili, con una cintura agricola, darebbe un enorme contributo all’assorbimento di CO2, alla riduzione dei consumi energetici, del riscaldamento globale e all’aumento della biodiversità vegetale e faunistica». Domani Boeri è atteso a Parigi, alla conferenza sul clima, dove illustrerà il suo nuovo lavoro sulla «BioCittà». Intanto la Cina annuncia che entro il 2030 si doterà di 110 reattori nucleari, è questa l’unica soluzione? «No, credo che il nucleare sia necessario ma in un mix di nuove tecnologie come quelle a idrogeno». Boeri ha aperto uno studio a Shanghai perché «da un anno c’è una grande e nuova attenzione cinese per l’Italia, per la nostra creatività; si è costituita una situazione fertile, mi hanno chiesto di insegnare, di portare design, stile italiano: ripetono che piace alla moglie del presidente Xi e questo aiuta».
Corriere La Lettura 6.12.15
Peter Sloterdijk
La società schiumosa
Siamo sfere che esplodono e implodono
L’autore tedesco riflette su conflitti, migrazioni
E racconta la sua formazione: i viaggi in India, la rivalità con Habermas
Conversazione con il filosofo erede di Nietzsche: la nostra epoca è insicura, il mondo senza centro
colloquio con Donatella De Cesare
Vorrei iniziare il nostro dialogo dal tema del terrore. Ho letto in questo periodo commenti che mi sono parsi dettati da una forte reazione emotiva. Come se il clima bellico influisse anche sui media. In diverse circostanze lei ha detto che il terrore moderno ha una lunga storia e risale almeno alla rivoluzione francese e all’uso della ghigliottina. Il terrore è inscritto nella democrazia?
PETER SLOTERDIJK — Certamente. Democrazia vuol dire non avere più bisogno del terrore. Qui parla l’hegeliano che è in me: il terrore è uno stadio inaggirabile nel cammino verso lo Stato moderno. Bisogna avere attraversato il terrore per aprirsi alla democrazia. Ma proprio per questo il terrore resta un aspetto della politica nella modernità.
DONATELLA DI CESARE — Ritengo però che il terrorismo attuale sia un fenomeno postmoderno. Sbaglia chi usa con una certa facilità l’etichetta «barbarie», perché questo impedisce di considerarne la complessità. E credo che sia anche una grossolana semplificazione interpretare quel che avviene come il conflitto tra la religione (o le religioni) da un canto e la democrazia illuminata dall’altro.
PETER SLOTERDIJK — Non vorrei fare dell’islamismo una ideologia. Pur essendo un critico della religione, vedo qui un abuso della religione che, ridotta a un legame costrittivo, viene piegata a fini politici, primo fra tutti quello di costituire una comunità.
DONATELLA DI CESARE — A questo proposito credo che il presunto «Stato islamico» sia anche una disposizione d’animo molto diffusa non solo in Medio Oriente, ma nelle periferie delle metropoli occidentali.
PETER SLOTERDIJK — I terroristi sono per me attivisti del «terzo sogno», del sogno islamico che si oppone a quello americano. Ecco perché sono postmoderni: da un canto abitano nella realtà virtuale del XXI secolo, dall’altro fuggono nel passato del VII secolo. Mentre usano internet, attraversano il deserto — la testa piena di miti e sogni. E a questa paranoia favolistica ed eroica convertono molti giovani.
DONATELLA DI CESARE — Che cosa li spinge a farsi esplodere? Non mi convince l’idea che — come alcuni hanno insinuato — abbiano un concetto di vita diverso dal «nostro». Ho l’impressione che ci sia un tratto apocalittico nella loro decisione di dare e darsi la morte.
PETER SLOTERDIJK — Direi che sono acceleratori dell’incendio. Per capire l’esito nichilistico delle enormi frustrazioni accumulate da questi giovani, occorre rileggere le analisi di Nietzsche e di Schiller sul risentimento. Parlerei di una fenomenologia della umiliazione. È grazie a un contatto più o meno superficiale con l’ideologia jihadista che una enorme riserva di sentimenti negativi assume una direzione politica. La criminalità spicciola assurge ad azione bellica. Il piccolo delinquente — e nessuno di questi giovani vuole esserlo, sebbene molti di loro purtroppo lo siano — si muta allora in combattente.
DONATELLA DI CESARE — Ecco allora il loro riscatto, la loro redenzione.
PETER SLOTERDIJK — Sì, vengono riscattati dalla guerra. Qualcosa di analogo è accaduto d’altronde nell’agosto del 1914, quando in migliaia celebrarono l’inizio del conflitto mondiale, pervasi quasi da un’estasi, come se, diventando vittime sacrificali, venissero nobilitati. Questo per me vuol dire che occorre evitare di conferire alla lotta al terrorismo lo statuto di guerra. E vuol dire anche che questa ondata di terrorismo non durerà più di un paio di anni. Il rischio è invece che la democrazia regredisca a non-democrazia.
DONATELLA DI CESARE — Non crede allora che ci troviamo all’inizio di una guerra globale dove non esistono più fronti?
PETER SLOTERDIJK — Certamente. Ma già da decenni siamo in questa mobilitazione totale che volge verso l’incerto, dove tutti combattono contro tutti, e dove — come aveva già detto Karl Jaspers nella sua opera del 1930 La situazione spirituale del tempo — non ci sono più fronti.
DONATELLA DI CESARE — Convivere con chi è estraneo è la sfida del nostro tempo.
PETER SLOTERDIJK — Proprio così. Il fenomeno epocale del nostro secolo è l’enorme spostamento di masse che con un termine troppo riduttivo chiamiamo emigrazione. Questo fenomeno non finirà in tempi brevi.
DONATELLA DI CESARE — Vede come causa di questo fenomeno motivi peculiari oltre, s’intende, le guerre locali, le dittature e la fame?
PETER SLOTERDIJK — Non dobbiamo sottovalutare la portata enorme del cambiamento climatico. La spogliazione della terra ha assunto proporzioni inimmaginabili. Continuiamo a chiudere gli occhi. Anche i filosofi dovrebbero occuparsi molto di più della questione delle fonti di energia. È una filosofia sociale che non è stata ancora scritta.
DONATELLA DI CESARE — E poi? Quali altri motivi scorge dietro lo spostamento di masse?
PETER SLOTERDIJK — I media occidentali non fanno che trasmettere immagini di una vita ricca e confortevole. Si tratta di una vera e propria forma di evangelizzazione. Milioni, miliardi di uomini e donne si sono già convertiti e si convertiranno a questa forma di vita.
DONATELLA DI CESARE — La religione di un capitalismo globale.
PETER SLOTERDIJK — Ho cercato di mettere tra parentesi il concetto di «religione». Perché la religione era prima il legame che teneva insieme una società. La modernità ha reso la religione una sorta di ermeneutica dell’esserci, il mezzo di una introspezione di sé. Prima non sarebbe stato possibile. Così la religione entra in conflitto con l’arte o con la filosofia.
DONATELLA DI CESARE — A questo proposito vorrei rivolgerle una domanda che riguarda la sua biografia. So che lei è andato per un periodo a Poona in India; ha seguito l’insegnamento del Bhagwan Shree Rajneesh, figura di rilievo del misticismo indiano, ed è diventato sannyasin , raggiungendo dunque un grado importante dell’induismo. La teoria critica della scuola di Francoforte — almeno così mi immagino — doveva essere la sua patria teoretica. Come mai l’ha lasciata? E per seguire inoltre un’esperienza intimistica? Certo, in quel periodo era quasi ovvio passare da Marcuse al Siddharta di Hermann Hesse. Ma addirittura un viaggio in India...
PETER SLOTERDIJK — Erano gli anni della sperimentazione, della psicoterapia, della meditazione di gruppo. Il nostro viaggio a ovest era terminato da tempo; quello a est non era ancora iniziato. La mia avventura in India durò circa quattro mesi. Avevo scritto una tesi di dottorato all’Università di Amburgo sull’autobiografia come genere filosofico. Era un periodo complicato per la Germania, in cui si chiudeva drammaticamente la lotta armata della Rote Armee . Sono partito per l’India nell’autunno del 1979. Non solo ho avuto molti impulsi, ma mi sono costruito una nuova identità. In seguito sono andato in America. È stato allora che il sospetto di avere un cancro mi ha gettato nel panico. A quel punto ho pensato che non mi restava molto tempo. Prima rinviavo tutto, come fanno oggi molti giovani. Nell’inverno del 1981 ho iniziato a scrivere la Critica della ragione cinica . Quando il libro è uscito, nel 1983, è stato un grande successo. Oggi è tradotto in 32 lingue.
DONATELLA DI CESARE — Il successo è stato però anche un problema. Lei è stato coinvolto in molte polemiche, talvolta — mi sembra — scaturite da malintesi. Ha dovuto fronteggiare soprattutto Jürgen Habermas…
PETER SLOTERDIJK — Non solo lui, ma tutta la vecchia guardia dei filosofi del dopoguerra. Non credo, peraltro, che si tratti di malintesi, quanto di rivalità. Talvolta il malinteso è voluto e le differenze non sono allora eliminabili.
DONATELLA DI CESARE — Sloterdijk è il nuovo Nietzsche, lo spengleriano, l’antiumanista, lo pseudomistico, l’anarchico di stampo conservatore, la popstar del pensiero, il filosofo più in vista sulla scena mondiale. Eppure mi sembra che lei sia relativamente isolato in Germania. Il che non mi sorprende. La filosofia tedesca si dibatte in questo momento tra molte difficoltà. Lei è invece l’erede diretto di Nietzsche, di Heidegger e di tutta la tradizione.
PETER SLOTERDIJK — Ha ragione. I vecchi signori della filosofia tedesca hanno tentato di isolarmi. Ma dalla mia parte io ho il pubblico. E non mi sento in nessun modo marginale. Ho interlocutori sparsi ovunque nel mondo: Bruno Latour in Francia, Hans Ulrich Gumbrecht a Palo Alto. E i miei ispiratori sono nella storia: i grandi filosofi, ma anche i grandi narratori, da Gottfried Benn a Thomas Mann, da Robert Musil a Hermann Broch.
DONATELLA DI CESARE — In fondo lei è anche uno scrittore.
PETER SLOTERDIJK — In questi giorni sto scrivendo un romanzo epistolare che uscirà in primavera. Si intitola Das Schelling-Projekt . Più che di epistole si tratta però di email. Nella speranza di avere un finanziamento, sei studiosi lavorano a un progetto di ricerca sullo sviluppo dell’erotismo femminile. Le scienze cognitive si rivelano poco utili; decisiva è invece la filosofia della natura di Schelling...
DONATELLA DI CESARE — Le donne hanno nella sua filosofia un ruolo di primo piano.
PETER SLOTERDIJK — Sì, è vero. Anziché Essere e tempo , si può dire: Frau und Raum , «Donna e spazio».
DONATELLA DI CESARE — A questo punto non posso fare a meno di chiederle di Heidegger, il suo principale ispiratore. Lo ha conosciuto di persona?
PETER SLOTERDIJK — No. Ho letto e leggo la sua opera, per me imprescindibile. Una chiave per interpretare Heidegger mi è stata fornita da uno dei miei maestri, Hermann Schmitz, il fondatore della nuova fenomenologia. Schmitz ha tentato di portare la filosofia a una catarsi di se stessa — un po’ come quello che Papa Francesco fa oggi nella Chiesa.
DONATELLA DI CESARE — Dopo Heidegger è difficile assumere un ruolo, come filosofo, in Germania. Non crede?
PETER SLOTERDIJK — Eppure Heidegger ha visto giusto quando, nei Quaderni neri, non parla più di «chiacchiera», ma del «diffuso rumore dei media» e di quel permanente stress mediatico in cui tutti noi ci troviamo. Questo impedisce ogni riflessione filosofica.
DONATELLA DI CESARE — Heidegger è stato il fenomenologo dell’abitare. Ma nella sua filosofia ha privilegiato il tempo piuttosto che lo spazio. Anche perché ha guardato sempre con sospetto alla globalizzazione. Nella sua critica della globalizzazione lei riprende questo spunto da Heidegger, facendone il cardine del suo pensiero.
PETER SLOTERDIJK — Beh, sì. La mia opera in tre volumi, Sfere , ne è la prova.
DONATELLA DI CESARE — Il terzo volume di Sfere , intitolato Schiume , è uscito in questi giorni in italiano per la casa editrice Cortina. Nel complesso l’opera arriva a 2.500 pagine circa. In Germania è stata un bestseller (il primo volume ha venduto ventimila copie). Una volta lei ha detto che un lettore dovrebbe prendersi una vacanza per poter leggere con continuità i tre volumi.
PETER SLOTERDIJK — Viviamo nel mondo dominato dal computer, dove si legge poco perché manca l’allenamento. Ma soprattutto manca la disponibilità a pagare i costi del viaggio che la lettura impone, ad affrontare il dolore dell’esperienza — subito dopo ampiamente ripagato. Le persone più giovani credono di poter acquisire cultura così come si scarica un programma da internet.
DONATELLA DI CESARE — Quando è nata quest’opera Sfere ? In quale contesto?
PETER SLOTERDIJK — L’intero progetto risale agli anni Novanta, quando insegnavo all’Accademia di belle arti di Vienna. Mi chiedevo: come posso avvicinare i giovani artisti alla filosofia? La sfera rappresenta per me la spazialità. Nel primo volume Bolle parlo delle sfere intime, della madre, della nascita, di una «ginecologia negativa», della nostra condizione non di individui, bensì di «dividui», dato che ciascuno è la metà di una coppia, di cui non si vede l’altra parte. Il modo in cui siamo stati concepiti come individui non è che una astrazione della modernità. La coesistenza precede l’esistenza. Nel secondo volume Globi rifletto su quella che Heidegger chiama l’epoca della metafisica, della razionalizzazione monosferica. Cosmologia e teologia filosofica sono i due grandi temi del secondo volume. Non solo il mondo, ma anche Dio è una sfera, una sfera infinita.
DONATELLA DI CESARE — E il terzo volume?
PETER SLOTERDIJK — Il terzo volume Schiume è venuto alla luce molto più tardi, nel 2004. L’epoca considerata è quella postmetafisica. Ricorro perciò alla metafora della schiuma per indicare le sfere pluralistiche. Viviamo negli anni della globalizzazione virtuale che ha portato a una crisi definitiva dello spazio. La schiuma rende bene questo implodere ed esplodere di sfere che si intersecano. Non c’è più un centro, perché ogni punto è virtualmente il centro. Non abbiamo più un posto saldo e sicuro sotto un cielo eterno e onnicomprensivo.
DONATELLA DI CESARE — In questo ultimo volume di Sfere lei parla di temi che ci sono molto vicini, dal terrorismo al mutamento del clima. Ma i toni non sono tragici e, anzi, malgrado l’insicurezza, si potrebbe pensare a una nuova gaia scienza suggerita dall’immagine aperta della schiuma.
PETER SLOTERDIJK — All’insicurezza dovremo abituarci. Fa parte integrante della civiltà. È la sfida per il futuro che potremo accogliere se, piuttosto che pretendere di immunizzarci dai pericoli che vengono dall’esterno, sapremo procedere insieme, non come rigide monosfere, ma come parti di schiume che sanno coesistere.
Corriere La Lettura 6.12.15
La necessità di essere ambiziosi
L’umanità avanza grazie soprattutto ai sogni di gloria: Alessandro Magno e Riccardo III e Abraham Lincoln per esempio
Una storia di ascese e cadute naturalmente
Ma anche di strepitosi successi nel campo della medicina
di Giuseppe Remuzzi
«Alessandro voleva sempre di più — scrive Plutarco — e a chi gli chiedeva perché mai non gareggiasse a Olimpia rispondeva che l’avrebbe fatto solo se avesse avuto contro un re». Era ambizioso Alessandro (il Macedone), di una ambizione senza limiti, al punto di dolersi del padre — «conquisterà tutto lui e a me non resterà più nulla» — e di rimproverare Aristotele: «Voglio distinguermi per il mio ingegno più che per la forza dei miei eserciti, certo che se pubblichi le tue lezioni se ne gioveranno tutti». Insomma Alessandro avrebbe voluto che gli insegnamenti di Aristotele fossero solo per lui. Il Macedone, che sarà poi Alessandro Magno, sa bene cosa vuole, fin da giovane, e la sua ambizione (inclusa — a detta di Curzio Rufo — la pretesa di essere Dio) lo porta a modificare il corso degli eventi e a far riscrivere la storia. E Alessandro non è stato il solo. L’ambizione — insieme a cultura, visione e capacità di controllare le emozioni — fece di Lincoln uno dei più grandi, forse il più grande presidente degli Stati Uniti. Abraham nasce in una casa di gente povera, ma vuole assolutamente diventare qualcuno e fare qualcosa di grande per il suo Paese, non a qualunque costo però, ma meritandosi la stima di chi gli sta intorno e poi del suo popolo. Ci è riuscito, eccome.
«Buona o cattiva l’ambizione?», si chiede Neel Burton, professore di psicologia a Oxford in un saggio recente. Dipende. A Riccardo III d’Inghilterra («il mio regno per un cavallo») l’ambizione fu fatale: corrotto e malvagio, viene abbandonato un po’ alla volta da quasi tutti e muore di morte violenta; è Shakespeare a renderlo immortale. Over-ambitious furono Mastro Gesualdo di Verga, manovale che diventa ricco e «don» e riesce perfino a sposare una nobildonna, e Georges Duroy di Bel Ami di Maupassant, che da impiegatuccio delle ferrovie arriva a essere uno degli uomini più influenti di Francia.
Di medici ambiziosi ce ne sono stati tanti, più vicini a Lincoln che a Riccardo III però. Louis Pasteur aveva genio e conoscenze ma anche voglia di emergere e capacità di convincere gli scettici e un obiettivo dichiarato e ambiziosissimo: dedicare la sua vita al benessere dell’umanità. L’hanno definito «il più perfetto di tutti gli scienziati»; è per la sua personalità e un po’ anche per la sua ambizione che l’uomo ha trionfato sui microbi, cosa sarebbe successo se no?
«Cose del passato» penserà chi ha avuto la bontà di leggere fin qui. Ma è stato così anche dopo. Agli inizi degli anni Cinquanta chi si ammalava di rene moriva perché non c’era modo di sostituire la funzione. Sarebbe così anche oggi, se non fosse stato per l’ambizione di David Hume, un uomo di inesauribile energia e ottimismo: lui non sapeva aspettare, la sua curiosità intellettuale non aveva limiti. «Che non ci fossero precedenti non era un deterrente per lui — ha scritto Hyung Mo Lee, uno dei suoi giovani colleghi —, per lui niente era impossibile, aveva un entusiasmo infettivo che contagiava letteralmente tutti quelli che lavoravano con lui, entravi nel suo ufficio con una piccola idea e uscivi con un grande progetto».
Nel 1951 il dottor David Hume e i suoi collaboratori, all’ospedale Peter Bent Brigham di Boston, eseguirono il primo trapianto di rene da un donatore cadavere, in un paziente che stava per morire per insufficienza renale acuta. In quell’anno e nel successivo Hume, in collaborazione con il dottor Merrill, eseguì altri nove trapianti da un soggetto a un altro, posizionando il rene trapiantato nel braccio o nella coscia del ricevente. Fu Joseph Murray ad arrivarci, mentre altri chirurghi che lavoravano con lui giudicavano eccessiva l’ambizione di farcela. «Joe, non farti coinvolgere con questa storia del trapianto, rovinerà la tua carriera». Murray era un chirurgo plastico, curava le ferite di guerra come ufficiale dell’esercito americano, trapiantava la cute da un soggetto all’altro e aveva visto che tra gemelli non c’era rigetto. Nel 1947 torna a Boston, incontra John Merrill e insieme ragionano: se i gemelli identici non rigettano il trapianto di cute non dovrebbero rigettare nemmeno quello di rene.
Intanto al Medical College of Wisconsin dove è ricoverato, un ragazzo di vent’anni — Richard Herrick — sta morendo di insufficienza renale. Murray e Merrill pensano di chiedere al gemello Ronald di privarsi di uno dei suoi reni per darlo a Richard, ma hanno paura. «Si trattava di chiedere a un ragazzo di sottoporsi a un intervento chirurgico per il bene di un altro, a Ronald quell’intervento non avrebbe portato alcun vantaggio». E nell’ambiente c’era chi criticava «state giocando a quelli che fanno Dio». Ci fu una discussione pubblica.
I più sono contrari, chiedono al comitato etico, ma quelli non sanno che pesci prendere. Così i dottori di Boston la decisione la prendono da soli, con la famiglia Herrick, sostenuti dall’essere tutti e due over-ambitious . L’operazione avrà successo, regalerà a Richard anni di vita e una moglie e dei figli e cambierà la vita a centinaia di ammalati fin da subito.
Quell’intervento, che a Murray valse il premio Nobel, accende la fantasia di Chris Barnard, giovane chirurgo del Sud Africa bravo sì, ma anche ambiziosissimo. Appena laureato va negli Stati Uniti per un po’ e ci ritorna nel 1966, lì incontra dottori del trapianto in California e poi a Richmond e a Denver, vuole imparare le tecniche chirurgiche e tutto quello che si sa sul rigetto. Thomas Starzl, il pioniere del trapianto di fegato, gli racconta candidamente che si stanno preparando a fare anche il trapianto di cuore, ma non prima di avere buoni risultati con il fegato. «Pensavamo — racconta Starzl — che una volta tornato a Città del Capo Barnard volesse avviare un programma di trapianto di rene, come tutti quelli che venivano a imparare». Ma Chris spiazza tutti, il primo trapianto di cuore lo fa proprio lui in Sudafrica, anche perché là non c’era nessuna legge che lo impediva. Fu notizia di quelle che fanno epoca. Il primo malato visse solo 18 giorni; altri si sarebbero fermati, Barnard no. «Impariamo dagli errori e questo deve darci coraggio per fare più e meglio». Il secondo malato vivrà 19 mesi e mezzo e Chris, che era bellissimo, sarà corteggiato dalle donne più in vista del momento.
Il trapianto — di rene, cuore, fegato e polmone — si diffonde fino a regalare da allora a oggi più di due milioni di anni di vita solo negli ultimi 25 anni e solo negli Stati Uniti a tanti ammalati che se no sarebbero morti. E tutto per l’ambizione di uno che non ebbe paura di averne. Come Willem Kolff. Da bambino voleva dirigere uno zoo, ma in Olanda ce n’erano soltanto tre. «Così — diceva suo padre — le possibilità di dirigerne uno sono davvero pochissime». Era un dottore suo papà, ma Willy il dottore non lo voleva fare: «Si vedono morire troppe persone», diceva.
Nel maggio del 1940 le truppe di Hitler invasero l’Olanda e i nazisti occuparono il suo ospedale a Groningen. Pur di non collaborare, Kolff se ne va via e finisce a Kampen. Il rene artificiale Kolff l’ha inventato lì in un piccolo ospedale di campagna. Di fronte all’agonia di un uomo che moriva di reni pensò che se si fosse riusciti a togliere dal sangue le sostanze tossiche che si accumulano quando questi smettono di funzionare, gli ammalati si sarebbero potuti salvare. Come membrana ha provato di tutto, il budello delle salsicce soprattutto e persino i barattoli delle spremute d’arancia. Ci ha messo sangue mescolato con urea, una molecola che chi è ammalato di reni non riesce a eliminare. Poi ha immerso il budello della salsiccia in un bagno salato. In pochi minuti l’urea passava dal sangue all’acqua. L’idea era giusta. Dalle salsicce si è passati alle membrane di cellophane, fino alla creazione di una macchina estremamente primitiva, a rullo come le prime lavatrici. Ha cominciato ad attaccare a questa macchina i primi pazienti. Nessuna approvazione e nessun comitato etico. Kolff era solo con la sua coscienza e con i suoi ammalati. All’ospedale di Kampen ne ha curati 15, ne sono morti 14. Kolff nel 1950 lascia l’Olanda per gli Stati Uniti. Le macchine da dialisi diventano sempre più sofisticate, tra lo scetticismo dei grandi fisiologi renali, che dicevano fra loro e ai congressi: «Mai nessuna macchina sarà capace di sostituire le funzioni di un organo complesso come il rene».
Si sbagliavano, oggi più di due milioni di persone al mondo vivono (qualcuno anche per 30 e persino 40 anni) grazie alla macchina che lava il sangue e tutto per via del dottor Kolff, della sua intuizione, della sua voglia di riuscirci a dispetto di tutti, della sua ambizione insomma.
Corriere 6.12.15
Chomsky: è solo apparente la diversità delle lingue umane
Struttura innata. «Il sistema che plasma il significato è semplice e piuttosto uniforme in tutti gli idiomi»
Scienza e politica. «Le mie idee libertarie derivano forse anche dall’attenzione verso ogni tipo di creatività»
Chomsky è il fondatore della linguistica generativa, secondo cui ciascuno nasce con una conoscenza innata delle regole di una «grammatica universale». Tale teoria si contrappone a quelle funzionaliste, per cui è appunto la funzione comunicativa che modella e trasforma il linguaggio.
di Massimo Piattelli Palmarini
È dal 19 novembre disponibile in libreria il volume La scienza del linguaggio (Il Saggiatore), basato su alcune lunghe interviste con Noam Chomsky, realizzate dall’insigne linguista canadese James McGilvray. Corredato da numerose appendici, glossari e note a piè di pagina, il libro ripercorre in modo accessibile a un pubblico non specialista lo sviluppo delle idee di Chomsky, cioè di colui che alcuni considerano il massimo linguista di ogni tempo e che è di fatto il più citato intellettuale vivente.
Ho chiesto a McGilvray quale impressione o sensazione abbia ricavato da queste sue interviste. Mi dice: «Noam è stato un’incessante ricarica delle mie batterie intellettuali. Lui è sempre stimolante e spesso produce in chi lo intervista, senza volerlo, un sentimento di inferiorità intellettuale».
In questa mia intervista con Chomsky mi sono tenuto su temi più generali di quelli trattati nel libro con McGilvray. La mia prima domanda è se sia corretto sintetizzare la sua opera, sviluppata in oltre mezzo secolo, come l’esplorazione, in fondo, di una singola idea centrale. «Forse la singola idea — risponde Chomsky — è ben sintetizzata dal titolo di un mio prossimo libro: Che tipo di creature siamo? . Il nucleo del mio lavoro, infatti, è stato la natura del linguaggio, una proprietà essenziale che ci definisce in quanto esseri umani, ma ovviamente le considerazioni via via sviluppate vanno ben al di là».
Gli chiedo adesso di riassumere gli ultimissimi sviluppi della sua teoria, quello che c’è di nuovo, da due o tre anni a questa parte. «La proprietà basilare di ogni lingua umana — mi risponde — è un processo generativo che porta a emettere e comprendere una schiera potenzialmente infinita di espressioni aventi una struttura interna gerarchica. Ciascuna di queste determina una stretta corrispondenza tra suoni (o gesti, nel linguaggio gestuale dei sordi) e significati. In questi ultimi anni è diventato realistico avanzare una tesi piuttosto radicale: il nucleo del sistema che determina il significato è estremamente semplice e assai prossimo a essere uniforme in tutte le lingue. La complessità delle lingue e la loro diversità sono in un certo senso apparenti. Scaturiscono da un sistema secondario, un sistema sensorio e motorio, che determina le forme manifeste, cioè suoni o gesti. Il mio lavoro attuale sul linguaggio è essenzialmente dedicato a perseguire fin dove possibile questo programma di ricerca».
In gennaio uscirà negli Stati Uniti per l’editore Mit Press un libro di Noam Chomsky e di Robert Berwick essenzialmente centrato sul problema dell’evoluzione biologica del linguaggio. Il titolo è Why Only Us? («Perché solo noi?»). Lo si deve intendere: perché solo noi esseri umani abbiamo il linguaggio?
Come ben spiegato nelle sue interviste con McGilvray, Chomsky esclude che i molteplici e a volte raffinati sistemi di comunicazione animale siano da considerarsi parenti delle lingue umane. Gli chiedo se può riassumere il «messaggio» centrale di questo imminente libro. «Il titolo è assai rivelatore. Berwick ed io cerchiamo di mostrare che la componente centrale di quanto abbiamo appena visto qui sopra è emersa una sola volta nella storia degli organismi viventi. Questa ha prodotto i tratti fondamentali della natura umana e ci distingue nettamente dalle altre specie viventi. L’emergenza è stata probabilmente assai subitanea e piuttosto recente nella scala evolutiva. Non c’è stata alcuna evoluzione successiva in questo nucleo. L’apparente diversità e la complessità delle lingue, come dicevo qui innanzi, sono scaturite dal bisogno di connetterci, mediante il sistema sensorio-motorio, con i nostri simili. Il sistema interno è fondamentalmente atto a pensare, non a comunicare. La complessità scaturisce dall’uso di questo sistema per comunicare».
La sua teoria, anzi spesso l’intero suo modo di trattare il linguaggio, sono stati a lungo e da più parti ferocemente criticati. Chomsky ha inflessibilmente ripetuto che il suo approccio è nient’altro che l’applicazione al linguaggio dei normali metodi scientifici. Come mai, allora, tante critiche e spesso tanta acrimonia? «Questo modo di trattare il linguaggio — osserva lo studioso americano — va contro un buon numero di dottrine molto radicate, in filosofia, in psicologia e nella linguistica tradizionale. Quanto più viene sviluppato, tanto più decisamente si scontra con queste dottrine, almeno a mio avviso. Quanto alle alternative proposte, io stesso e vari colleghi abbiamo sempre puntualmente e direi persuasivamente risposto, ma occorre che ciascuno giudichi di testa propria.»
I suoi saggi di linguistica non parlano mai di politica e i suoi saggi di politica non parlano mai di linguistica, ma ci si può chiedere se e come, ad un livello profondo, il suo pensiero linguistico e il suo pensiero politico trovino un fattore comune. Così mi risponde Chomsky: «Forse, andando abbastanza in profondità, si tratta di speculazioni sugli aspetti fondamentalmente creativi della natura umana. Queste idee trovano espressione tanto nel pensiero sociale e politico di stampo libertario quanto nello studio del linguaggio. I primordi si possono rintracciare, andando indietro nel tempo, all’alba della rivoluzione scientifica, in Galileo, Cartesio e altre figure-guida del pensiero moderno. Le ramificazioni e le implicazioni sono numerose e significative ancora ai nostri giorni, in ambedue queste aree».
Troviamo nel volume di Chomsky appena pubblicato in Italia e nei suoi due libri di prossima pubblicazione negli Stati Uniti precisazioni e argomentazioni su tutti questi temi, qui solo brevemente ricapitolati.
Corriere La Lettura 6.12.15
Alla ricerca dello spazio perduto
Lo sforzo intellettuale di Schmitt per definire un nuovo ordinamento giuridico del pianeta appare oggi nient’altro che una splendida archeologia di fronte al disordine mondiale del nostro tempo
di Mario Andrea Rigoni
Il nome di Carl Schmitt (1888-1985) si associa, ormai anche nell’opinione corrente, oltre che all’odioso antisemitismo, antiamericanismo e filonazismo delle sue posizioni personali (fu arrestato e processato dagli Alleati a Norimberga per l’autorevole sostegno dato al Terzo Reich), anche e innanzitutto all’elaborazione di fondamentali analisi e concetti politico-giuridici, delineati con impressionante lucidità teorica ed esposti con una nitidezza ed efficacia da eccellente scrittore (lo stile è appartenuto sempre più ai conservatori o ai reazionari che ai progressisti).
Molti dei temi del suo pensiero, al quale si sono interessati esegeti e studiosi di ogni tendenza, marxisti ed ex marxisti compresi, sono ripresi in una raccolta di saggi scritti fra il 1927 e il 1978 e pubblicati adesso da Adelphi con il titolo Stato, grande spazio, nomos , che fanno da corona, nella forma della precisazione, dell’integrazione o dello sviluppo, alle opere maggiori del giurista tedesco.
Il primo di questi saggi, Il concetto del politico , già noto in Italia (ma qui riproposto nell’edizione del 1927), distingue l’area limitata della politica ( die Politik ), che si identifica con le istituzioni statali, dal politico ( das Politische ). L’aggettivo sostantivato (entrato in uso solo agli inizi del secolo scorso) include l’area non giuridica, riveste un carattere ubiquitario e trova la sua essenza nella polarità amico-nemico, da intendersi non in senso privato, ma pubblico: quando il Vangelo esorta ad amare i propri nemici, intende i nemici privati, l’ inimicus , l’avversario, non il nemico pubblico, l’ hostis .
L’idea di questa polarità è ricavata sia dall’opera di un esponente del tacitismo spagnolo del Seicento, Alamos de Barrientos, sia dall’ Arthasastra del teorico dello Stato indiano Kautilya (IV sec. a. C.), ma essa figura anche altrove, come nella riflessione sulla politica antica svolta dal nostro Leopardi nello Zibaldone di Pensieri , che quasi certamente Schmitt non conosceva. In ogni caso la distinzione fra amico e nemico sostanzia non solo, come è ovvio, il fenomeno della guerra, ma anche il nomos , ossia il possesso e l’ordinamento della terra, un concetto al centro di un grande libro di Schmitt, di spirito o di significato sorprendentemente «liberale», intitolato appunto Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum» (1950).
In almeno due saggi della raccolta (che è anche fornita di preziose e sistematiche note) Schmitt torna sul tema del nomos . Storicamente, esso ha conosciuto tre fasi. La prima, caratterizzata da un mondo ristretto e puramente terraneo, arriva fino al Cinquecento, quando le scoperte geografiche operate dall’Europa dischiudono lo spazio agli oceani, dominati dalla potenza marittima più forte, che era l’Inghilterra. Il nomos eurocentrico, basato sull’equilibrio fra terra e mare, andò in pezzi con la Prima guerra mondiale, dopo della quale si aprì un’ulteriore dimensione, quella dello spazio aereo. Al momento in cui Schmitt scrive Il nuovo nomos della terra (1954), il mondo è diviso in un Oriente comunista e un Occidente capitalista, che si fronteggiano nella guerra fredda. Quale sarà dunque il nuovo nomos della terra?
Schmitt prospetta diverse possibilità, nessuna delle quali sembra però essersi realizzata. La sua inclinazione o il suo auspicio si rivolgeva alla formazione di molteplici grandi spazi autonomi in grado di instaurare un equilibrio fra loro, alla condizione, egli precisa, come rileva Giovanni Gurisatti nella sua introduzione, che «siano delimitati in modo sensato e risultino in sé omogenei»: uno di questi spazi è naturalmente l’Europa, di cui Schmitt nel suo ultimo scritto (1978) lamenta non solo il vuoto di unità politica, ma anche l’assenza del desiderio e dell’interesse stesso di crearla in nome di un patriottismo europeo.
Dei vari concetti fondamentali ai quali Schmitt deve la sua fama, pochi restano e resteranno sempre attuali, assumendo configurazioni in perenne e sorprendente movimento. Uno è purtroppo, e sicuramente, la contrapposizione amico-nemico; l’altro è «lo stato di eccezione», ossia quella condizione di pericolo estremo per la sopravvivenza dello Stato, che chiama in causa la questione della sovranità decisionale: chi giudicherà? Schmitt concorda con Hobbes che l’autorità, non la verità, fa la legge. D’altronde la risposta della storia è che il diritto viene sempre scritto dal vincitore, il quale è «il signore anche della grammatica».
Morto nel 1985, Schmitt non potè assistere ai più recenti fenomeni, capitali e imprevedibili, non senza rapporto tra loro, che hanno mutato il volto del mondo. La dinamica degli elementi, terra, acqua, aria, è stata annullata o almeno profondamente modificata dalla rivoluzione informatica, che ha sovvertito non solo l’omogeneità dei «grandi spazi», ma lo spazio e il tempo stesso, ha creato anzi un nuovo spazio e un nuovo tempo virtuale: lo sviluppo della «tecnica scatenata», che Schmitt ha tanto deprecato, ha reso tutto permeabile, ubiquo e simultaneo.
Al crollo del comunismo sovietico, che faceva sperare in un’epoca di pace, hanno fatto seguito invece arcaici, feroci e diffusi scontri religiosi. La Cina, che ha instaurato un inedito comunismo capitalista, opera una silenziosa infiltrazione in varie parti del mondo, Africa inclusa. La proletarizzazione delle masse arabe ha indotto flussi migratori di proporzioni bibliche, che intaccano i confini tradizionali e impediscono la distinzione fra l’interno e l’esterno. La guerra non è più né la guerre en forme dello jus publicum europaeum interstatuale né la guerra partigiana, a cui Schmitt ha dedicato scritti illuminanti, ma il terrorismo planetario. Sembra dunque venir meno proprio quella «localizzazione» ( Ortung ) senza la quale, secondo Schmitt, non è possibile un ordinamento mondiale ( Ordnung ).
L’opera del giurista tedesco rischia di apparire una splendida archeologia, mentre il futuro del nomos della terra è diventato più che mai imperscrutabile. Coglie perfettamente nel segno, mi sembra, l’osservazione di Günter Maschke nell’epilogo della raccolta, che «la grandezza di Schmitt non sta nelle sue risposte, che mancano talora di forza di persuasione, bensì nelle sue domande e nel modo di porle — domande che non possono essere aggirate nemmeno quando non troviamo la risposta».
Corriere La Lettura 6.12.15
Novecento
Quattro cavalieri dell’Apocalisse incendiarono l’Europa intera
di Lorenzo Cremonini
Molto probabilmente se nell’Europa dei nostri giorni non si tornasse a parlare di guerra, il nuovo libro di Ian Kershaw non risulterebbe tanto interessante. Non sappiamo che fare di fronte alle stragi di Parigi; alle minacce che arrivano dai campi di battaglia in Iraq, Siria, Libia; al terrorismo. Ci illudevamo di essere vaccinati contro la guerra. Ma nell’arco di poco tempo siamo passati dal «mai più guerre» alle discussioni sulle opportunità dell’intervento militare contro l’Isis, alle misure eccezionali da prendere di fronte al pericolo attentati.
Sono così le cronache odierne che danno rilevanza a To Hell and Back («All’inferno e ritorno», Allen Lane). Una lunga disamina sull’«inferno» che investì il nostro continente nella prima metà del Novecento e preparò la sua rinascita dalle ceneri delle città devastate, delle campagne martoriate, dei milioni di morti, della sfida all’ultimo sangue di ideologie totalitarie tanto minacciose per le libertà dell’individuo quanto esiziali per i regimi democratici che si erano fatti strada nel secolo seguito alla fine delle guerre napoleoniche nel 1815.
È il primo di due libri pianificati sulla storia europea del Novecento da uno dei massimi studiosi della Germania hitleriana. In questa prima parte, tema dominante è la guerra. Anzi, due guerre, scoppiate a poco più di un ventennio una dall’altra. E accompagnate nell’intervallo dalla crescita di bolscevismo, fascismo e nazismo, che produssero la strage dei kulaki in Unione Sovietica, lo sterminio degli ebrei su scala industriale, la riduzione in schiavitù di popolazioni intere, il razzismo aggressivo della teoria dello «spazio vitale» e dell’idea di una «razza eletta» destinata a dominare il mondo. E tutto questo a fronte di politiche deboli e titubanti da parte delle democrazie liberali, non aiutate dal prevalere dell’isolazionismo americano sino all’attacco di Pearl Harbor e rese zoppe dall’illusione di poter evitare un nuovo massacro dopo la Grande guerra.
Quattro, secondo Kershaw, le ragioni che condussero alla «incommensurabile catastrofe», destinate ad agire da miscela detonante in quei decenni: 1) Una esplosione di nazionalismo etnico-razzista. 2) Amare e irreconciliabili richieste di revisione territoriale e di confini nazionali. 3) La crescita di acuti conflitti di classe amplificati dalla rivoluzione bolscevica. 4) Una diffusa e protratta crisi del capitalismo, che molti commentatori dell’epoca consideravano giunto ormai alla sua fase terminale. A suo dire, tuttavia, sebbene questi fattori stessero già montando all’inizio del Novecento, la Prima guerra mondiale (vera causa preparatoria della Seconda) non era affatto inevitabile. Non c’era nulla di deterministico nel meccanismo d’innesco del conflitto destinato a segnare l’Europa. E dunque, se le cancellerie europee fossero state più attente e consapevoli del pericolo nell’estate 1914, nelle tre settimane che seguirono all’attentato di Sarajevo, ci saremmo risparmiati i quasi settanta milioni di morti (quale è la somma approssimativa delle vittime delle due guerre, più le collaterali) oltre alle devastazioni incredibili di quegli anni.
Ciò detto, il dito accusatore di Kershaw punta prima di tutto sul militarismo trionfante a Berlino e Vienna. Ma non lesina critiche agli alleati occidentali. Gli accordi segreti tra Francia e Inghilterra nel 1906 avevano stravolto gli equilibri militari, tanto da causare gravi apprensioni tra gli alti comandi degli Imperi centrali. In particolare la Germania, decisa a sfidare la supremazia inglese, andava rassicurata. Così, se nel luglio 1914 Londra si fosse dichiarata neutrale, facilmente il Kaiser avrebbe impedito la mobilitazione anche nel caso la Russia avesse continuato la propria. Qualcosa del genere avvenne anche negli anni Trenta. Se le democrazie avessero reagito con durezza il 7 marzo 1936, quando Hitler sfidò gli accordi di Versailles inviando truppe nelle zone demilitarizzate lungo il Reno, sarebbe ancora stato possibile bloccare l’espansionismo tedesco. Ma ciò non fu. La Lega delle Nazioni dimostrò la sua impotenza. E il meccanismo del conflitto si mise in moto.
Il monito di Kershaw sta nella necessità di rileggere la storia, di ricordare la gravità delle conseguenze di scelte sbagliate, di valutazioni errate. Una lezione da non sottovalutare per gli europei. La pace, la coesistenza, la libertà, le frontiere aperte, la sicurezza economica, sono beni tanto impagabili quanto fragili, per nulla garantiti. Il loro permanere sta nelle scelte dei nostri governi. Intervenire può rivelarsi dannoso tanto quanto restare passivi. Decisioni affrettate possono avere ripercussioni gravissime e riverberarsi in modo letale per decenni. Ci sono momenti in cui il mestiere della politica diventa ancora più vitale del consueto.
Corriere La Lettura 6.12.15
I creazionisti rifanno l’Arca di Noè (e salpano all’assalto della scienza)
di Federica Colonna
Il prossimo 7 luglio l’arca di Noè (ri)aprirà. A Williamsburg, Kentucky, l’organizzazione Answers in Genesis («Risposte nella Genesi») ha deciso di costruire una replica dell’imbarcazione biblica rispettandone le dimensioni «reali», e poiché all’epoca l’unità di misura era il cubito, la distanza tra pollice e gomito, diversamente interpretata, non è stato facile, ammettono gli ideatori, scegliere a quale parametro fare riferimento.
I carpentieri — selezionati anche in base al credo religioso — sono al lavoro e l’imbarcazione sarà lunga 155 metri, larga 26, alta 15 e in grado di ospitare 10 mila persone per volta. Tre i piani interni occupati da centinaia di schermi su cui verrà raccontato nei dettagli il diluvio universale, decine di stalle per gli animali, riproduzioni dettagliate degli esseri viventi e delle piante salvati sull’arca. Mentre un posto speciale sarà dedicato a una rappresentazione animata al computer di Noè, con il compito di rispondere alle domande dei visitatori.
L’attrazione, costruita all’interno di un parco di tre chilometri quadrati per un costo di 92 milioni di dollari, è nata con un obiettivo preciso, dichiarato sul sito da Ken Ham, co-fondatore e portavoce di Answers in Genesis: «Mostrare al mondo il nostro punto di vista». Ovvero il creazionismo, l’idea secondo la quale l’Universo e l’umanità sono stati creati direttamente da Dio così come sono oggi e nella modalità descritta nei testi sacri. Per Ham, infatti — e, stando ai dati della società di ricerca Gallup, per circa quattro americani su dieci — la Bibbia è un testo da prendere alla lettera, all’interno del quale sarebbe descritta la scienza storica, fondata su avvenimenti accaduti e diversa da quella empirica, e fallace, basata invece sull’analisi dei fenomeni.
«Osserviamo le cose come sono oggi — ha dichiarato Ham — e assumiamo che siano state sempre così. Ma abbiamo un problema: noi, prima, non c’eravamo». Ergo: non possiamo dimostrare nulla. Per il fondatore di Answers in Genesis, quindi, l’arca non ha uno scopo religioso, bensì educativo. Nel parco non ci saranno predicatori, ma seminari e workshop pensati per le famiglie, oltre a ristoranti, negozi, merchandising a tema. Nel parco non ci sarà solo l’arca, che la prossima estate resterà aperta 40 giorni e 40 notti in memoria della durata del diluvio universale: per offrire un’esperienza «immersiva» della Bibbia, saranno costruiti anche una Torre di Babele, un villaggio dell’epoca e verrà rappresentata la vita di Abramo.
Il parco creazionista non è la prima attrazione del genere, a Washington Dc, per esempio, i proprietari della catena Hobby Lobby, già finanziatori di Ark Encounter, hanno aperto un museo dedicato alla Bibbia. Tuttavia, secondo Answers in Genesis, qualcosa nell’educazione religiosa degli americani è andato storto: non basta, infatti, spiegare l’Universo con i testi sacri per convertire gli studenti, come già fanno negli Stati Uniti istituti come il Responsive Education Solutions, con circa 65 campus, di cui 20 nati solo nell’ultimo anno in Texas. E se per il Pew Research Center ormai il 73% dei millennials crede più a Darwin che alla Genesi, una ragione, spiega Ham, c’è: i fondamentalisti cristiani non hanno sbagliato punto di vista. Ma stile. «Sono il primo — ha dichiarato — ad ammettere che molte attrazioni del mondo cristiano prima d’ora siano state di cattivo gusto, non all’altezza dell’obiettivo. Le persone oggi si aspettano la qualità degli Universal Studios e noi gliela stiamo per dare». Una promessa rivolta ai cuori dei credenti, ma anche alle tasche dei locali, perché, come ha spiegato Eric Summe, direttore del Visitor Bureau, «da queste parti la religione fa vendere».
Ark Encounter non solo darà lavoro a circa 900 impiegati, ma potrebbe fruttare molto e attivare un indotto notevole: il biglietto — o meglio, la carta di imbarco, come lo chiamano sul sito — costerà 40 dollari per gli adulti, 35 per i senior e 28 per i bambini. Solo per il primo anno sono attesi 1.800.000 visitatori, i quali probabilmente non faranno tappa esclusivamente qui. «A soli 45 minuti di auto — si legge su arkencounter.com — è possibile visitare il Creation Museum», altra opera di Answers in Genesis, frequentata ogni anno da 900 mila visitatori, costruita a Petersburg dagli stessi architetti dell’arca e con l’identico obiettivo: far vivere alle persone l’esperienza della Bibbia e così mostrare loro come è nato l’Universo. Dopotutto Ken Ham è considerato negli Usa una sorta di portavoce del creazionismo, tanto da aver verbalmente duellato in un dibattito al Creation Museum con Bill Nye, divulgatore scientifico, protagonista negli anni Novanta della serie tv The Science Guy . E se molti hanno criticato lo scienziato per aver legittimato, con la propria presenza, il punto di vista di Ham, per Answers in Genesis l’incontro è stato un successo: i biglietti per assistere in sala sono stati venduti in pochi minuti a 25 dollari in 29 Stati diversi, tre milioni di persone hanno seguito online la diretta streaming , e nei giorni successivi le donazioni per Ark Encounter hanno registrato un’impennata. Per molti osservatori, comunque, il vincitore è stato Nye, non solo per le posizioni espresse e condivise dalla comunità scientifica e accademica internazionale, ma anche perché ha tratto materiale pop per il suo ultimo libro, Undeniable: Evolution and the Science of Creation (St. Martin’s Press). «Se cresciamo una generazione di studenti che non crede nel processo scientifico — l’accusa di Nye — non saremo più capaci di progredire e di innovare».
Ma se sul ring si sono scontrati i due leader, Ham e Nye, chi sono i loro rispettivi tifosi? I ricercatori dell’Università del Kentucky hanno provato a scoprirlo e guidati dallo psicologo Will M. Gervais hanno somministrato a un campione di studenti due test: un questionario relativo alle convinzioni personali circa la nascita dell’universo e un problema logico. «In un lago — recitava la domanda — c’è un cespuglio di ninfee acquatiche. Ogni giorno il cespuglio raddoppia la propria dimensione. Se impiega 48 giorni per coprire l’intero lago, quanto tempo ci vuole affinché ne copra la metà?».
Chi propende per uno stile cognitivo analitico risponde correttamente: 47 giorni. Alcuni studenti hanno invece indicato 24, scelta errata, falsamente intuitiva. Prediletta da chi ragiona «di pancia»: secondo i ricercatori, i creazionisti. Dai test, infatti, sarebbe emersa una correlazione tra fiducia nel proprio intuito e predilezione per una precisa visione del creato. In altre parole: il pensiero analitico sarebbe più spesso presente in chi crede alla teoria dell’evoluzione, mentre chi risponde di getto ha più feeling con Ham. Insomma, i creazionisti, favoriti dall’istinto, avrebbero un certo vantaggio cognitivo. Ma sbaglierebbero. Con buona pace di Answers in Genesis, che avrebbe comunque il merito — o la colpa? — di trasformare la religione in un’esperienza divertente.
Corriere La Lettura 5.12.15
L’abuso della matematica
I modelli che funzionano bene nel campo della fisica mostrano gravi limiti se applicati alle scienze sociali
Non possono dirci che cosa succederò nell’economia
di Michele Emmer
Olivier Peyon ha realizzato nel 2013 un documentario dal titolo Comment j’ai détesté les maths . In realtà il film vuole essere un elogio dei matematici, della loro vita di ricercatori, della loro passione. Alla fine del film intervengono due matematici che si sono occupati di economia, George Papanicolaou, greco, e Jim Simons, che, dopo una brillante carriera scientifica, è diventato un ricco uomo d’affari creando il fondo speculativo Renaissance Technologies. Parla della matematica economica e dei dannati algoritmi che hanno mandato in rovina l’economia globale, rendendo lui miliardario con le speculazioni sulla finanza virtuale. Per Papanicolaou gli algoritmi matematici di Simons non erano stati testati a sufficienza. Nessuno sapeva in che modo avrebbero reagito in situazioni di emergenza. Insomma, ci si può fidare della matematica?
Di matematica, matematica applicata e modelli matematici parla il libro di Giorgio Israel Meccanicismo (Zanichelli), pubblicato poco dopo la morte dell’autore. Nel film di Peyon, Cedric Villani, direttore dell’Institut Poincaré di Parigi, afferma che la separazione tra matematica e matematica applicata è superata. Frasi tipo quelle di G. H. Hardy, scritte nel 1940 per elogiare la matematica inutile, oggi non hanno senso. Hardy non sapeva che a Bletchley Park, matematici, fisici, ingegneri stavano lavorando alla decriptazione del codice nazista Enigma, usato in guerra per rendere incomprensibili i messaggi. Tra quei matematici Alan Turing, alla cui vita è dedicato il film Imitation Game , Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.
Uno dei problemi centrali del libro di Israel è la questione della applicabilità di modelli e metodi matematici nelle discipline non strettamente matematiche e fisiche, in particolare all’economia e alle scienze sociali. Il capitolo «Oltre il mondo inanimato» si apre con una frase del matematico dell’Ottocento Augustin Cauchy: «Coltiviamo con ardore le scienze matematiche, senza volerle ostentare al di là del loro dominio; non illudiamoci che si possa affrontare la storia con delle formule, né sanzionare la morale con dei teoremi o del calcolo integrale». Israel parte da Galileo, dall’«idea che la struttura su cui Dio ha edificato il mondo è la matematica». Ma in nessun modo si può pensare che Galileo «includesse nel “mondo” anche la sfera dell’uomo, della soggettività, del pensiero». Poi abbiamo i tentativi di trovare un equo sistema elettorale del matematico Condorcet, alla vigilia della Rivoluzione francese, e i modelli per lo studio della diffusione del vaiolo alla metà del Settecento da parte di Daniel Bernoulli, con l’introduzione del calcolo delle probabilità. Il primo modello matematico per l’economia è di Dupont de Nemours alla fine del Settecento: «L’aspetto più interessante da evidenziare — scrive Israel — è l’importanza attribuita alla nozione di equilibrio, che testimonia l’influsso della mentalità fisico-matematica, del modello della meccanica, e di un indirizzo che la matematizzazione dell’economia, e più in generale delle scienze sociali, sta prendendo».
Agli inizi del Novecento la svolta, con i modelli per la dinamica delle popolazioni, l’epidemiologia matematica. Ed ecco la motivazione di Israel: «Conosciamo bene la versione più famosa e influente del riduzionismo, la concezione epistemologica che tende a formulare i concetti e il linguaggio di una teoria scientifica nei termini di una teoria considerata fondamentale. È l’argomento centrale di questo libro: il meccanicismo, che consiste nel ritenere che tutti i fenomeni si riducono a fenomeni di moto, per cui il fine fondamentale della scienza è ricondurre ogni forma di conoscenza alla meccanica». Ed è questa la malattia di fondo delle teorie matematiche utilizzate in ambiti non matematici e fisici.
Il matematico von Neumann nel 1932 scrive: «Le scienze non cercano di spiegare, a malapena tentano di interpretare, ma fanno soprattutto modelli. Per modello si intende un costrutto matematico che, con l’aggiunta di interpretazioni verbali, descrive dei fenomeni osservati. La giustificazione è soltanto e precisamente che funzioni, descriva correttamente i fenomeni in un’area abbastanza ampia, e soddisfi dei criteri estetici, cioè deve essere piuttosto semplice». Nei modelli biologici, a partire dalla dinamica delle popolazioni, via via che la complessità del sistema aumenta, non si ha un aumento di stabilità bensì del suo contrario. Si trattava quindi di mettere in discussione i modelli matematici, cosa che, sottolinea Israel, non è mai stata lontanamente considerata. Tanto che nel 1976 i matematici Oster e Guckenheimer osservano: «Vi sono persone che affermano che non esiste un solo progresso nel campo della biologia che possa essere attribuito alle teorie matematiche. Quando entrano in gioco i sistemi complessi, il linguaggio appropriato è l’inglese, non quello matematico». Alla luce delle ricerche recenti, ricorda Israel, «l’espansione della modellistica matematica in ambito biologico è diventata talmente frammentata da distruggere persino la possibilità di un confronto e sintesi tra le miriadi di modelli… malgrado alcune marginali differenze, si dimostra il ruolo centrale dell’analogia meccanica nel processo di fondazione dei più importanti settori della biologia matematica».
I successi predittivi della matematica in fisica non garantiscono analoghi successi in ambiti di natura ben diversa. Il tutto si complica ulteriormente quando si passa ai rapporti sociali ed economici. Entrano in gioco modelli teorici di matrice fortemente ideologica, come nel caso della teoria dell’equilibrio economico generale, i cui paradigmi fondazionali sono: dimostrare che l’equilibrio economico esiste, che tale equilibrio è unico, che il mercato possiede la virtù salvifica di realizzare tale equilibrio, purché non si introducano vincoli e legacci e l’azione dei singoli soggetti economici possa esplicarsi in piena libertà. Un paragrafo è dedicato alla scienza della complessità. «Il concetto di complessità — osserva Israel — continua a vagare in un limbo situato tra ontologia ed epistemologia. L’aspirazione a definirlo come una proprietà del mondo reale si scontra con la vaghezza delle definizioni di carattere empirico… D’altra parte ogni sua caduta nella sfera puramente epistemologica fa di esso una versione disillusa e pessimista del concetto di complicazione».
Le conclusioni di Israel: «La modellizzazione nell’ambito dei contesti non fisici non ha mai raggiunto neanche lontanamente l’ombra della precisione che ha raggiunto in gran parte dei contesti fisici… confrontare il grado di precisione che è possibile ottenere nel contesto dei fenomeni meccanici propriamente detti con quello sociale è desolante; nessun modello matematico è in grado di dire, neppure con un grado di approssimazione generoso, che cosa accadrà domani all’economia».
Un esempio è la valutazione della attività scientifica dei ricercatori mediante indicatori «oggettivi», che tendono a sostituire l’esame della qualità dei risultati. L’International Mathemathical Union ha osservato che si sta creando una cultura dei numeri per cui le istituzioni e gli individui credono che si possano ottenere decisioni eque mediante valutazioni algoritmiche e alcuni dati statistici. Non è certamente un caso che tale mitologia faccia presa su coloro che meno capiscono di numeri e scienza. Nell’ultimo capitolo si parla delle due culture, dello stretto legame tra letteratura, narrazione e matematica. Classico esempio la questione dell’infinito.
Nell’ Eloge des Mathématiques (2015) il filosofo francese Alain Badiou, invitando i filosofi a studiare la matematica moderna, scrive: «La matematica è la più convincente delle invenzioni umane per esercitarsi a quello che è la chiave sia di tutto il progresso collettivo comune che della felicità individuale: dimenticare i nostri limiti per arrivare all’universalità del vero». Dobbiamo ancora inventare e creare tanta matematica per affrontare le grandi questioni del nostro mondo, non solo nel senso di Galileo. Fortunatamente.
Il Sole Domenica 6.12.15
Cannibalismo in Occidente
Di là dalla rappresentazione dantesca del conte Ugolino capitava davvero agli uomini e alle donne del Medioevo di consumare carne umana, agli scopi più vari. Come documenta ora un brillante saggio storico
di Sergio Luzzatto
«Conferisce alle emicranie, al mal caduco, ed alle vertigini, tirandola su per il naso insieme ad acqua di maggiorana». «Vale al dolore dell’orecchie», al mal di gola, alla tosse, «alle passioni del cuore» e alle «ventosità del corpo». «Giova» contro «li veleni mortiferi» e «le punture degli scorpioni». «Stringe la mummia, applicata di fuori, i flussi del sangue; e bevuta, quando esce il sangue dell’interiora». Ecco un elenco (neppure completo) dei prodigiosi benefici terapeutici che garantisce questa «mummia». Cioè, nel gergo farmacologico del Cinquecento, il «liquamento d’uomini»: il succo di cadavere. Ma anche – in un’accezione allora sempre più corrente – la polvere di cadavere: la carne umana essiccata.
È quanto si legge in un’opera di medicina pubblicata nel 1544 da Pietro Andrea Mattioli, gentiluomo senese emigrato a Trento, destinato a brillante carriera quale medico di fiducia degli Asburgo alla corte di Praga. Ed è quanto si ritrova in un libro a sua volta brillante, quello che una giovane studiosa di storia medievale, Angelica Montanari, ha dantescamente intitolato Il fiero pasto: un saggio (spiega il sottotitolo) sulle Antropofagie medievali.
Decidendo di abbordare fuor di metafora il tema storico del cannibalismo in Occidente, Montanari ha interrogato le fonti per rispondere a una domanda urticante. Di là da rappresentazioni letterarie come quella del conte Ugolino nella Commedia, capitava davvero agli uomini e alle donne del Medioevo di consumare, sotto l’una o l’altra forma, carne umana?
Sono trascorsi una decina d’anni da quando un medievista italiano di fama internazionale, Ariel Toaff, suscitò lo scandalo di una storiografia benpensante con il libro Pasque di sangue. Dove, a partire da un caso di infanticidio occorso proprio a Trento nel 1475, si suggeriva che alcuni ebrei fondamentalisti di osservanza ashkenazita avessero veramente compiuto, nell’Europa del tardo Medioevo, sacrifici umani a scopo rituale. E che avessero impiegato sangue in polvere, umano oltreché animale, a scopo terapeutico: secondo i dettami di una Kabbalah pratica che sfidava l’interdetto biblico di ingerire sangue. Oggi Angelica Montanari ritorna sul tema dell’antropofagia rituale, ma guardando – più che al mondo ebraico – al mondo cristiano.
Tema tabù, il cannibalismo ha lasciato scarse tracce negli archivi giudiziari. Ma ne ha lasciate in abbondanza tra le fonti normative, le cronache cittadine, i memoriali di viaggio, le farmacopee, i testi agiografici e teologici, i penitenziali, le fonti letterarie e iconografiche. Sulla scorta di tale documentazione, l’autrice del Fiero pasto ritiene plausibile che alcuni episodi di antropofagia forzosa (per così dire) abbiano effettivamente avuto luogo nell’Occidente medievale, in coincidenza con prolungati periodi di carestia: letteralmente, per i morsi della fame. Meglio documentati risultano certi episodi di antropofagia rituale durante le insorgenze urbane: in particolare nell’Italia centro-settentrionale, fra Trecento e Cinquecento, successe ai più fanatici di addentare, di masticare, di ingoiare il corpo del nemico ucciso. Quanto all’antropofagia terapeutica, Montanari non ha dubbi: i trattati medici e farmacologici attestano quale procedura diffusa l’ingestione di preparati a base di membra, di fluidi, di secrezioni umane.
Se torniamo a far parlare il dottor Mattioli, possiamo misurare fino a che punto il retrobottega di uno speziale del primo Cinquecento dovesse somigliare a un’officina per il trattamento dei cadaveri, la bollitura e l’essicamento delle carni, la polverizzazione delle ossa, l’estrazione dei grassi. In effetti, «vera mummia» non era la carne secca e grossolanamente triturata che veniva spacciata in giro da ciarlatani senza scrupoli. Per produrre il meraviglioso rimedio – spiegava il futuro medico degli Asburgo – bisognava riempire i «corpi christiani» di una giusta «mistura d’aloe, mirrha e zaffarano», e «al congruo tempo torla poi fuori»: «perciocché (secondo che scrivono gli Arabi) ha la mummia assaissima virtù».
Non che tutti i medici del Cinquecento la pensassero come Pietro Andrea Mattioli. Via via nel corso del secolo, e tanto più quando la dissezione anatomica divenne pratica corrente, si alzarono voci come quella di Ambroise Paré, medico alla corte dei re di Francia. Il quale, a forza di assistere come chirurgo le truppe francesi in battaglia e di guardare dentro i cadaveri dei soldati uccisi, si risolse a denunciare pubblicamente la totale inefficacia terapeutica della carne umana, in succo o in polvere che questa fosse. «I corpi mummificati in Francia sono altrettanto buoni di quelli d’Egitto, poiché entrambi non valgono nulla». Anziché come «buona droga», venduta dai farmacisti a prezzi da capogiro, la «mummia» andava tutt’al più smerciata ai pescatori, affinché il suo odore putrescente valesse da esca per i pesci.
Ma il Discorso sulla mummia di Paré non venne pubblicato che nel 1582. Prima (almeno dal XIV secolo, e ben dentro il XVI) tutto un mondo di medici e di speziali, di intermediari ebrei e di trafficanti cristiani, di imprenditori di santità e di contrabbandieri di reliquie, si era impegnato nella preparazione e nel commercio di carne umana. Ci aveva forse speculato, profittando della credulità popolare. O aveva forse cercato di mettere insieme, più o meno consapevolmente, forme di rielaborazione collettiva di quello che nella tradizione occidentale è il pasto rituale per eccellenza: il banchetto eucaristico. La salvifica assunzione, attraverso l’ostia consacrata, del Corpo glorioso.
Non per caso – nota Angelica Montanari – l’accusa di celebrare eucarestie sacrileghe, con ostie impastate di sangue umano, sostenne dal Duecento in poi le campagne cristiane contro gli eretici: la persecuzione e la repressione dei catari, dei manichei, dei valdesi. La stessa «accusa del sangue», l’imputazione fatta agli ebrei di compiere riti a sfondo cannibalico, si fondò sull’incubo di un rovesciamento sacrilego della Pasqua cristiana. E anche lo stereotipo inquisitoriale del sabba venne costruito sopra l’accusa fatta alle streghe di uccidere bambini per ricavarne roba «commestibile e potabile». Tanto il sistema di pensiero dell’Occidente medievale si trovava a ruotare – metaforicamente, ma non solo – intorno al corpo di Cristo. E gli uomi ni e le donne del tardo Medioevo sentivano il bisogno, nel bene come nel male, di materia almeno altrettanto che di figura. Di carne e di sangue, almeno altrettanto che di ostia e di vino.
Angelica M. Montanari, Il fiero pasto. Antropofagie medievali , il Mulino, Bologna, pagg. 238, € 22,00.
Il Sole Domenica 6.12.15
Comte e la religione dell’umanità
La casa del filosofo ora è aperta al pubblico. La sua fede senza divinità è oggi rivalutata da scrittori come Houellebecq
Al terzo piano di un antico edificio, al 10 di rue Monsieur-le-Prince, nel cuore di Parigi, si entra nell’appartamento di Auguste Comte offuscati da qualche lontana reminiscenza liceale sul filosofo del positivismo: così prosaico nell’immaginario collettivo, l’esaltatore della scienza. Chissà, forse un uomo con i piedi ben saldi a terra, “positivo”, proiettato sull’avvenire. Si esce da quelle stanze dall’atmosfera rarefatta, dove aleggiano feticismo e malinconia, con la sensazione di un’esistenza fragile, sofferta, poetica, instabile. Sorprendentemente mistica.
Non solo: più di due secoli fa, Comte aveva già affrontato il dilemma della Francia degli ultimi anni (tanto più pressante dopo gli attentati), se si possa vivere solo di laicismo o se una religione sia alla fine necessaria per strutturare una società. Il pensatore ottocentesco le sue risposte le dette. Diventò il «pontefice» (come lo chiamavano i suoi discepoli) di «una religione senza divinità e trascendenze», ricorda Jean-François Braunstein, docente alla facoltà di Filosofia della Sorbona, uno dei più grandi specialisti del padre del positivismo.
«Quando morì, nel 1857, l’entourage di Comte, che considerava queste stanze come una sorta di santuario – continua Braunstein -, ricomprarono l’appartamento, che il filosofo affittava, con i soldi che loro gli davano: lui non aveva un quattrino». Quel cenacolo di fedeli lasciò tutto intatto. L’appartamento è stato riaperto al pubblico pochi mesi fa, dopo un restauro per niente invasivo. Alcuni vengono a visitarlo proprio per ammirare l’ultimo appartamento privato parigino del XIX secolo, rimasto tale e quale, con la carta da parati blu-grigia e tonalità sobrie che primeggiano ovunque. Poi ci sono molti turisti dal Brasile, che agli albori della sua Repubblica, nel 1889, fu influenzato dal modernismo di Comte. “Ordine e progresso”, il motto della bandiera del Paese sudamericano, è del filosofo. «Aveva fiducia nella scienza, a suo modo rivoluzionaria – aggiunge Braunstein -. Ma la rivoluzione non doveva degenerare: ci voleva ordine. Comte era un conservatore non retrogrado».
Altri frequentatori assidui dell’appartamento sono i lettori più appassionati di Michel Houellebecq. Che ha citato Comte in tutti i suoi romanzi (a parte l’ultimo, Sottomissione) e che non perde occasione per professarsi «comtiano convinto». Il filosofo trascorse la prima parte della sua vita a elaborare la legge dei tre stadi (l’ultimo era quello positivo, liberazione definitiva da qualsiasi inutile metafisica). Ma in seguito, soprattutto dopo che venne a vivere in rue Monsieur-le-Prince, concepì una «religione dell’umanità». «Riteneva che la scienza da sola non fosse sufficiente a tenere insieme una società – osserva Braunstein -, ma che ci volesse una religione, ma senza il soprannaturale, né dogmi. Dalla struttura leggera. In questo senso apprezzava l’islam, che giudicava semplice dal punta di vista teorico, trampolino ideale verso una religione positivista».
Per Michel Djerzinski, protagonista del romanzo Le particelle elementari, Comte fu l’unico a capire che «la religione è un’attività puramente sociale, basata sulla fissazione di riti, di regole e di cerimonie». Al pari di Houellebecq, anche Régis Debray e altri pensatori della Parigi di oggi (classificati come néo-réacs, neo-reazionari), hanno riscoperto il Comte «religioso». E dire che alla fine dell’Ottocento, il filosofo fu un riferimento per Jules Ferry, il fondatore della scuola pubblica in Francia, o per lo statista Georges Clemenceau, che nel positivismo trovarono le radici di una certa Francia repubblicana, laica e razionale. Senza contare che l’anticolonialismo di Comte (fu tra i rari intellettuali a opporsi all’occupazione dell’Algeria) o le sue critiche al razzismo lo hanno fatto apprezzare anche dalla sinistra.
Complesso Auguste Comte, anche contraddittorio. Arrivò in rue Monsieur-le-Prince nel 1841. Caroline Massin, sua moglie, vi rimase solo fino all’anno dopo. Poi si separarono. Comte l’aveva conosciuta nel 1821, alle Tuileries, di notte: era una prostituta. Auguste e Caroline, donna intelligentissima e dallo spirito indipendente, battagliarono per vent’anni. Una volta lui cercò addirittura di ucciderla. «Ho raccontato ad alcuni psichiatri i dettagli della sua vita – sottolinea Braunstein -. Hanno detto che probabilmente Comte era bipolare». Nel 1844 conobbe a una cena Clotilde de Vaux, separata dal marito, che tirava su i figli scrivendo novelle per le riviste. Fu amore a prima vista, almeno per lui. Ma restò una relazione platonica.
Lei morì l’anno dopo, di tubercolosi. Andava spesso nell’appartamento del filosofo. Ancora oggi, nel salotto, c’è la poltroncina imbottita dove sedeva e il suo ritratto (angelico) sopra. Nella camera da letto, invece, un mazzo di fiori in tessuto che un giorno Clotilde gli portò in dono. Dopo la morte, diventò una delle divinità della «religione dell’umanità». Negli ultimi anni della sua vita Comte, sempre più sacerdotale, cercò di ridurre vino, sesso. E anche il cibo, come testimonia una vecchia bilancia per pesare gli alimenti, nella sala da pranzo.
Un dipinto che ritrae Clotilde è visibile pure sull’altare della Cappella dell’umanità, tempio positivista. Comte ne aveva disegnato la planimetria e scelto le decorazioni. Ma fu costruito solo dopo la sua morte, agli inizi del Novecento, quando un pugno di seguaci brasiliani sbarcò in nave a Marsiglia, la valigia piena di lingotti d’oro. Ci comprarono la casa dove Clotilde aveva abitato a Parigi, al 5 di rue Payenne, nel quartiere del Marais, per trasformarla in tempio, quello che Comte aveva immaginato. Sulle pareti sono raffigurati una serie di saggi del passato, che secondo il filosofo bisognava venerare, perché «i morti governano i vivi». Sopra il ritratto di Clotilde, di bianco vestita, con una bambina tra le braccia, svetta una frase in italiano: “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. Per Comte l’italiano era l’idioma dell’amore. Leggeva Petrarca e Dante. Quella lingua, anche attraverso l’opera, che adorava (Donizzetti, in particolare), portava un briciolo di serenità nell’esistenza di un uomo travagliato. Alla fine, per niente positivo.
Il Sole Domenica 6.12.15
Scienza e filosofia
Socrate sempre fuori luogo
L’indagine di Maria Michela Sassi
di Gianluca Briguglia
La sua stranezza colpì i suoi contemporanei molto profondamente e spiega anche perché decise di non sottrarsi alla condanna a morte
Socrate è senza dubbio, tra i grandi personaggi della tradizione del pensiero occidentale, una delle figure più misteriose e affascinanti. La atopia di Socrate, come la definisce Alcibiade nel Simposio di Platone, cioè quella sua stranezza percepita da tutti come un essere fuori posto (a-topos), o privo di luogo, o forse semplicemente come un essere fuori dal comune, non solo ha colpito i suoi contemporanei e influenzato in modo decisivo il corso della filosofia successiva (non è un caso che oltre a Platone, suo allievo diretto, all’insegnamento di Socrate si siano variamente richiamate scuole filosofiche di orientamento molto diverso, dai Cinici alla scuola Megarica e Cirenaica), ma è testimoniata in fondo anche in quella decisione quasi incomprensibile di non sottrarsi alla condanna a morte. E certo la morte di Socrate rappresenta una specie di cesura mitica, il segno fondatore di un distacco sempre possibile e presupposto tra la città e la filosofia. Il fascino e il mistero dell’individuo atopos sono poi nutriti da un altro elemento essenziale, come tutti sanno, cioè la decisione di non scrivere nulla, di affidare solo alla parola vivente, alla relazione dialogica con gli interlocutori, la propria azione filosofica. Ogni tentativo di ricostruzione del pensiero e dell’individualità di Socrate deve dunque passare attraverso le testimonianze, per nulla univoche o neutre, degli scritti di chi fu variamente a contatto con lui.
Maria Michela Sassi, nella sua godibile e vivace Indagine su Socrate, è interessata al Socrate persona, filosofo e cittadino. Il metodo usato è proprio quello di un’indagine, che deve districarsi tra documenti disponibili e noti, tra tracce indirette, indizi, e che deve saper leggere anche tra le righe, sempre indicando le poste in gioco di determinate letture. L’autrice costruisce dunque la sua indagine su alcuni nuclei di investigazione capaci di restituire il senso della personalità e dell’azione di Socrate. Un bell’esempio è dato dal capitolo sulla sua “eccezione fisiognomica”. Socrate non solo è visto come un tipo bizzarro, ma è anche brutto. Proprio all’apice di una cultura, quella ateniese, che si rappresenta come amante della bellezza e che lega indissolubilmente il bello al buono, Socrate spiazza per il suo stesso aspetto, che contesta quell’ideologia dominante pacificatrice e certamente disloca il tema della bellezza ad un altro livello. Del resto questa riproblematizzazione della bellezza non sfugge ai suoi contemporanei. La persona di Socrate viene paragonata sia alle statuine dei Sileni, che sono esteriormente brutte, ma che possono essere aperte e hanno al loro interno immagini divine, sia al satiro Marsia, addirittura ripugnante, ma letteralmente capace di incantare le persone.
D’altra parte questo “incanto” socratico poteva suscitare anche reazioni di diverso segno. Sassi riprende in esame anche la testimonianza di Aristofane, che nelle Nuvole fa di Socrate, ancora vivente, la caricatura dell’intellettuale strambo e forse pericoloso. Socrate è tratteggiato come un astuto caposcuola che insegna dietro compenso e che stupisce per i suoi insegnamenti oziosi e a volte violenti e contro la morale. Si tratta naturalmente di un’opera comica, ma rappresenta la perplessità di una parte dell’opinione pubblica di Atene di fronte allo spiazzamento socratico e forse non sarà priva di effetti se molti anni dopo, durante il processo, Socrate ricorderà, secondo Platone, come proprio con quella commedia fossero cominciate le gravi calunnie nei suoi confronti.
Indagando dunque una serie di dossier particolari, Sassi ha il merito di condurre il lettore al nucleo del pensiero di Socrate, per esempio il rapporto fin troppo rigido tra conoscenza, virtù e felicità, ma mostrando anche alcuni punti di tensione del suo metodo (come forse nel rapporto raté con Alcibiade). Il risultato è un Socrate certo sempre mediato e misterioso, ma concreto, proprio come quello del processo, che l’autrice depura di alcuni elementi troppo platonici, un Socrate che forse davvero sbaglia linea di difesa, con la megalegoria del suo parlare, cioè con un atteggiamento troppo grande, da vanteria, riconosciuto da tutti, che gli aliena il favore della giuria, o forse davvero un Socrate che decide che la difesa di tutta una vita non può che consistere in un’estrema testimonianza di sé e del proprio ruolo, fino all’accettazione di una condanna a morte.
Maria Michela Sassi, Indagine su Socrate. Persona, filosofo cittadino , Einaudi, Torino, pagg. 242, € 23,00
Il Sole Domenica 6.12.15
Cervello e linguaggio
Comunicare senza parole
di Arnaldo Benini
Guardando la comunicazione gestuale fra non udenti, ci si chiede come possano trasmettere con gesti e mimiche idee, propositi, stati d’animo, racconti, antipatie e simpatie, ironie, rabbuffi, consensi e rimproveri. Gli udenti comunicano con articolazioni vocali, i non udenti con movimenti di braccia, tronco, faccia, bocca (specie il labbro superiore), che entrano nei meccanismi percettivi come stimolazioni visive. La comunicazione gestuale è un sistema strutturato con vocabolario e grammatica, che, come il linguaggio, è basato su sintassi, semantica e fonologia. I non udenti danno un accento ai gesti che usano. La comunicazione gestuale è acquisita gradualmente e cambia nel tempo, come il linguaggio, ed è diversa a seconda dell’area linguistica. Non udenti di Stati Uniti e d’Inghilterra, ad esempio, non si capiscono. Le neuroscienze cognitive studiano questa comunicazione non solo per l’importanza sociale, ma perché contribuisce alla conoscenza di varie aree cerebrali corticali e sottocorticali e delle loro connessioni. Le indagini sulla comunicazione gestuale confermano che le aree cerebrali del linguaggio (come anche, ad esempio, quelle primarie della visione) sono più estese, variabili e flessibili di quanto si pensasse. Resta da chiarire quanto ciò dipenda da strutture e ultrastutture intrinseche alle aree e quanto da connessioni con aree lontane, nel senso della diaschisi (Cfr.IlSole24Ore 21.12.2014). Le visualizzazioni cerebrali (fondamentali in questi studi) mostrano che in coloro che comunicano con gesti, e solo nei non udenti che li vedono, sono attive le stesse aree sopra, sotto e dietro la fessura di Silvio dell’emisfero cerebrale sinistro, dove viene creato e capito il linguaggio parlato. Attivi nella comunicazione gestuale sono l’opercolo frontale e temporale, le aree frontali e prefrontali e il cervelletto, come nel linguaggio parlato. Il giro fusiforme, che riconosce i volti, è particolarmente attivo quando i gesti si riferiscono a verbi, le aree motorie per verbi di movimento. Più attivi che nel linguaggio parlato sono i lobi parietali, verosimilmente perché la comunicazione gestuale avviene nello spazio, di cui i lobi parietali sono i terminali cerebrali. La comunicazione gestuale è prodotta da una vasta attivazione corticale e sottocorticale, in parte comune al linguaggio parlato. A ciò si deve la sua ricchezza, varietà, duttilità, capacità e forza esplicative. Nel linguaggio gestuale una mano, di regola la destra, è dominante, e, se necessario, è usata l’altra. In entrambi i casi sono attive le aree linguistiche dell'emisfero sinistro. Un ictus nell’emisfero cerebrale sinistro del non udente può compromettere o rendere impossibile la comunicazione gestuale, come avviene col linguaggio parlato in caso di afasia. Gli udenti accompagnano e sottolineano quel che dicono con gesti. Si motteggia che alcuni popoli parlano più con le mani che con la bocca. A. Newmann dell’Università di Halifax in Canada e collaboratori in varie università negli Stati Uniti e in Europa, si sono chiesti quale sia il rapporto fra la gestualità dei non udenti, per i quali essa è l’unica comunicazione, e quella con la quale gli udenti sottolineano quel che dicono, specie quando parlano di movimenti. L’analogia è apparente: nei non udenti, nei gesti senza significato linguistico, sono attive, oltre a quelle dei movimenti, le aree linguistiche dell’emisfero sinistro, anche se meno intensamente dei gesti con significato linguistico. La pratica della comunicazione gestuale porta i non udenti a dare un significato linguistico anche a gesti superflui. Negli udenti sono attive solo le aree dei movimenti in chi parla e della loro percezione in chi ascolta e vede, ma non le aree linguistiche. Esiste un vasto meccanismo nervoso linguistico che, se non può esprimersi con lingua, labbra e voce, lo può con i gesti. I cervelli possono comunicare anche senza parole.
A. J. Newman, T. Supalla, et al. Neural systems supporting structure, linguistic experience, and symbolic communication in sign language and gesture, PNAS 2015
Il Sole Domenica 6.12.15
Storia dei Giubilei/1
Da Bonifacio a Francesco
di Tullio Gregory
Alberto Melloni traccia la storia degli anni giubilari dal 1300 fino all’epoca attuale. Un’istituzione nata per lucrare indulgenze diventa oggi testimonianza di misericordia
Con questo volume, di grande leggibilità ma frutto di una lunga esperienza di storico del cristianesimo, Alberto Melloni non intende offrire una tradizionale e vulgata storia degli anni santi, o giubilari, ma dare il senso che essi assumono nella cristianità occidentale, dal primo indetto da Bonifacio VIII nel 1300 fino all’attuale – straordinario – che, voluto da Papa Francesco, inizia in questo oscuro dicembre 2015.
Nato come indulgenza plenaria concessa dal papa ai fedeli che compissero un pellegrinaggio a Roma praticando alcuni atti penitenziali, il primo anno santo – non ancora chiamato così, né giubileo - ereditava la pratica delle indulgenze plenarie di cui il papato aveva fatto largo uso soprattutto per i crociati e quanti combattessero eretici o nemici della Chiesa di Roma; anno di perdono, non senza risvolti politici dato che Bonifacio VIII ne escludeva i suoi avversari, i Colonna e i siciliani ribelli alla Chiesa. Papa Caetani – Bonifacio – prevedeva una cadenza secolare, diventata subito cinquantennale (il secondo fu nel 1350) poi venticinquennale da fine Quattrocento.
Melloni, nel delineare i mutamenti che nel volgere dei secoli assume la pratica penitenziale e politica della periodica indizione degli anni santi (ordinari e straordinari) insiste sul carattere che essi hanno conservato nel tempo, legati sempre alla riaffermazione della centralità di Roma, del pontefice e mette in evidenza come la pratica e la “tecnica” delle indulgenze (lucrabili dai tempi di Bonifacio anche con donazioni in denaro) si ponga al centro di controversie e dibattiti in seno alla cristianità, fino a provocare la definitiva frattura dell’unità cristiana medievale con la ribellione di Lutero che, proprio sul tema delle indulgenze, dell’anno giubilare, del valore salvifico dei pellegrinaggi e del culto dei santi, condurrà la sua più dura polemica con la Chiesa di Roma.
Anche se il Concilio di Trento cercherà di fissare una prassi delle indulgenze e combatterne il commercio, restava centrale il potere del pontefice nella remissione delle pene con la gestione delle indulgenze e soprattutto – come verrà confermato dalla storia dei successivi anni santi – se ne ribadiva il valore tanto con cerimonie spettacolari in occasione dell’anno giubilare, quanto con prese di posizione dottrinali contro i nemici del momento: così fino al 1950, quando, nel corso dell’anno santo, Pio XII condannava con l’enciclica Humani generis i movimenti di rinnovamento teologico che animavano allora il cattolicesimo, soprattutto francese.
Poi l’epocale svolta imposta dal Vaticano II, che Giuseppe Alberigo individuava già nel discorso di Giovanni XXIII in apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962, dove alla tradizionale «medicina della severità», praticata dalla Chiesa con le «armi della severità», si opponeva la «medicina della misericordia», e il magistero ecclesiastico riscopriva il suo carattere essenzialmente pastorale, rinunciando al metodo della condanna e degli anatemi.
Non a caso Papa Francesco ha indetto questo giubileo nel cinquantesimo anno della conclusione del Vaticano II del quale ha con forza ripreso e sviluppato «i principi di sinodalità, di povertà, di pace, di unità,di riforma della chiesa e del papato», come scrive Melloni. Giubileo dunque del Concilio con il quale, ha detto Papa Francesco, la chiesa deve «rendere più evidente la sua missione di essere testimone della misericordia», così da «riscoprire e rendere feconda la misericordia di Dio». Le stesse indulgenze – come computo ragionieristico in termini di giorni o di anni che si possono “lucrare” per vivi e defunti - scompaiono rispetto al primato del perdono che è solo di Dio. Anche la Porta Santa in San Pietro, la cui apertura è simbolo dell’inizio dell’anno giubilare, diviene, nel linguaggio del pontefice, «Porta della misericordia».
«Che in questo contesto - conclude Melloni - Papa Francesco abbia posto l’indulgenza in mano a Dio e solo a Lui, che abbia fatto della comunione la chiave della ministratio di quest’annuncio di perdono ha un peso di cui è difficile sottovalutare la portata».
Alberto Melloni, Il giubileo. Una storia , Editori Laterza, Roma-Bari, pagg.138, € 15,00
Il Sole Domenica 6.12.15
La grande guerra
Della varia neutralità socialista
di Giuseppe Bedeschi
Una volta scoppiata la Grande Guerra, la maggior parte dei partiti socialisti europei non la considerarono più come un tabù e si mostrarono sensibili all’idea della “guerra giusta”, incentrata cioè sul principio patriottico della difesa territoriale e civile. Il 4 agosto i socialdemocratici tedeschi votarono nel Reichstag a favore dei crediti di guerra. Il 28 agosto i socialisti francesi assunsero un atteggiamento analogo, al grido «pour la patrie, pour la republique, pour l’Internationale». I socialisti italiani, invece, si dichiararono per la «neutralità assoluta», ma, come ci ricorda Maurizio Degl’Innocenti nel suo ultimo libro (La patria divisa. Socialismo, nazione e guerra mondiale), l’atteggiamento dei dirigenti socialisti fu meno monolitico di quanto si creda, e non mancarono i distinguo.
È assai significativo quello che accadde a Torino, dove alcuni giovani, già intensamente impegnati nell’attività socialista, assunsero posizioni assai poco ligie alla «neutralità assoluta». Quando, il 18 ottobre 1914, uscì sull’«Avanti!» il famoso articolo di Mussolini «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante» (in cui si leggeva fra l’altro: «vogliamo essere […] gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne, in qualche modo e in qualche senso, i protagonisti?»), le reazioni furono discordi. Angelo Tasca scrisse sul settimanale socialista torinese «Il grido del popolo», del 28 ottobre, un articolo decisamente contrario alla nuova posizione di Mussolini. Ma sullo stesso settimanale, il 31 ottobre, Antonio Gramsci scrisse a sua volta un articolo assai critico verso Tasca, e molto aperto e comprensivo verso la nuova posizione di Mussolini. Il giovane sardo, infatti, criticava la «comoda posizione della neutralità assoluta», temendo che essa potesse indurre i socialisti «a una troppo ingenua contemplazione e rinunzia buddistica dei [loro] diritti». Gramsci sottolineava il «concretismo realistico» del direttore dell’ «Avanti!», e osservava che «i rivoluzionari che concepiscono la storia come creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di strappi operati sulle forze attive e passive della società […] non devono accontentarsi della formula provvisoria «neutralità assoluta», ma devono trasformarla nell’altra, «neutralità attiva e operante».
Gramsci, prima di pubblicare il proprio articolo, l’aveva fatto leggere a Palmiro Togliatti, che l’aveva approvato interamente. La cosa non può stupire, perché il giovane Togliatti era decisamente interventista. La cosa era nota nell’ambiente socialista torinese, e del resto abbiamo a questo proposito la precisa testimonianza del fratello di Palmiro, Eugenio (rilasciata a Giorgio Bocca): «Palmiro era stato riformato per miopia, ma per essere conseguente al suo interventismo si arruolò volontario nella Croce Rossa, l’unico servizio che gli permettesse di partecipare da vicino alla guerra. Prestò servizio prima a Torino, poi negli ospedali da campo delle immediate retrovie fino al 1916, quando la revisione dei riformati lo fece rientrare nel servizio militare».
Quando poi, in piena guerra, prevalse nel Psi la formula «né aderire né sabotare», si produsse fra i dirigenti socialisti una netta differenziazione: i massimalisti si riconoscevano nella prima parte della formula («non aderire»), i riformisti nella seconda parte («non sabotare»). Tale differenziazione emerse nel grande discorso che Filippo Turati pronunciò all’indomani di Caporetto, discorso con cui egli incitò gli italiani alla resistenza, in difesa della patria invasa. Un discorso che, come ci ricorda Degl’Innocenti, scandalizzò i massimalisti, ma suscitò perplessità anche in alcuni compagni di corrente di Turati: fra questi Giacomo Matteotti. Il quale, già nell’ottobre 1914, aveva espresso in modo netto la propria posizione su «La lotta»: «Noi non neghiamo l’esistenza della patria, ma essa non è la nostra idealità», e ne aveva circoscritto la convergenza solo nel caso in cui essa si identificasse con la causa della libertà, come nel 1848, perché priva di volontà di predominio su altri.
Maurizio Degl’Innocenti, La patria divisa. Socialismo, nazione e guerra mondiale, Franco Angeli, Milano, pagg. 192, € 24,00
Il Sole Domenica 6.12.15
Pisa
Toulouse-Lautrec a Palazzo Blu
di Marco Carminati
Un’intera vita raccontata con manifesti, disegni e l’opera grafica completa. E anche da qualche selezionato dipinto. È questo, in sintesi, il contenuto della mostra «Toulouse-Lautrec. Luci e ombre di Montmartre» allestita da Fondazione Palazzo Blu in collaborazione con Mondo Mostre a Palazzo Blu di Pisa fino al 14 febbraio 2016, con la curatela di Maria Teresa Benedetti. «Luci ombre di Montmartre» perché nel cuore del quartiere parigino di Montmartre Henri de Toulouse-Lautrec aveva il suo atelier (che è possibile ammirare anche oggi) e qui dipinse non solo i mirabili ritratti delle vedettes della Belle Époque (Louise Weber detta la Goulue, Jane Avril, Yvette Guilbert, Marcelle Lender e Loïe Fuller) ma realizzò anche 350 litografie, 28 delle quali sono i celebrerrimi manifesti che l’hanno fatto passare alla storia. La mostra di Pisa si concentra proprio su questi manifesti e litografie.
Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec era nato ad Albi nel 1864 da un’antica famiglia aristocratica. Dotato di fragile salute, vide la situazione peggiorare a causa di due rovinose cadute che gli provocarono la rottura di entrambe le gambe e l’inibizione alla crescita. Le infelici condizioni fisiche (Henri in età adulta non superò il metro e mezzo d’altezza) lo spinsero a rifugiarsi nell’arte. Studiò a Parigi con Cabanel, Bonnat e Cormon e iniziò a frequentare il quartiere di Montmartre. La sua fama si consolidò velocemente e le più importanti riviste parigine («Figaro Illustré», «Courrier Francais» o la «Revue blanche» gli commissionano importanti illustrazioni. Toulouse-Lautrec - ribattezzato «anima di Montmartre» - diventò il cantore della vita del Moulin Rouge, dei locali, dei teatri e soprattutto nelle celebri case chiuse. La sua fu una vita bruciata: morì il 9 settembre 1901 poco prima di compiere 37 anni.
La mostra sviluppa la carriera di Henri in cinque sezioni. La prima, dal titolo Le star. Luci e colori di Montmartre è dedicata ai protagonisti e alla vita del quartiere di Montmartre, e comprende i più noti manifesti realizzati dall’artista (Moulin Rouge, La Goulue, ecc.), oltre a raffinate litografie a colori e ad alcuni dipinti. La seconda sezione parla di Teatro, opera e spettacolo d’avanguardia e include una serie di opere dedicate agli spettacoli teatrali, di cui l’artista era assiduo frequentatore. La terza sezione è dedicata a Toulouse- Lautrec come Il Grande pubblicitario, con opere grafiche realizzate per pubblicizzare gli oggetti più disparati (dalle catene per biciclette e ai confetti).
Immancabile una tappa (la quarta) nelle Maison closes, con la serie di undici litografie che compongono l’album «Elles» realizzato nel 1896, nel quale l’artista racconta, con grande capacità di introspezione, la dura vita delle prostitute. L’ultima sezione (Nel segno. Le passioni) raccoglie infine una serie di litografie e dipinti dedicati a temi cari a Toulouse-Lautrec: i cavalli, il circo, gli incontri e la vita quotidiana.
Toulouse-Lautrec. Luci e ombre di Montmartre , Pisa, Palazzo Blu fino al 14 febbraio 2016. Catalogo Skira
Repubblica Cult 6.12.15
Quell’antica scoperta da Nobel
di Piergiorgio Odifreddi
Nel 1967, negli anni della massima offensiva statunitense in Vietnam, la malaria falcidiava i soldati del Nord e i guerriglieri del Sud in misura anche maggiore delle bombe e del Napalm, mentre gli statunitensi ne erano immuni. A disposizione degli aggrediti c’era infatti soltanto la vecchia clorochina, alla quale ormai le zanzare erano resistenti, mentre gli aggressori avevano la nuova meflochina, che li poneva al riparo dalla malattia. Ho Chi Min chiese aiuto alla Cina, ma i tempi erano poco propizi. Il paese stava infatti entrando nella Rivoluzione Culturale, e gli scienziati nei campi per rieducarli. Mao fece però un’eccezione per gli alleati vietnamiti, e destinò 541 chimici, biologi, farmacologi e medici alla ricerca di un nuovo antimalarico. Lo studio partì il 23 maggio 1967, e fu chiamato Progetto 523.
Vennero esaminati e classificati migliaia di estratti di erbe della medicina tradizionale cinese, e nel 1972 dall’Artemisia annua fu isolato il principio attivo dell’artemisinina, oggi comunemente usata nei farmaci antimalarici. Solo quattro anni fa fu rivelato che la sua scoperta era dovuta alla professoressa Youyou Tu, che pur non possedendo un dottorato, non avendo studiato all’estero e non essendo un membro dell’Accademia Cinese, giovedì prossimo riceverà a ottantacinque anni il premio Nobel per la medicina del 2015.