il manifesto 20.12.15
La seconda transizione spagnola
Spagna. Dopo l’archiviazione del franchismo nel 1978 oggi in Spagna un’altra storica sentenza: va in soffitta il bipartitismo
Luca Tancredi Barone
BARCELLONA Oggi la Spagna inaugura la sua seconda transizione, dopo quella che nel 1978 archiviò frettolosamente 40 anni di dittatura franchista.
I 36 milioni di spagnoli che oggi voteranno decideranno chi saranno i protagonisti del cambiamento politico storico che è già in corso. Un cambiamento che mette in soffitta per sempre il bipartitismo quasi assoluto che ha caratterizzato le prime dieci legislature della fase democratica del paese per aprire una fase i cui contorni sono ancora incerti, ma in cui non vedremo più maggioranze assolute di un partito che utilizzerà il parlamento come una schiacciasassi contro ogni altra iniziativa, come ha fatto il Partito popolare dal 2011 a oggi.
A quattro anni dal 15M — da noi conosciuto come il movimento degli indignados – i semi piantati dalle proteste cittadine che occupavano le piazze di tutta la penisola cominciano a crescere. Sarà un cambio gattopardesco? Certamente la fotografia parlamentare di quattro anni fa è ormai irrimediabilmente ingiallita.
Cosa succederà a partire da domani non è ancora del tutto chiaro. Il Partito popolare perderà una buona fetta dei 10 milioni di voti ottenuti nel 2011, anche se tutte le inchieste lo danno ancora al primo posto. A giocarsi il secondo posto sono tre partiti: Podemos, che nelle ultime settimane è dato in ascesa dopo una fase di regressione, Ciudadanos, che invece pare aver frenato molto quella che sembrava una marcia inarrestabile, e un Psoe che è ancora dato in forte crisi. Quinto partito sarà Izquierda Unida (dentro Alianza Popular) che lotta per mantenere il gruppo parlamentare (5 deputati o 5% a livello nazionale).
È abbastanza chiaro che la differenza di voti fra i tre «secondi» è molto piccola e che dunque si prospettano scenari molto diversi. Ma sono scenari difficili da prevedere per i sondaggisti – che infatti non si mettono d’accordo sulla classifica finale. Le difficoltà risiedono in due fattori. Il primo, l’affluenza alle urne.
Nel 2011 votarono solo il 72% degli elettori (quasi 5 punti meno che nella precedente tornata elettorale). Con un tasso di indecisione valutato, a seconda degli osservatori, fra il 20 e il 40%, quante persone si recheranno in effetti alle urne potrebbe cambiare molto il risultato finale. Il secondo fattore, ancora più imponderabile, è una legge elettorale disegnata nel 1978 per favorire i grandi partiti, e soprattutto la destra, e i piccoli partiti forti a livello locale.
Con un panorama così frammentato, e una legge elettorale blandamente proporzionale ma basata in circoscrizioni provinciali molto dissimili per popolazione, solo a Madrid, Barcellona e Valencia (che eleggono circa un quarto dei 350 seggi totali) i partiti hanno più o meno le stesse probabilità di essere eletti a parità di voti. In un terzo delle provincie invece si distribuiscono 5 seggi o meno: il che implica che chi ha chance ragionevoli sono solo il primo e il secondo partito, in pochi casi il terzo: gli altri voti sono persi.
Questa distorsione, con tre partiti allo stesso livello che si giocano il secondo posto su una manciata di voti, su scala nazionale potrebbe portare a risultati molto poco prevedibili.
Tra l’altro oggi si vota anche per eleggere una parte del Senato, le cui funzioni sono sconosciute ai più, perché in sostanza è una camera di seconda lettura non vincolante, ma il cui ruolo in questa legislatura potrebbe essere chiave per due motivi: primo, perché per riformare la Costituzione ci vuole una maggioranza di 3/5 in entrambe le camere – ed è chiaro che questa sarà la legislatura in cui si aprirà il «melone» costituzionale, giacché tutti i partiti, tranne il Pp, ce l’hanno nel programma elettorale.
Secondo, perché è questa camera che deve approvare eventuali iniziative governative che tutelino «l’integrità territoriale» da azioni di comunità autonome che potrebbero metterla in pericolo.
È chiaro che lo scontro con il parlamento e il governo catalano in questa legislatura arriverà a un redde rationem. Per il momento, dato il numero di senatori eletti dalle comunità autonome, al Senato la maggioranza sarà ancora popolare. Per cui gli altri partiti non potranno prescindere dal Pp su questi due temi. Quel che è chiaro è che oggi si chiude un’epoca, e con essa lo strapotere dei due principali partiti a livello nazionale, Pp e Psoe.
Oggi probabilmente, vada come vada, si chiuderà anche la stagione politica di Mariano Rajoy. Anche qualora il Pp riuscisse davvero a strappare la prima posizione, è abbastanza chiaro che, per ottenere l’appoggio di un altro partito — fosse Ciudadanos, alleato naturale di centrodestra, o persino il Psoe (anche se Pedro Sánchez ha promesso di no, molti nel suo partito e nel Pp non vedrebbero male una Grosse Koalition) — il Pp dovrà cedere la testa di Rajoy a favore della sua vicepresidente, Soraya Sáez de Santamaria.
Nell’ultima fase della campagna Ciudadanos ha promesso che se non saranno primi, non ostacoleranno il governo di chi dovesse arrivare primo attraverso l’astensione. Ma i giochi sono aperti e dipenderanno dai numeri. L’altra cosa chiara è che un governo rosso-viola (o viola-rosso), cioè un’allenza Psoe-Podemos, probabilmente non avrà i numeri, a meno che Ciudadanos non decida di tradire le sue radici filo-imprenditoriali. Stasera si aprirà una verosimilmente lunga fase di trattative, a cui gli spagnoli non sono abituati.