il manifesto 2.12.15
I dati, come i fatti, hanno la testa dura
I nuovi dati Istat sull'occupazione. Numeri impietosi: a ottobre rispetto a settembre sono stati distrutti 39mila posti di lavoro, mentre il calo dei lavoratori in cerca di occupazione (-13mila) viene superato da un aumento del numero di inattivi. Solo per questo il tasso di disoccupazione scende
di Marta Fana
I dati dell’indagine mensile sulle forze di lavoro, pubblicati ieri dall’Istat, sono impietosi: a ottobre rispetto a settembre sono stati distrutti 39mila posti di lavoro, mentre il calo dei lavoratori in cerca di occupazione (-13mila) viene superato da un aumento del numero di inattivi.
Ragione per cui il tasso di disoccupazione diminuisce all’11.5%. Il tasso di occupazione rimane al 56.3%, con un aumento dell’1.3% per la componente maschile e una riduzione dello 0.4% di quella femminile rispetto a fine febbraio, cioè all’entrata in vigore del Jobs Act.
Complessivamente, rimane senza alibi l’azione riformatrice del mercato del lavoro, operata dal governo. Da gennaio ad ottobre di quest’anno, il numero di occupati aumenta di 84,000 unità, di cui solo l’1,3% è riferito a contratti cosiddetti permanenti (+2mila), mentre gli occupati a termine continuano la loro corsa con un +178,000. Al contrario, gli occupati indipendenti diminuiscono i questi primi dieci mesi di 97,000 unità. In particolare, nell’ultimo mese ci sono 44,000 lavoratori indipendenti in meno. E’ così che l’incidenza degli occupati dipendenti a tempo “indeterminato” diminuisce sul totale degli occupati (-1% da gennaio), una corsa in discesa che si fa più ripida da marzo, cioè da quando entra in vigore il Jobs Act, con l’innovativo “contratto a tutele crescenti”. Indipendentemente dalla tipologia contrattuale, la distribuzione dei nuovi occupati per classi di età specchia nitidamente i rischi strutturali che l’assetto del mercato del lavoro italiano porta con sé: un mercato del lavoro sempre più anziano, che non lascia spazio ai giovani, relegandoli a un futuro di instabilità e precarietà. Una dinamica già in atto che gli ultimi governi non hanno voluto né saputo invertire. L’unica componente anagrafica per cui tra gennaio e ottobre il numero di occupati aumenta sensibilmente è quella degli over 50, mentre si riduce sensibilmente per la classe tra i 35 e 49 anni. I più giovani sono di fatto ignorati (+11,000 occupati). Sicuramente queste dinamiche nel medio periodo possono essere spiegate, come osserva l’Istat, dall’invecchiamento della popolazione.
Tuttavia ciò è vero se si considera un arco temporale pluriennale, come il triennio 2013–2015 preso in esame dall’Istituto di Statistica, mentre non è vero (o comunque irrilevante) nell’analisi di brevissimo periodo, cioè all’interno dello stesso anno, in cui le variazioni demografiche non sono tali da poter determinare, in assenza di shock, le dinamiche occupazionali.
Mentre la realtà parla chiaro, esponenti del governo e del Pd, come Filippo Taddei, perseverano in un’operazione comunicativa ingannevole che rasenta l’ignoranza dei fatti quando dichiara ««Il Jobs Act funziona Il dato Istat di ottobre è un tipico segnale di ripresa»» perché diminuiscono gli autonomi mentre aumentano i dipendenti. A Taddei sfugge guarda caso che il lavoro dipendente che aumenta è quello a termine, che — negli slogan di governo – sarebbe dovuto diminuire grazie ai contratti stabilmente precari. In piena sintonia il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti che addirittura, commentando i dati Istat, afferma che la riduzione degli occupati indipendenti è risultato positivo dell’azione di governo che conduce ««alla riduzione delle false partite Iva»». Come il Ministro stabilisca questa relazione non è dato sapere, dal momento che i dati Istat non hanno questo dettaglio e neppure i dati del Ministero del Lavoro, che ricordiamo dal 25 agosto non vengono più resi pubblici.
Allo stesso tempo, non è il caso di riesumare la cosiddetta staffetta generazionale, dal momento che, in ogni caso allo stato attuale, i giovani sarebbero impiegati in lavori a bassa produttività, da imprese tradizionalmente restie all’innovazione e all’investimento in ricerca e sviluppo. Lo confermano i dati pubblicati ieri dall’Eurostat: le imprese italiane spendono, nel 2014, solo 190 euro per abitante in ricerca e sviluppo, contro una media europea di 356 euro.
Le stesse imprese che pur beneficiando di sgravi contributivi enormi non hanno creato lavoro, perché le condizioni non erano favorevoli ma forse, soprattutto, perché è mancata la volontà per crearle, preferendo i servizi a basso valore aggiunto, l’esplosione dei voucher e la riduzione delle retribuzioni dei neo assunti, soprattutto quelli a tempo indeterminato (-1.4%), come ci ricorda l’INPS. Nel 2015, la situazione non è affatto mutata, infatti, sul totale dei settori istituzionali, il contributo alla crescita del Pil derivante dagli investimenti fissi lordi è nullo negli ultimi quattro trimestri e negativo nel terzo trimestre 2015.
Il calo delle esportazioni (-0.4%) fa da traino nel limitare la crescita del Prodotto Interno Lordo, mentre la domanda interna, per consumi o investimenti, non decolla. Non potrebbe essere diversamente per un’economia che ha scelto di avallare l’idea di una crescita fondata sulle esportazioni, la cui competitività dovrebbe dipendere esclusivamente dalla svalutazione del lavoro. Non deve allora stupire il deterioramento delle condizioni di vita della maggioranza dei cittadini, lavoratori e non. Quel che desta enorme stupore invece è l’assenza di una reale opposizione politica e sindacale, fondata su un’analisi consapevole, non velleitaria e corporativistica dei processi in atto e delle soluzioni programmatiche da offrire al paese.