domenica 27 dicembre 2015

Il Fatto 27.12.15
Il Giubileo non tira: flop per hotel e ristoranti
Affari in fumo Si sognava il rilancio ma va peggio del 2014: dopo gli attentati di Parigi, ovunque calano le prenotazioni
di Antonio Monti


Più che della misericordia, per ora è il Giubileo della paura. E degli affari andati in fumo. Roma è arrivata impreparata all’Anno Santo, tra servizi pubblici mal ridotti e cantieri di manutenzione urbana in parte ancora da iniziare. Gli attentati di Parigi hanno fatto il resto. Da settimane le basiliche giubilari, i quartieri adiacenti e il centro storico regalano scorci insoliti: pochi fedeli in coda per passare al metal detector prima che alle Porte Sante, piazze semideserte ma blindate dalla polizia e negozi vuoti. Il Natale non ha invertito la tendenza.
A PAGARE il conto dell’onda lunga del terrorismo sono soprattutto le attività commerciali: hotel, bed & breakfast, case vacanze e ristoranti. Oltre il 70 per cento delle imprese romane, rivela uno studio della Confcommercio Roma, pensa che il Giubileo non sarà un’occasione per migliorare la propria attività, mentre 6 su 10 temono profitti invariati per il 2016. “L’annuncio dell’evento aveva creato molte aspettative, più passa il tempo più le imprese stanno perdendo la speranza”, ammette sconsolato Rosario Cerra, presidente del’associazione di categoria. Insomma, niente miracolo economico grazie all’Anno Santo. Eppure qualcuno ci aveva investito sul serio. “Ho rilevato questo negozio a maggio, anche in vista del Giubileo”, racconta amareggiato Max, titolare di un chiosco bar in viale Giulio Cesare, a due passi da San Pietro, “ci aspettavamo tutti di trovarci invasi da pellegrini e invece l’8 dicembre è stata la peggiore giornata da quando ho aperto”.
MAX È IN OTTIMA compagnia: secondo la Confesercenti, dopo gli attentati di Parigi, nei ristoranti della Capitale le prenotazioni sono calate quasi del 30 per cento. Non va meglio per le attività ricettive. Federalberghi Roma stima un -5% di prenotazioni rispetto al dicembre 2014. “Il momento è negativo, la combinazione allerta terrorismo e Giubileo ha prodotto il 5 per cento di cancellazioni, rallentano anche le prenotazioni per i prossimi mesi”, spiega Annamaria dell’Hotel Mozart, vicino a piazza di Spagna, in pieno centro. Non pagano nemmeno le date simbolo dell’anno giubilare: “La notte tra l’8 e il 9 dicembre – prosegue – avevamo 30 camere disponibili su 56. Difficile attrarre turisti in una città che non programma servizi per loro. A pochi giorni dal Capodanno ancora non sappiamo chi suonerà al concerto di piazza. Che pacchetti vendiamo?”.
STESSA MUSICA per lo Scout Center di piazza Bologna, un ostello da 130 posti letto: il giorno prima dell’apertura della Porta Santa solo 20 erano occupati. Quasi rassegnata Emma, titolare di un b&b in piazza Risorgimento, a ridosso del Vaticano: “Il giorno dell’apertura non avevo proprio clienti, è un dicembre peggiore alla media, speriamo nella stagione primaverile”.
La diaspora dei pellegrini ha svuotato anche Borgo Pio, elegante strada pedonale che termina a ridosso del colonnato di San Pietro. Qui pizzerie a taglio, bistrot e caffetterie si contendono i pochi clienti. “Le misure di sicurezza non ci favoriscono, il percorso stabilito per i pellegrini qui non li fa più transitare” lamenta un gelataio. Caustica la farmacista della zona: “La paura degli attentati ha fatto fuggire tutti, se solo penso che per esequie di Papa Wojtyla mi sono fatta aiutare dalla forza pubblica per chiudere il negozio, tanta era la gente in strada”. Altro Papa, altro evento. Per ora la paura del terrorismo prevale sull’indulgenza plenaria.

Repubblica 27.12.15
Intifada dei coltelli, 150 morti in 3 mesi
A Gerusalemme l’ultimo agguato: un uomo ucciso dalla polizia mentre cerca di aggredire alcuni ebrei
Da ottobre una lunga scia di sangue: 128 palestinesi colpiti dalle forze di sicurezza, 20 le vittime israeliane
di Fabio Scuto


GERUSALEMME L’Intifada dei coltelli ha raggiunto quota 150 morti senza che si intravveda la fine di questa scia di sangue in Israele e in Palestina. Tre mesi di attacchi a colpi di forbice, violenze e scontri nelle strade della Cisgiordania e lungo il confine di Gaza hanno scavato una trincea di guerra difficilmente colmabile, nonostante gli appelli e le pressioni della comunità internazionale. Non passa giorno senza un tentativo di accoltellamento o l’uso dell’auto come ariete per investire passanti o soldati israeliani di guardia ai check-point e ai principali incroci stradali. L’Intifada dei coltelli non ha leader e non ha strategia, libera la rabbia del “cane sciolto” che non ha legami con gruppi politici o religiosi. Prevenire questi attacchi è il “rompicapo” dello Shin Bet, la sicurezza interna israeliana, sono sconosciuti e giovani,e ci sono anche ragazze.
Lo scenario spesso scelto è Gerusalemme, la Città Santa percorsa sempre da tensioni e un odio carsico destinato ciclicamente a esplodere. Come ieri pomeriggio quando due agenti di guardia all’ingresso della Porta di Jaffa hanno notato nel gran via vai, che c’è sempre a uno degli ingressi più affollati della Old City, un giovane palestinese che li ha insospettiti perché sembrava pedinare due fedeli ebrei che tornavano dalle preghiere al Muro del Pianto. All’avvicinarsi degli agenti, il giovane 26enne palestinese ha tirato fuori un coltello e ha cercato di pugnalare il poliziotto più vicino. Ma è stato ucciso dal suo collega. Nel pomeriggio un altro palestinese, che aveva cercato di investire dei militari a un posto di blocco nei pressi di Nablus, è stato ferito dai soldati ed è morto in serata.
Dalla seconda metà settembre, 20 israeliani (e un americano) sono stati uccisi in attacchi con il coltello e quasi un centinaio feriti. E almeno 128 palestinesi (e un eritreo per errore) sono morti nello stesso periodo. Secondo la polizia 88 di loro stavano attaccando o tentando di attaccare israeliani, mentre il resto è morto in scontri con l’esercito in Cisgiordania e a Gerusalemme. La Città santa è da tempo “blindata” perché gli attacchi all’arma bianca sono avvenuti pressoché ovunque: alla fermata del tram, sui bus pubblici, per strada, all’uscita del supermarket o del ristorante. Un’ondata di terrore che ne ha profondamente mutato il volto, modificando abitudini e sistema di vita della gente. Bar e ristoranti, la sera sono semi-deserti, i cinema hanno cancellato l’ultimo spettacolo. Ci sono i marshals sugli autobus, i vigilantes fuori di scuole e negozi, militari in divisa quasi in ogni angolo di strada. Ma il senso di insicurezza è un virus che si è diffuso rapidamente. Nei quartieri arabi della città quasi ogni notte ci sono cassonetti in fiamme e sassaiole dei giovani palestinesi contro la polizia che risponde con gas lacrimogeni e pallottole di gomma.
Il governo israeliano attribuisce la responsabilità di questa ondata di terrore all’incitamento degli estremisti palestinesi, attraverso radio e stazioni tv (che sono state chiuse) ma anche con i social network più popolari. L’Anp e i palestinesi sostengono che la violenza nasce dalla frustrazione per quasi cinque decenni di occupazione, per la totale mancanza di una prospettiva di vita migliore e per la fine nelle speranze di un accordo di pace. Vent’anni dopo, l’accordo di Oslo è stato dichiarato morto dal premier Benjamin Netanyahu e dal presidente palestinese Abu Mazen. Nella soluzione dei “due Stati” Usa, Ue e Onu sono rimasti senza i partner principali.

Repubblica 27.12.15
“L’occupazione fa male a Israele. Fermiamo la violenza per il nostro futuro”
Lo scrittore Amos Oz interviene sulla politica del governo Netanyahu nei Territori: “Questa oppressione è estrema”
di Amos Oz


L’OCCUPAZIONE quest’anno compie già 49 anni. Sono certo che debba finire al più presto per il futuro dello Stato di Israele, un futuro a cui dedico il mio impegno profondo. In considerazione delle politiche sempre più estreme del governo israeliano, chiaramente intenzionato a controllare i territori occupati espropriandoli alla popolazione locale palestinese, ho appena deciso di non partecipare più ad alcuna iniziativa in mio onore delle ambasciate israeliane del mondo. Non è stata una decisione facile bensì molto dolorosa. Ma l’attuale oppressione e le espropriazioni nei territori occupati, gli incitamenti contro gli oppositori delle politiche del governo, e la tensione legislativa per ridurre la libertà di espressione e minare il potere giudiziario — mi hanno spinto nel loro insieme verso questa decisione.
Da anni faccio parte del B’Tselem’s Public Council. Rinuncerei volentieri a questo onore se l’occupazione fosse un ricordo del passato. Ma finché non sarà tale — come sarà — sono fiero del lavoro coraggioso svolto da B’Tselem: dai ricercatori sul campo a Gaza e nella Sponda occidentale allo staff della sede di Gerusalemme e ai suoi volontari. B’Tselem non solo documenta in modo attendibile e meticoloso le violazioni dei diritti umani nei territori occupati, ma offre anche uno specchio alla politica di Israele, rivelando la sua dubbia maschera di legalità con cui da 50 anni Israele prevale sui palestinesi, opprimendoli e confiscando la loro terra.
Il 2014 è stato uno degli anni più insanguinati per Israele e la Palestina dal 1967 a questa parte. Purtroppo anche il 2015 è stato segnato da numerose settimane di violenza. Io contesto ogni forma di violenza contro persone innocenti. Ma rifiuto anche il tentativo di far passare i recenti eventi esclusivamente come istigazioni o manifestazioni “anti-semitiche”, sottovalutando il regime di occupazione con le sue annose violenze quotidiane contro milioni di palestinesi privati dei loro diritti.
Queste sono alcune delle ragioni per cui scelgo di far parte del B’Tselem’s Public Council e di sostenere questa organizzazione. Ed è anche il motivo per cui vi scrivo, per chiedervi di unirvi a me nel rendere più forte B’Tselem dimostrando chiaramente il vostro sostegno a favore dei diritti umani e contro l’occupazione. Solo la sua fine può portare a un futuro gravido di giustizia, libertà e dignità per chi vive qui. B’Tselem — la principale organizzazione israeliana per i diritti umani, che vede l’occupazione per quello che è, la documenta, ne spiega le implicazioni e vi si oppone fermamente.
Questo è il testo che Amos Oz ha scritto a sostegno dell’Ong israeliana B’Tselem, fondata nel 1989 come “ Centro d’informazione israeliano per i diritti umani nei Territori occupati”.


Corriere 27.12.15
Sistema contro antisistema il grande rischio dell’Italicum
Nella nostra storia recente non c’è traccia del bipartitismo se non nel (fallito) tentativo di Walter Veltroni di dargli corpo nelle elezioni del 2008
E si è smarrito anche, dal 2011, il ricordo di un governo forte di un mandato popolare s
di Paolo Franchi


Oggi in Spagna, domani in Italia? Potrebbe anche darsi, se da noi non ci fosse la «benedizione» dell’Italicum che, al primo turno o, più realisticamente, al secondo, un vincitore certo lo dà, e gli garantisce i numeri per governare tranquillo, senza doversi mettere in cerca di coalizioni improbabili. Hanno reagito grosso modo così, Matteo Renzi e i suoi, al voto spagnolo. Provocando (comprensibili) reazioni polemiche: governare con il consenso di un quarto o giù di lì degli italiani, e con un Parlamento composto in larga misura di nominati, vuol dire governare senza il popolo, e alimentare a dismisura il cosiddetto «populismo», che pure viene rappresentato come un pericolo mortale.
A metterla così, però, non se ne esce. Meglio, molto meglio sarebbe se tutti si astenessero dal sommare le mele con le pere. Per cominciare, la Spagna non è la Francia, e l’Italia non è nessuna delle due. Non solo per via delle (vistose) differenze tra i rispettivi sistemi elettorali. Certo, i tre grandi Paesi dell’Europa mediterranea hanno in comune la rivolta di ampi settori dell’elettorato popolare (e, attenzione, giovanile) contro l’ establishment tradizionale (le cosiddette élites ) nazionale ed europeo che si manifesta nel voto per il Fronte Nazionale, per Podemos e, in Italia, per il Movimento 5 Stelle e per la Lega di Matteo Salvini. Queste forze esprimono tutte un vistoso spostamento dell’asse della lotta politica, non più destra contro sinistra (almeno per come le abbiamo intese in Europa nella seconda metà del Novecento), né tanto meno centrodestra contro centrosinistra, ma «basso» contro «alto», «popolo» contro «caste». Si tratta, evidentemente, di analogie molto significative. Che però finiscono qui. Stiamo parlando, nel tempo della crisi della politica (quale?) di partiti, o di movimenti, non anti-politici, ma, a modo loro, iper politici. Politicamente assai diversi, però, per ideologie, programmi, natura delle leadership, ma anche, se è consentito, perché assai diverse sono pure le tradizioni e le culture politiche, antiche e recenti, dei loro Paesi. Per dire. Se il vecchio Fronte Nazionale di Jean- Marie Le Pen (l’altra destra, quella «impresentabile» anche per la destra di derivazione gollista) non avesse messo radici nonostante il sistema elettorale non le consentisse in pratica accessi in Parlamento, oggi non dovremmo occuparci del «nuovo» Fronte. In Spagna, invece, è soprattutto della sinistra che si parla: si arrivi o no a un accordo tra Pedro Sánchez e Pablo Iglesias, vorrà pur dire qualcosa il fatto che, a sommare i voti di Podemos e del Psoe si arriva al 44 per cento: lo stesso 44 per cento con cui il Psoe di Zapatero stravinse le elezioni appena sette anni fa.
Dimenticavo un’altra analogia, importantissima, che ci riguarda da vicino. L’affermazione del Fronte Nazionale in Francia, seppure rintuzzata nel secondo turno delle regionali, apre interrogativi pesanti sulla tenuta dell’assetto politico-istituzionale della Quinta Repubblica, quella di Podemos e, sull’opposto versante, dei Ciudadanos) addirittura liquida il bipartitismo Ppe-Psoe su cui si è retta la Spagna del dopo Franco. Da noi, il bipolarismo ha concluso il suo (infausto) ventennio con le elezioni del 2013, che ci hanno consegnato un’Italia divisa, come la Gallia di Cesare, in partes tres : la terza parte, Cinque Stelle, non ha alcun rapporto con le nostre tradizioni politiche (o quel che ne resta), e se ne vanta. Quanto al bipartitismo, nella nostra storia non ce n’è traccia, se non nel (fallito) tentativo di Walter Veltroni di dargli corpo nelle elezioni del 2008. E, a proposito di tracce, dal 2011 si è smarrita anche quella di governi forti di un mandato degli elettori. Come spesso (sfortunatamente) ci accade, siamo dei precursori. L’Antemurale rispetto al «populismo» (ancora una volta tra virgolette) è costituito da un solo partito, anzi, dal suo leader, certo che, comunque vadano le prossime elezioni amministrative (presumibilmente, non bene), sarà il vento del referendum costituzionale a gonfiare di nuovo le sue vele. Noi non ne saremmo così convinti, con tutto il rispetto Renzi non è Charles De Gaulle. Ma, anche se tutto gli andasse per il meglio, nelle elezioni politiche si ritroverebbe a incarnare, pressoché solo, il sistema (rottamato, innovato, riformato quanto si vuole: ma il sistema) contro l’antisistema. In anni grosso modo «normali», sarebbe una posizione incredibilmente privilegiata. Con questi chiari di luna, è lecito dubitarne.

il manifesto 27.12.15
La clemenza «politica» di Mattarella per gli agenti Cia
di Gaetano Azzariti


Non è la prima volta che accade. Il Presidente Napolitano aveva già concesso la grazia al colonnello Joseph Romano, coinvolto nel sequestro di Abu Omar. Ora il suo successore Mattarella firma l’atto di clemenza nei confronti di due cittadini americani coinvolti anch’essi nella vicenda dell’imam egiziano.
Nessuno di essi è mai stato detenuto in Italia, vivono nel proprio paese liberi da ogni accusa, protetti dal governo degli Stati Uniti. La concessione delle grazie, pertanto, non aprirà le porte delle carceri, che non sono state mai varcate.
Questo fa ritenere la decisione di Mattarella un fatto prevalentemente simbolico, posto in essere più che altro allo scopo di rafforzare le alleanze necessarie per sbloccare la complessa trattativa per il rientro dei militari italiani detenuti in India. Almeno così raccontano le cronache. Eppure alcune domande di un certo peso devono essere poste.
La questione più delicata riguarda la legittimazione costituzionale dell’atto adottato. Secondo la Corte costituzionale, infatti, il potere presidenziale di grazia può essere esercitato solo «per eccezionali ragioni umanitarie», non potendosi fondare su ragioni esclusivamente politiche (sentenza n. 200 del 2006). L’atto di clemenza nei confronti di due cittadini americani non ha alcuna ragione umanitaria, bensì esclusivamente politico-diplomatica. Come è possibile una così evidente discordanza tra i due custodi della costituzione (Corte costituzionale e Presidente della Repubblica)?
Certo la decisione della Consulta non è esente da colpe. Immaginare che la grazia possa essere concessa solo per risolvere casi umanitari non ha molto senso, l’atto di clemenza contenendo già in sé una sua politicità. Eppure non può ammettersi che essa sia completamente rimessa alla libera volontà del Capo dello Stato. Se si vuole estendere il potere presidenziale anche ai casi politicamente sensibili diventa necessario prevedere controlli sul suo operato e limiti al suo esercizio. La Corte ha – forse un po’ troppo sbrigativamente – ritenuto l’atto di concedere la grazia «formalmente e sostanzialmente» presidenziale, facendo così venir meno ogni controllo istituzionale, ma ciò non vuol dire che si sia trasformato in un potere senza limiti.
L’indicazione della natura «umanitaria», se non può essere intesa come esclusiva, deve almeno essere ritenuta parte essenziale della valutazione presidenziale (una condizione necessaria, anche se non necessariamente sufficiente); può venir bilanciata con le ragioni politiche, ma non può essere completamente elusa. A rigore, dunque, si dovrebbe escludere che si possa adottare un atto di clemenza privo di alcun rilievo umanitario. Come, invece, è stato nei casi che hanno coinvolto i cittadini americani.
La via prescelta dalla presidenza è stata un’altra, non essendosi operato alcun bilanciamento tra ragioni umanitarie e valutazioni politiche. In questa prospettiva credo ci si debba chiedere – a maggior ragione – quali diverse cautele debbano circondare il potere presidenziale di grazia.
Il comunicato del Quirinale mostra – o almeno così appare – una certa prudenza e consapevolezza della delicatezza costituzionale dell’atto che viene compiuto: «la decisione – si legge — tiene conto del parere favorevole formulato dal Ministro della Giustizia a conclusione della prevista istruttoria», a segnalare una consonanza di vedute con il Governo. Poi, però, nel merito, la decisione assunta risulta tutt’altro che cauta. L’atto di clemenza si sostanzia in un intervento diretto a modificare le decisioni adottate dal potere giudiziario per la salvaguardia di equilibri politici internazionali di cui si ritiene ci si debba far garanti anche a scapito delle ragioni dello stato di diritto. Il Presidente ha ritenuto, infatti, di dover «riequilibrare» il trattamento sanzionatorio inflitto ai due cittadini americani a seguito di un regolare processo svoltosi nelle sedi giudiziarie competenti che ha coinvolto altre ventiquattro persone tutte condannate per il medesimo reato. Dunque, sostituendosi ai giudici, il presidente ha effettuato una nuova valutazione dei fatti, della loro gravità, ed ha stabilito una diversa sanzione. Ma non è questo il punto più delicato (la grazia interviene sempre su sentenze passate in giudicato), quel che essenzialmente rileva è la motivazione che si pone alla base del provvedimento di clemenza: «nella valutazione delle domande di grazia – scrive il Quirinale — il Capo dello Stato ha in primo luogo considerato la circostanza che gli Stati Uniti hanno, sin dalla prima elezione del Presidente Obama, interrotto la pratica delle extraordinary renditions, giudicata dall’Italia e dalla Unione Europea non compatibile con i principi fondamentali di uno Stato di diritto».
Questo dimostra come si sia passati dalla grazie umanitaria (secondo l’indicazione della Corte costituzionale) alla grazia esclusivamente politica. Se la prima poteva rappresentare una visione riduttiva del potere che di fatto viene esercitato dal Capo dello Stato, la seconda rischia di trascinarlo in un terreno non suo. Quel che ci si chiede, in particolare, è se l’istituto della grazia individuale, che deve riguardare i singoli fatti e le posizioni personali degli individui condannati, possa trasformarsi in uno strumento al servizio della politica internazionale.
Un ultimo interrogativo. La presidenza Mattarella si è sin qui caratterizzata per sobrietà, lontana dalla ribalta e dal protagonismo che aveva qualificato le ultime presidenze. Toni bassi nel tentativo di riconciliare le parti e non esasperare gli animi. Un guardiano silente, auspicabilmente non assente. Perché allora questa così decisa presa di posizione?

La Stampa 27.12.15
Renzi, gennaio di rimpasti dal partito al governo
Il momento cruciale Sarà tra la Direzione di metà gennaio dedicata alle elezioni amministra-tive e l’assemblea Pd a metà febbraio
I bersaniani nella segreteria Pd, più forza a Ncd nell’esecutivo
di Carlo Bertini


Del “rimpasto” nel Pd, Matteo Renzi ne ha parlato al brindisi per gli auguri natalizi al Nazareno, «alla ripresa ci saranno dei passaggi che riguardano il partito, sarà un momento di rilancio e di riorganizzazione». Del rimpasto di governo invece non ne ha fatto cenno pubblicamente; ma con tutti i condizionali d’obbligo visto che la questione si trascina da mesi, i due nodi potrebbero essere sciolti insieme a fine gennaio. Insieme al rinnovo delle presidenze della commissioni del Senato, che vanno votate il 20. Certo, il premier preferisce guardare alle cose fatte, «la verità è che l’Italia non è più incagliata nelle secche, e la svolta in questo 2015 c’è stata», scrive nella sua enews. Ma per portare avanti le riforme e blindare il cammino del governo, potrebbe sciogliere a breve i nodi più spinosi.
I dossier del Pd e del governo saranno affrontati e risolti tra la Direzione di metà gennaio sulle amministrative e l’assemblea nazionale del partito a metà febbraio, confidano i suoi. Pure se altri esponenti del cerchio stretto invitano alla prudenza, perché riempire le caselle vacanti di governo potrebbe scontentare molti: e con i numeri risicati al Senato (la fiducia sulla legge di stabilità è passata con soli 162 voti) ciò potrebbe costituire un deterrente ad assumere decisioni prima di aprile, quando è previsto l’ultimo voto cruciale sulla riforma costituzionale.
La nuova segreteria
Da settimane sono in corso colloqui informali e pare che l’intenzione sia di arrivare ad una sorta di «gestione condivisa» del partito con l’ingresso dei bersaniani che oggi sono fuori. Una segreteria più politica e meno tematica, come lo è ora, senza i responsabili dei forum. Punto fermo sarà la conferma dei due vicesegretari, Guerini e Serracchiani. Altri renziani doc resterebbero, come Ermini e Carbone. Ma insieme ad altre riconferme ancora da decidere, ci saranno diversi innesti per rafforzare l’organismo e conferirgli maggiore autonomia: della corrente di Orfini, quella dei «turchi» potrebbe entrare il portavoce Francesco Verducci; per i “cuperliani” resterebbe De Maria; dell’area «Sinistra è cambiamento» che fa capo a Martina e Damiano potrebbe entrare il portavoce Matteo Mauri, che è già vicecapogruppo. E della minoranza dei dissidenti di Speranza, potrebbe entrare un uomo forte dell’era Bersani come Nico Stumpo. Dunque, almeno sulla carta l’intenzione è di fare della segreteria un luogo di discussione politica e alle riunioni su temi “caldi” saranno invitati anche i capigruppo di Camera e Senato.
Il puzzle del governo
Qui la faccenda si complica: all’Ncd spetterebbe la casella degli Affari regionali e si fa sempre il nome di Dorina Bianchi; un riequilibrio a favore dell’Ncd ci potrebbe essere anche al Senato, dove la presidenza della commissione Giustizia, oggi del forzista Nitto Palma, se non sarà assegnata ad un Pd, potrebbe andare al responsabile giustizia Ncd Nico D’Ascola. Ma va anche riequilibrato il peso dei centristi di Scelta Civica rimasti solo con Zanetti nell’esecutivo dopo l’uscita dal gruppo della Giannini e di altri sottosegretari. Tanto che si parla del possibile ingresso di un loro esponente, Antimo Cesaro, come sottosegretario alla Cultura. Per la carica di viceministro agli esteri è in predicato Enzo Amendola del Pd; così come per il posto che fu di De Vincenti, quello di viceministro allo Sviluppo con deleghe pesanti alle crisi industriali, i renziani continuano con insistenza a fare il nome di Vasco Errani, esponente legato a Bersani, uomo di cerniera, il cui ingresso nel governo segnerebbe una sorta di «pax» politica con il mondo degli ex Ds.

Repubblica 27.12.15
Nelle città al voto anno zero per Renzi Allarme Roma e Napoli
Sondaggi negativi, candidature deboli o assenti E intanto Lotti, il selezionatore, incassa rifiuti
di Goffredo De Marchis


ROMA Imbarazzo, allarme, difficoltà, preoccupazione. A Palazzo Chigi hanno già esaminato i dossier delle comunali di Roma e Napoli per concludere che siamo all’anno zero. O meglio: nella Capitale, secondo i sondaggi, si parte dal terzo posto dopo il Movimento 5stelle e il centrodestra (ma pesa il trauma delle cacciata di Marino), sul Golfo addirittura dal quarto. Sia De Magistris, sia i grillini, sia il centrodestra sono avanti al Pd che in queste condizioni fatica tantissimo a trovare un candidato da contrapporre ad Antonio Bassolino, malvisto dal quartier generale democratico. La pratica è stata affidata, in questa fase preliminare, a Luca Lotti, braccio destro di Matteo Renzi e capace di condurre in porto il successo di Vincenzo De Luca in Campania, superando le onde avverse. Lotti ha le mani nei capelli spettinati e riporta al premier il rischio concreto, al momento, di perdere tutt’e due le città. Soprattutto Napoli.
Lotti infatti è partito dal capoluogo campano. Lo ha fatto cercando di azzerare le primarie alle quali si è già candidato l’ex sindaco Bassolino. Aveva anche trovato il nome giusto. Quello di Gaetano Manfredi, rettore della Federico II e presidente della conferenza dei rettori italiani. 53 anni, una passionaccia per la politica sebbene sia un ingegnere molto apprezzato, Manfredi, però, ha risposto cortesemente di no. Lotti e il rettore si sono incontrati, hanno convenuto sul fatto che Manfredi, fratello maggiore del deputato Pd, Massimiliano, in ascesa dopo aver guidato la campagna vincente di De Luca, avrebbe delle chance di vittoria e metterebbe in crisi la candidatura di Bassolino alle primarie. Perché il rapporto tra i due è buono e l’ex sindaco avrebbe persino potuto fare un passo indietro. Ma è rettore da appena un anno e capo dei rettori italiani da soli tre mesi. «Non posso tradire i colleghi», ha risposto Manfredi.
Si ricomincia daccapo. Con altri nomi esterni alla politica, visto che il Pd napoletano è ridotto ai minimi termini: Celeste Condorelli, Dario Scalella, il capo dell’Ice Riccardo Monti, l’avvocato Claudio Botti e da qualche giorno l’ingegnere Mauro Pollio, già amministrato di Capodichino e artefice della sua privatizzazione. Su questi possibili candidati esistono tuttavia almeno due certezze: tutti chiedo- no l’investitura diretta del premier come è avvenuto per Beppe Sala a Milano, ma nessuno di loro, a differenza di Sala che viene dalla vetrina di Expo, ha la forza di avvicinare i consensi di Bassolino. Ecco perché qualcuno a Largo del Nazareno suggerisce di compiere un’acrobazia. Trovare un nome condiviso dal Pd, candidarlo senza primarie e aspettarsi la contromossa dell’ex sindaco sotto forma di una candidatura con una lista civica. Con il pericolo di ripetere il caso Liguria.
A Roma il nome scelto da Renzi e Lotti è quello di Roberto Giachetti. A prescindere dalle qualità di combattente, il vicepresidente della Camera può mettere assieme le anime del Pd e non avere ostacoli interni. Ma si parte con l’handicap, come ammette anche il commissario romano Matteo Orfini. E Renzi si affiderà dopo l’11 gennaio a un sondaggio sui candidati con dieci identikit in lizza. Il garbuglio della situazione romana è stato ben sintetizzato da un articolo dell’Unità, quotidiano iper-renziano. Il giornale ha fatto un bilancio dei primi due mesi del prefetto Francesco Paolo Tronca e ha concluso amaramente: «Non si sta peggio che con Marino». Nemmeno meglio, quindi. Un sostanziale pareggio che spinge a domandarsi: fu saggio licenziare il chirurgo?
Renzi si concentra ancora sui risultati del governo. «Quest’anno — scrive nella sua enews — abbiamo messo mano a tantissimi dossier che erano impantanati da anni. Questo non significa che abbiamo fatto tutto bene o che non c’è altro da fare. Ma la verità è che l’Italia non è più incagliata nelle secche, che la svolta in questo 2015 c’è stata». L’esito delle amministrative però non è legato all’azione dell’esecutivo, o non soltanto a quello. Dimostra semmai la tenuta del partito, la sua capacità di parlare ai cittadini. I casi di Roma e Napoli dimostrano la crisi dei partiti, «non più in contatto con la comunità» ha detto Luciano Violante a un convegno della Fondazione Lelio e Leslie Basso qualche giorno fa. Dei partiti e a maggior ragione del primo partito.

Repubblica 27.12.15
Parla il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini “Nessun ritardo, alle primarie saremo pronti”
“Gravi gli strappi della Sinistra ma a Sel dico: torniamo insieme per correre alle amministrative”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA. «Un errore grave se la sinistra strappa alle amministrative, il Pd cercherà in ogni modo di tenere unito il fronte del centrosinistra». Lorenzo Guerini, il vice segretario dem, assicura: «Siamo in linea con la tabella di marcia per le primarie e le amministrative, non siamo affatto in ritardo». Lancia un appello: «Se Sel-Sinistra italiana rompono, non possiamo che prenderne atto. Con amarezza. Ma è certo che il Pd lavora perché non avvenga». E il vice segretario spera che «a Napoli emergano energie nuove».
Guerini, il garbuglio politico milanese post Pisapia si è sciolto finalmente?
«A Milano faremo delle belle primarie. Correranno Giuseppe Sala, Francesca Balzani, Pierfrancesco Majorino, Roberto Caputo, tutte figure importanti riconosciute nella città. Si parte dal centrosinistra che ha governato, e bene, in questi anni. E le regole sono quelle di sempre: chi vince viene sostenuto da tutti. Il “garbuglio”, come lo chiama lei, è stato sciolto grazie a lavoro comune della coalizione, alla sottoscrizione da parte dei candidati della carta dei valori e ala regola aurea delle primarie e cioè che si lavora tutti per uno, per il candidato che emergerà il 7 febbraio».
Però Roma e Napoli sono vere e proprie rogne?
«I candidati di Roma e Napoli, così come di molte altre città che vanno al voto, saranno decisi dalle primarie. Ho scritto ai segretari provinciali dem fissando il primarie-day il 6 marzo, eccetto che a Milano, dove sono state convocate con anticipo il 7 febbraio. A Torino e a Bologna riconfermiamo i sindaci uscenti, Piero Fassino e Virginio Merola, che hanno ben lavorato, anche se siamo costretti in queste due città a prendere atto che Sel ha deciso, inspiegabilmente, di presentare altri candidati rompendo una collaborazione con noi per motivi che proprio non comprendiamo. E che, sospetto, non comprendono neanche i loro elettori ».
Ma siete in alto mare e lacerati?
«No. A gennaio terremo la direzione nazionale che discuterà di elezioni amministrative. Ma vorrei chiarire che i candidati non si decidono al Nazareno, a Roma, bensì sui territori, quasi sempre attraverso lo strumento delle primarie».
Alle regionali, quando si presentò e poi vinse le primarie De Luca in Campania, lei fu attaccato per non averlo impedito.
«Strana accusa quella di avere vinto le elezioni... comunque le candidature nascono nei territori. Le primarie servono per mobilitare esperienze, competenze ed energie per selezionare i candidati migliori per vincere le elezioni».
A Napoli Bassolino è della partita. A lei e ai renziani in generale, continua a non piacere ma non potete impedirgli di correre?
«A Napoli ci saranno primarie aperte e competitive. Quindi si vedrà. Mi auguro che da qui al 6 di marzo emergano candidature che siano sinonimo di innovazione».
Lei ha qualche nome in mente per Napoli? E per Roma?
«Non varrebbe allora tutto quello che ho detto fin qui».
Il Pd guarda ai centristi di Alfano più che ad alleanze di centrosinistra?
«Laddove ci sono esperienze di centrosinistra che in questi anni hanno visto lavoro comune, lo ribadisco, si va avanti con quelle. Ma in alcune città Sel-Sinistra italiana si è chiamata fuori. È una loro scelta. Un errore grave. Hanno deciso di non correre con noi. Ma è una scelta sbagliata. Dobbiamo tenere insieme le esperienze di centrosinistra. A Cagliari Massimo Zedda, che è di Sel, si ripresenta e il Pd lo sosterrà. Noi siamo per unire, non per rompere. Se altri strappano, non possiamo che prenderne atto, anche se facciamo e faremo di tutto perché non avvenga».
Siete in ritardo tuttavia. È una impasse politica?
«C’è molta attenzione sul Pd, ma al momento vedo che solo noi abbiamo già i candidati o fissato la data delle primarie. Dove sono i candidati del centrodestra? E dei grillini?».
Requiem definitivo per il centralismo democratico: la segreteria nazionale non decide?
«Il Nazareno segue, ma non ci sono soluzioni imposte. Aiutare, facilitare, stimolare candidature che possano alle primarie mettersi in gioco è quello che facciamo».
Le amministrative sono un test politico importante anche per il governo, sono quasi elezioni di medio termine per Renzi?
«Sono importanti perché definiscono i sindaci di città importanti come Milano, Napoli, Roma, Bologna, Cagliari. Il Pd non si farà trovare impreparato a quell’appuntamento. Però non stiamo discutendo del governo nazionale, non è un test per il governo e per Renzi».

Corriere 27.12.15
«Populismo di governo», una lettura sbagliata della nostra politica
Novità Nella democrazia di oggi le vecchie narrazioni ideologiche e le modalità organizzative del passato sono destinate alla sconfitta
di Michele Salvati


Mi chiedo che cosa possa intuire del contenuto del libro chi legge il titolo dell’ultimo Marco Revelli, Dentro e Contro, Laterza. È vero che il sottotitolo — «quando il populismo è di governo» — lo mette sulla pista, specie se già conosce l’autore: escluso che si tratti di un lavoro distaccato e accademico sulle forme personalizzate e populistiche che ha preso quasi ovunque la lotta politica in Europa — altrove queste forme le aveva assunte da tempo — non è difficile immaginare che si tratti di un attacco all’arma bianca contro il capo dell’attuale governo italiano e insieme segretario del Partito democratico, Matteo Renzi. E di questo infatti si tratta, un pamphlet partigiano scritto da un punto di vista di estrema sinistra.
Chi condivide questo punto di vista troverà nel libro, esposte in modo brillante — nello stile e con la sostanza de Il Fatto Quotidiano — tutte le accuse che questa parte politica rivolge contro Renzi. Accuse che riguardano sia la fase della «resistibile ascesa» del premier-segretario e dunque rivolte, oltre che contro di lui, contro chi non l’ha impedita: contro l’insipienza di chi gli era e gli è contrario nel partito e contro la connivenza delle supreme istituzioni, al fine di facilitarlo nella sua scalata. Sia la fase del Renzi di governo, le accuse contro le riforme che ha promosso e le politiche che ha perseguito. Non troverà invece un’analisi ragionata e comparata delle sue modalità di conquistare la maggioranza nel suo partito e un ampio consenso nel Paese, quello che l’ha condotto oltre il 40% nelle elezioni europee del 2014: per quali aspetti esse differiscono da quelle adottate dai leader democratici di altri Paesi? E non troverà un’analisi — di nuovo, ragionata e comparata — delle riforme che in parte ha fatto o sta tentando di fare: che cosa fanno di radicalmente diverso i capi dei governi democratici di altri Paesi? E soprattutto, ammesso che sia desiderabile, che cosa potrebbero fare nelle attuali circostanze europee?
Marco Revelli è professore di scienze politiche e conosce le profonde trasformazioni che hanno attraversato negli ultimi vent’anni le modalità di conquista del consenso democratico: possono non piacerci, possiamo rimpiangere la vecchia democrazia dei partiti, ma nella democrazia personalizzata e televisiva di oggi, confuse o profondamente trasformate le vecchie fratture di classe, inutilizzabili le vecchie narrazioni ideologiche, le modalità organizzative e comunicative del passato sono destinate alla sconfitta: ha fatto male Renzi, per cercare la vittoria, a rivoluzionare le forme di comunicazione politica del suo partito, a imperniare il suo messaggio sulla «rottamazione» e sul suo carisma personale? È populismo questo? Se sì, allora sono populisti gran parte dei leader democratici europei. E — domanda ancor più importante — sono populiste le politiche che ha adottato in seguito, quando è diventato presidente del Consiglio ?
Il concetto di «populismo» è difficile da definire e la definizione che ne dà Revelli nel Prologo del suo saggio — proprio per includervi il «populismo di governo» di Renzi — alle difficoltà che ci sono aggiunge una confusione evitabile: se Syriza, Podemos, il Front National, la Lega, il Movimento 5 Stelle sono populisti, come gran parte degli studiosi affermano, allora il Pd di Renzi non lo è, perché sostiene politiche opposte al le loro, politiche compatibili con i vincoli europei e accettabili dall’Unione. Uno dei pochi caratteri comuni a tutti i populismi è invece quello di proporre politiche molto popolari allo scopo di ottenere un facile consenso elettorale, politiche all’apparenza favorevoli alla gran massa della popolazione, ma che poi non possono essere sostenute dal reddito del Paese e sono incompatibili con i vincoli europei o internazionali. Politiche che, se attuate, condurrebbero a disastri, per evitare i quali dovrebbero rapidamente essere revocate: insomma quello che è successo in Grecia. Naturalmente questa valutazione può essere contestata, ma allora bisogna farlo con buoni argomenti, ad esempio dimostrando che un’uscita dall’euro non sarebbe così traumatica per un grande Paese come il nostro e le difficoltà iniziali sarebbero rapidamente superate da un periodo successivo di forte crescita. Di questa dimostrazione nel libro non c’è neppure il tentativo.
Lasciando da parte la confusione sul concetto di populismo e di conseguenza l’accusa a Renzi di «populismo di governo», molto più semplicemente si può accusare Renzi di non fare le politiche di sinistra che piacciono a Revelli o a quelli che la pensano come lui. Il che è vero, naturalmente, ma Renzi non ha mai detto di volerle fare. Ha ottenuto il consenso del suo partito e sta cercando il consenso del Paese su un programma del tutto diverso — liberaldemocratico, di centrosinistra, o come altro si voglia definire — sostenendo che le riforme da lui proposte avvieranno l’Italia verso una fase di maggiore governabilità, di buona efficienza amministrativa, di crescita più forte e meglio distribuita. E qui di critiche ne possono fioccare a iosa, e su molti aspetti delle riforme renziane: lo scostamento tra gli obiettivi dichiarati e i risultati sinora ottenuti sta infatti raggiungendo un’ampiezza preoccupante. Ma si tratterebbe di critiche che, per orientamento e natura, sarebbero molto diverse da quelle che gli rivolge Revelli.

Corriere 27.12.15
La Uil, gli sgravi all’occupazione e quel lavoro che non cresce


Il primo a rendersene conto è stato il governo: gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato costano troppo (due miliardi solo nel 2015) rispetto ai risultati. E così, con la legge di Stabilità 2016, la decontribuzione, che prima poteva arrivare a un massimo di 24.180 euro in tre anni per ogni assunto, dal 2016 non potrà superare 6.500 euro in due anni. I dati dell’Istat dicono che i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato sono a ottobre (ultima rilevazione disponibile) 14 milioni 527 mila. Più o meno gli stessi di un anno fa (14.515.000 a ottobre 2014) e di dicembre 2015 (14.525.000), ultimo mese prima che scattasse il superbonus.
È possibile che essendo quella dell’Istat un’indagine, non abbia ancora registrato gli effetti di un aumento delle assunzioni a tempo indeterminato che pure c’è stato e che si rileva nelle comunicazioni obbligatorie degli avviamenti al lavoro. Resta il fatto che queste assunzioni hanno certamente aumentato la quota di contratti a tempo indeterminato sul totale (a scapito di apprendisti e collaboratori) mentre non sembrano avere innalzato l’occupazione totale. Per la quale, conclude la Uil, che ha mensilmente monitorato la situazione, servono «vere e durature politiche di crescita».

il manifesto 27.12.15
Sinistra (?)
Sì all’unità, anche se l’unità non c’è
Il Prc consulta gli iscritti, tutti (o quasi) contro lo scioglimento e per il nuovo soggetto. Che però è già saltato
Ferrero: «Raddoppiati i militanti al voto». La giovane Forenza: «Il quesito non aveva attinenza con la realtà»
di Daniela Preziosi


Oltre 5mila partecipanti al voto su circa 20mila iscritti dichiarati, oltre il 70 per cento dei sì al quesito proposto dal «comitato politico nazionale» e rimasto graniticamente lo stesso anche mentre a sinistra tutto, o quasi, cambiava. Il referendum interno molto old style di Rifondazione comunista — voto espresso fisicamente in sezione, non ammesso quello telefonico giammai quello attraverso la rete — ha consegnato un regalo di Natale al segretario Paolo Ferrero. Che infatti è contento: «È la seconda volta che facciamo una consultazione. La prima era sulla partecipazione alla lista L’Altra Europa con Tsipras alle scorse europee. Stavolta abbiamo raddoppiato i partecipanti e abbiamo ribadito a larghissima maggioranza che siamo favorevoli al soggetto unitario della sinistra e contrari allo scioglimento del nostro partito». L’oggetto della consultazione, che è durata le prime due settimane di dicembre e si è chiusa lo scorso 19, era il no allo scioglimento del Prc e il sì alla «costruzione attraverso un processo unitario, partecipato e democratico, del nuovo soggetto della sinistra» che «vedrà una prima tappa positiva nella convocazione dell’assemblea del 15/17 gennaio 2016 convocata sulla base del documento “Noi ci siamo, lanciamo la sfida”». Ma qui arriva il primo guaio: mentre il Prc organizza il suo referendum, salta il tavolo unitario a cui siedono Sel, ex Pd, Prc, Altra Europa, Act, più alcune personalità come Sergio Cofferati. Non basta aver raggiunto un accordo sulla fine della coalizione con il Pd quasi ovunque (non a Cagliari, resta aperto il caso delle primarie milanesi). La rottura avviene sulla morte dei partiti di provenienza: Sel ed ex Pd la pretendono, il Prc è contrario. L’assemblea di gennaio viene cancellata. E il documento finisce nell’archivio delle occasioni perse.
Ma la segreteria del Prc non fa una piega: mantiene la consultazione e il testo del quesito così com’è — peraltro per statuto non ha il potere di cambiarlo — facendolo accompagnare dall’avvertenza che se anche l’accordo con le altre forze politiche è saltato, quella resta la linea del partito.
E così va, secondo i dati comunicati in queste ore dal responsabile organizzazione Ezio Locatelli: 462 circoli riuniti finora, 12mila militanti coinvolti, 5185 votanti di cui 3700 sì (il 71,4 per cento) e 1175 no (il 22,7). Mancano all’appello alcune regioni ritardatarie, come Abruzzo e Sardegna, ma il dado è tratto. Il fatto che gli iscritti si siano espressi su un «processo politico» nel frattempo deragliato non preoccupa Ferrero: «L’indirizzo politico del corpo militante del partito è chiaro. Il tema del processo unitario per noi si svolge così. E consiglio di studiare bene il voto spagnolo, per capire che se Podemos avesse accettato ovunque la proposta di fronte popolare di Izquierda Unida, la sinistra spagnola ne avrebbe guadagnato ancora di più. Qui da noi chi vuole farsi un partito per i fatti suoi, se lo faccia».
Per capire quest’affermazione bisogna addentrarsi nel ginepraio della sinistra (politica) italiana, con tutte le cautele del caso: Ferrero non lo dice ma ce l’ha con chi, secondo la versione del Prc, ha fatto saltare il «tavolo» della «cosa unitaria» pretendendo lo scioglimento dei partiti: leggasi vendoliani ed ex Pd. E ce l’ha anche con i giovani che in seguito hanno promosso un nuovo appello e un nuovo appuntamento, stavolta per febbraio: di nuovo chiedendo ai partiti di «scrivere una nuova storia»: leggasi ’sciogliersi’. Per il Prc il tema non è e non può essere all’ordine del giorno, spiega il presidente del collegio dei garanti Gianluca Schiavon: «La battuta d’arresto nel processo unitario non deve farci desistere dall’obiettivo di un sinistra unita e ampia. Lo scioglimento del Prc non è a disposizione del gruppo dirigente ma, eventualmente, di una larghissima maggioranza congressuale».
Alla consultazione del Prc c’è anche chi ha detto no. E non per dire sì allo scioglimento del partito ma ’da sinistra’ per diffidenza sul percorso unitario, poi in effetti andato a sbattere. È il caso, fra gli altri, di Eleonora Forenza, giovane ricercatrice e eurodeputata dell’Altra Europa, lista che dopo un anno ha perso la capolista Barbara Spinelli, uscita dal gruppetto italiano per restare nei banchi della sinistra europea. Spiega Forenza: «Dopo che è saltato il tavolo del soggetto unitario ho chiesto che la consultazione fosse sospesa perché a quel punto il quesito non aveva più attinenza con la realtà. Non sono stata ascoltata. Per questo ho votato no». E comunque avrebbe votato no in ogni caso: «Non avrei avallato un processo che lasciava aperti troppi nodi e dubbi».

La Stampa 27.12.15
Le trappole tedesche per l’Italia
di Franco Bruni


La politica economica italiana termina l’anno con molte idee, ma pericolose esitazioni. Si è rinunciato a fare una rigorosa revisione delle spese e le riforme strutturali, dopo alcuni passi coraggiosi, sono rallentate. Le due cose sono collegate perché il miglior modo di tagliare le spese è fare le riforme. Il bilancio sottoposto al vaglio europeo cerca allora di sfruttare tutta la flessibilità che può esserci concessa. Ma il rapporto fra il debito e il Pil non scende anche perché se le riforme esitano, come è successo clamorosamente, per esempio, alla legge sulla concorrenza, il Pil cresce poco, anche in prospettiva.
In primavera la situazione verrà riesaminata in sede comunitaria. E’ importante che prima di allora il governo dia un colpo di reni. Tagli e riforme costano consensi fra gli elettori. Ma se un governo credibile li spiega bene, la maggioranza dei cittadini comprende e approva. Le riforme richiedono tempo per generare risparmi e aumentare la produttività; ma, se approvate con provvedimenti impegnativi, anticipano i loro effetti tramite le aspettative.
Le quali incoraggiano gli investitori, adattano i comportamenti dei settori in via di riforma, migliorano la credibilità internazionale del Paese. Basti pensare all’effetto immediato che avrebbe una radicale riforma della giustizia civile, per la quale non mancano idee e progetti, che vinca le resistenze corporative e prometta, per i prossimi anni, la certezza e celerità del diritto che servono per gli investimenti e la crescita.
Accelerare la revisione della spesa e le riforme assicurerebbe un miglior esito della concertazione con Bruxelles. La permanenza di un rapporto fra debito e Pil elevato come il nostro è tollerabile dalle regole europee solo se il deficit programmato si riduce ben sotto il 3% abbastanza rapidamente. Ma le regole sono effettivamente flessibili e consentono una riduzione più graduale del deficit se le riforme strutturali in corso sono evidenti e credibili e se i progetti di investimento con i quali si giustifica parte del deficit sono credibili. Allo stato attuale non è chiaro come la Commissione potrebbe concederci di passare gli esami se non dimostriamo almeno un colpo di reni su alcune riforme. Se l’esito degli esami fosse controverso anche i mercati potrebbero riprendere a speculare contro l’Italia, lo spread crescerebbe e tutto ritornerebbe più difficile. Anche perché navighiamo in un’area dell’euro dove rischiano di risorgere tensioni finanziarie contagiose anche nei confronti di Grecia, Spagna e Portogallo.
Una soddisfacente concertazione delle nostre politiche con Bruxelles favorirebbe anche un’evoluzione più favorevole del governo economico europeo. Siamo infatti in una fase delicata: soprattutto nell’ottica tedesca l’attuale sistema comunitario per disciplinare i bilanci e stimolare le riforme non pare dar risultati soddisfacenti. Non mancano i progressi, e l’Italia è fra i Paesi che ne hanno fatti di più, ma sono ritenuti, a ragione o a torto, troppo lenti e inadeguati. E i tedeschi sono convinti che, soprattutto nell’area dell’euro, saranno loro a pagare per la rilassatezza degli altri. Perciò in Germania si sta coltivando l’idea di forzare gli aggiustamenti con almeno due provvedimenti: considerare ufficialmente rischiosi i titoli di Stato, costringendo così le banche che li hanno in bilancio ad accantonare più capitale; e rendere automatica la ristrutturazione dei debiti pubblici dei Paesi che, magari solo perché i loro spread sono esasperati dalla speculazione, abbiano difficoltà finanziarie e chiedano aiuti europei. Le due misure stanno assieme perché se per i titoli di Stato è previsto un sistema di differimento automatico di rimborsi e pagamenti di interessi è indubbio che essi sono attività rischiose. I rendimenti sui titoli crescerebbero, ma le banche avrebbero problemi e salirebbe il costo del credito con tristi conseguenze per produzione e occupazione. Chi propone queste misure pensa che la paura di veder aumentare lo spread e, addirittura, di esser dichiarati automaticamente insolventi sul proprio debito pubblico, stimoli i Paesi ad aggiustare i conti e a fare le riforme con più speditezza che non quando sono sottoposti solo ai rimbrotti di Bruxelles. E la paura crescerebbe se la Bce fosse costretta ad attenuare o accorciare il periodo di espansione di liquidità con cui sta anche calmierando gli interessi sui titoli di Stato.
Sarà più facile evitare traumatici passi verso un sistema del genere, che per l’Italia sarebbe disastroso, se il nostro governo, pur sfruttando le flessibilità che l’Ue ci concede, darà presto maggiori assicurazioni circa la capacità politica di ridurre le spese e accelerare le riforme, delle quali ha peraltro il gran merito di aver più volte sottolineato l’importanza.

Corriere 27.12.15
Le banche tedesche e gli aiuti contro la crisi
di Danilo Taino


Ogni Paese va in crisi a modo suo. E ne esce a modo suo. In questi giorni si è molto parlato dei 270 miliardi che la Germania ha versato nelle casse delle proprie banche durante la crisi scoppiata nel 2008 e seguita negli anni successivi. Per paragonarla alla situazione italiana dove gli interventi sono stati molto minori. Detta così, la cifra però non spiega molto. Meglio capire di cosa si tratta. Sulla base dei numeri pubblicati dalla Commissione europea ed elaborati dal sito Phastidio.net, si nota che i cosiddetti aiuti non sono un blocco unico ma sono costituiti da tre categorie: le ricapitalizzazioni delle banche, i cosiddetti asset relief , le garanzie emesse a favore degli istituti.
   In termini di ricapitalizzazioni, tra il 2008 e il 2013 — cioè nel periodo critico della crisi — il governo tedesco è intervenuto nel capitale delle banche per 64,17 miliardi , il 2,34% del Pil della Germania. Questo esborso di denaro è stato in larga parte determinato dal fatto che più del 35% del sistema bancario tedesco è pubblico: ogni qualvolta avviene un aumento di capitale, lo Stato deve fare la sua parte. Situazione discutibile in un’Europa che si dice a favore di un mondo del credito separato dallo Stato: obbligatorio però quando si trattava di evitare crolli bancari che avrebbero moltiplicato gli effetti della crisi. In termini di asset relief , invece, Berlino è intervenuta con 79,97 miliardi . Si tratta di interventi con i quali lo Stato si prende in carico crediti di bassa qualità delle banche ma con un meccanismo di penalizzazione di queste piuttosto radicale e stabilito dalla Commissione europea per impedire che si trasformi in aiuto di Stato.
   Nel complesso, dunque, il governo tedesco non ha aiutato le banche con 270 miliardi ma con poco più di 144 miliardi , il 5,3% del Pil. Nello stesso periodo, l’Italia è intervenuta con soli 7,5 miliardi di ricapitalizzazioni, lo 0,5% del Pil: sostanzialmente per vincoli del bilancio pubblico. A questo, vanno aggiunte le garanzie. Al picco, sono arrivate a quasi 140 miliardi in Germania ( 5,11% del Pil) e a quasi 86 miliardi in Italia ( 5,49% ). A fine 2013 , però, le garanzie tedesche erano ridotte a tre miliardi mentre quelle italiane rimanevano a quasi 82 miliardi . Di base, a stabilire il modo di affrontare una crisi sono soprattutto le caratteristiche di un sistema bancario e le possibilità effettive del bilancio pubblico che ci sta dietro.

Il Sole 27.12.15
Spagna, Italia, Italicum
Se l’Europa fa i conti con tre poli
di Luca Ricolfi


Forse nei paesi europei del Nord il problema non è ancora evidente, ma nei paesi mediterranei sì: le fratture che dividono gli elettori sono almeno due. C’è la vecchia frattura fra destra e sinistra, sempre meno nitida. E c’è la nuova frattura, sempre più profonda, fra chi ancora si riconosce nel progetto europeo e chi vorrebbe buttarlo alle ortiche.
Il segno più riconoscibile del cambiamento sono i nuovi partiti anti-europei di massa: Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, il Fronte nazionale di Marine Le Pen in Francia, ma anche il Blocco di sinistra in Portogallo che alle ultime elezioni (ottobre 2015) ha superato il 10% dei consensi.
E in Italia?
In Italia i partiti esplicitamente anti-europei sono addirittura tre: Movimento Cinque Stelle, Lega Nord, Fratelli d’Italia. Messi insieme raccolgono circa il 50% delle preferenze espresse.
Questo significa che, ormai, i nostri sistemi politici stanno diventando tripolari, con un terzo polo anti-europeo contrapposto ai due poli tradizionali della destra e della sinistra? Dobbiamo pensare che il conflitto politico in Europa sarà sempre più una lotta a tre, fra destra, sinistra e anti-europei?
Propendo per il no, e questo per due distinti motivi.
Il primo è che l’ostilità nei confronti delle istituzioni europee è un sentimento molto diffuso anche nelle formazioni politiche più tradizionali. Un partito di destra tradizionale come Forza Italia non si può certo definire europeista. Quanto ai partiti di matrice socialista, la critica dell’austerity europea è ormai diventato il loro leitmotiv, se non il loro principale tratto comune. Persino un partito ben poco socialista come il Partito democratico renziano non manca, all’occorrenza, di cavalcare gli umori anti-europei dell’elettorato. Tutto ciò fa sì che, quando esistono, le forze politiche esplicitamente anti-europee finiscano per raccogliere qualche simpatia anche fra gli elettori dei partiti fondamentalmente europeisti.
A quanto pare la frattura fra destra e sinistra e quella fra amici e nemici dell’Europa si intersecano, e possono dar luogo a quattro segmenti di elettorato, e non solo a tre: ci sono i popolari e i socialisti, ma chi è anti-europeo può esserlo da destra (tipicamente, perché vuole meno immigrazione) o da sinistra (tipicamente, perché vuole meno austerità).
Ma c’è anche un secondo motivo per cui non è detto che i sistemi politici europei evolvano inesorabilmente verso qualche forma di tripolarismo. Lo ha illustrato assai bene su questo giornale Roberto D’Alimonte commentando il recente esito delle elezioni spagnole. Dalle urne sono usciti ben quattro partiti importanti, fra cui due tradizionali (Popolari e Socialisti) e uno nettamente anti-europeo (Podemos), ma il sistema politico – pur avendo cessato di essere bipartitico – non è per questo diventato tripolare, né tantomeno quadripolare. E questo per il semplice motivo che i primi due arrivati sono i Popolari e i Socialisti, ossia due forze politiche classiche, e anche il terzo e il quarto arrivato (Podemos e Ciudadanos) hanno una collocazione politica chiara sull’asse destra-sinistra, con Podemos più vicino ai Socialisti e Ciudadanos più vicino ai Popolari. Se la legge elettorale prevedesse un ballottaggio fra i due principali vincitori (Popolari e Socialisti), l’elettorato sarebbe chiamato a scegliere fra due alternative politiche relativamente chiare e ben delineate, e gli elettori anti-europei (Podemos) si limiterebbero, come è fisiologico in democrazia, a votare l’alternativa meno sgradita. In questo senso è giusta la posizione di chi vede nell’Italicum un buon antidoto al caos parlamentare che attende la Spagna.
Ma in Italia?
In Italia tutto fa pensare che il nostro sistema politico non sia più bipolare, anche ammesso che lo sia mai stato. Da noi un polo anti-Europa molto robusto esiste già, ed è guidato dal Movimento Cinque Stelle, che non è classificabile né come una formazione politica di destra, né, a dispetto dei desideri della sinistra antirenziana, come una formazione politica di sinistra. È vero, semmai, che il populismo anti-europeo di Grillo esercita qualche attrazione anche negli elettorati di forze politiche tradizionali come Fratelli d’Italia, Lega Nord, Sel, nonché nel variopinto mondo dei nemici di Renzi “da sinistra”.
Insomma, se domani ci fossero elezioni i poli sarebbero tre e non due. A meno che la destra si inabissi come l’isola di Atlantide, lo scontro politico vedrà protagonisti il Pd, il Movimento Cinque Stelle, e un Centro-destra più o meno unito (e più o meno salvinizzato).
Sarebbe un problema?
Con l’attuale legge elettorale, ovvero con l’Italicum, lo sarebbe. È paradossale, ma l’Italicum, nato per risolvere i problemi dell’Italia, appare tanto adatto alla Spagna quanto inadatto all’Italia. Un sistema che manda al ballottaggio i due principali partiti e conferisce al vincitore del ballottaggio la maggioranza dei seggi parlamentari è perfetto dal punto di vista della governabilità, ma lo è per definizione, come qualsiasi altro meccanismo (compreso il sorteggio), che generi un vincitore e gli dia automaticamente più della metà dei seggi. La prova del nove dei sistemi elettorali “automatici” non è ovviamente la governabilità (che è tautologicamente soddisfatta), ma la capacità di non rendere troppo casuale e arbitraria la scelta del vincitore. E questa, sfortunatamente, non è una proprietà intrinseca dei sistemi elettorali, come non è una proprietà intrinseca di un abito quella di vestire bene una persona. Non vedrei mai bene una giacca di Fassino addosso a Brunetta, ma non mi permetterei mai di dire che è una cattiva giacca.
Così è per l’Italicum. Può essere un ottimo sistema in Spagna, forse anche altrove, ma in Italia?
In Italia le preferenze elettorali, piaccia o non piaccia, si strutturano intorno a tre poli. Il guaio dei sistemi tripolari è che è maledettamente difficile escogitare un meccanismo che, fra i tre ballottaggi possibili (A contro B; A contro C; B contro C) faccia emergere quello davvero più importante, dove per importante intendo capace di mantenere alta la partecipazione, e farlo intorno a due veri progetti di governo. Non solo, ma è perfettamente possibile che il destino di un governo uscente sia deciso da qualcosa di alquanto accidentale, come può essere l’ordine di arrivo dei partiti al primo turno.
Esemplifico con il caos italiano. Tutti i sondaggi danno per scontato il fatto che il partito al governo (il Pd), che è anche il maggiore partito italiano, risulti il partito più votato al primo turno, e vada quindi al ballottaggio. Supponiamo che questa previsione assai ragionevole si avveri, e che il Pd conquisti il solito 30-35% dei voti (quota Veltroni-Berlinguer). Ma chi sfiderà il Pd al ballottaggio? Questo non solo è imprevedibile, ma è fortemente dipendente da circostanze decisamente contingenti, che ben poco hanno a che fare con le reali preferenze dell’elettorato. Il Centro-destra, ad esempio, potrebbe andare al voto con una coalizione più o meno ampia, e l’estrema sinistra potrebbe fare o non fare un’alleanza elettorale con il Pd. Tutte faccende che riguardano i movimenti dell’offerta politica, non certo gli orientamenti politici dei cittadini.
Ma i medesimi sondaggi che rivelano che il Pd è il probabile vincitore del primo turno, mettono in evidenza che, nel secondo turno, il destino del Pd (e quindi del governo Renzi) dipende in modo cruciale da chi lo sfiderà, ossia da chi sarà arrivato secondo nel primo turno: se il secondo arrivato (dietro il Pd) è il Centro-destra, il Pd vince il ballottaggio e Renzi resta in sella; se il secondo arrivato è il Movimento Cinque Stelle, il Pd perde il ballottaggio e Renzi deve tornare a casa.
È ragionevole un meccanismo del genere?
Se i poli sono due, come in Spagna e in altri paesi europei, sì. Se i poli sono tre, e inoltre attirano più o meno i medesimi consensi, direi proprio di no. In Italia Movimento Cinque stelle e Centro-destra, i due sfidanti del partito al governo, sono entrambi prossimi al 30% dei voti. È perfettamente possibile che al primo turno ottengano percentuali simili. Al limite, se Grillo prende 1 voto in meno del Centro-destra il Pd resta al governo, se Grillo prende 1 voto di più del Centro-destra il Pd va all’opposizione. La sfida principale, tenerci il governo uscente o cambiarlo, viene decisa dalla sfida secondaria fra gli oppositori del governo.
Forse, prima di entusiasmarci delle virtù dell’Italicum, dovremmo riflettere ancora un po’ sui suoi difetti.

Repubblica 27.12.15
Via alla vendita delle 4 nuove banche
Oliver Wyman e Société Generale saranno advisor per le cessioni, mentre è nata la spa Rev per la bad bank Azioni legali solo contro i vecchi istituti in liquidazione che sono scatole vuote e rendono difficili i risarcimenti
di Andrea Greco


MILANO Ognuno per la sua strada. Le “nuove” quattro banche Marche, Etruria, Cariferrara, Carichiesti hanno annunciato, dopo i cda riuniti il 23 dicembre che «in linea con la direttiva del Bail-in e con la norma italiana di recepimento, non sono titolate ad attivare nuove azioni di responsabilità e al contempo non possono essere oggetto di azioni dei precedenti soci e obbligazionisti subordinati». Chi intende rivalersi contro le condotte dei vecchi amministratori, già allontanati e in qualche caso indagati, dovrà quindi farlo sulle quattro “vecchie” banche. Solo che ormai sono scatole semivuote, poste in liquidazione coatta amministrativa dal Tesoro.
Le quattro “nuove” banche invece, «al lavoro per tornare a sostenere i territori e le loro comunità », proseguono nel percorso previsto dai rigidi paletti della normativa Ue. In queste ore è in dirittura la nomina degli advisor: che sarebbero Oliver Wyman che aveva già assistito il Fondo interbancario nei tentativi (stoppati dall’Ue) di intervenire sulle quattro banche - come consulente strategico, mentre Société Generale per l’assenza di conflitti di interesse si sarebbe aggiudicata il mandato di advisor finanziario. Insieme dovranno indicare ai cda guidati da Roberto Nicastro il percorso e le condizioni migliori per cedere le quattro attività. Dossier non semplice: Bruxelles vuole chiudere tutto per giugno 2016, realizzando un processo trasparente e competitivo (sono previste aste pubbliche) e soprattutto evitando che 3,6 miliardi erogati dal Fondo per i salvataggi favoriscano i compratori, pena l’aiuto di Stato. La fretta, però, non fa negoziare bene: c’è il rischio che si debbano cedere i quattro istituti in blocco, comunque a sconto rispetto al loro valore, perché inevitabilmente i compratori offriranno condizioni “prendere o lasciare” per impieghi, marchi e filiali; con possibili ritorsioni sulla tenuta occupazionale dei 6mila dipendenti, cui nella nota del 23 i cda hanno espresso «profonda riconoscenza per la passione e l’impegno».
Se la strada dei “nuovi” è in salita ma chiara, quella dei “vecchi” risparmiatori è un ponte nel vuoto. Mercoledì è stata costituita la Rev spa, nome della società della bad bank che acquisirà gli 8,5 miliardi di sofferenze dei quattro gruppi (svalutati a 1,5 miliardi, su diktat dell’Ue) e sarà presieduta da Livia Pomodoro. Mentre non sono ancora chiari i contorni dell’attivo e del passivo delle “vecchie banche” su cui ex soci e obbligazionisti subordinati dovrebbero rivalersi. «Il governo è ancora in tempo a riparare i danni subiti da 130mila famiglie espropriate nel caso banche hanno chiesto Adusbef e Federconsumatori - dia rimborsi integrali, invece delle elemosine arbitrali che i truffati non accetteranno mai: basterebbero due anni del dividendo che Bankitalia gira alle banche sue socie». Ad Arezzo intanto il vescovo Riccardo Fontana nell’omelia di Natale ha detto: «In questo anno della misericordia voglio ben sperare che chi ha potere di aggiustare le cose non dimentichi coloro che, senza colpa, hanno perso i loro modesti risparmi».

Il Sole 27.12.15
Inchiesta parlamentare, dubbi e tempi lunghi
Anche al Quirinale timori per i potenziali rischi sistemici
Più cautela nel Pd
di Barbara Fiammeri


ROMA Nulla è ancora deciso. Per capire se davvero si arriverà alla commissione d’inchiesta sul sistema bancario bisognerà saggiare il clima alla ripresa dei lavori parlamentari. Anche la scelta del Pd, con il ddl presentato da 42 senatori per l’istituzione di una commissione d’inchiesta chiamata a “investigare” su banche e credito negli ultimi 15 anni, non va letta come una scelta irreversibile. È stata anzitutto una reazione politica, per rispondere all’assedio contro il governo provocato dal caso delle quattro popolari in cui è coinvolto anche il padre del ministro Maria Elena Boschi.
A frenare i propositi più bellicosi, anche lo scetticismo e le preoccupazioni ai massimi livelli istituzionali. Il Quirinale non si pronuncia su una materia che è di competenza parlamentare, ma nei suoi colloqui istituzionali ha espresso preoccupazione per i rischi sistemici di iniziative che possano delegittimare istituzioni importantissime per la tenuta del Paese, come per esempio la Banca d’Italia, soprattutto in questa fase di sfiducia verso il mondo delle banche. Mattarella nel suo discorso alle alte cariche del 21 dicembre ha apertamente chiesto che si accertino con rigore le responsabilità di chi ha truffato i risparmiatori, ma senza sollevare polveroni che rischiano di creare danni sistemici molto gravi.
Che anche il Pd non abbia ancora scelto (e che anche Renzi si lasci aperte tutte le strade) lo conferma il fatto che primo firmatario del ddl per l’istituzione della commissione d’inchiesta sia stato il renziano Andrea Marcucci e non invece il capogruppo dem di Palazzo Madama Luigi Zanda. Una decisione presa proprio per consentire a Zanda di avere maggiore libertà d’azione nel confronto non solo con le altre forze politiche ma innanzitutto con i senatori del Pd. La proposta Marcucci è stata infatti sottoscritta da altri 41 senatori democratici, di cui però solo uno (Vannino Chiti) della minoranza interna. La scelta della commissione d’inchiesta per indagare su un arco di tempo così lungo non è condivisa dalla minoranza e neppure da alcuni settori della maggioranza (vedi Pier Ferdinando Casini).
La Costituzione assegna alle commissioni d’inchiesta gli stessi poteri e limiti dell’autorità giudiziaria. Questo significa che può acquisire documenti o procedere all’interrogatorio di testimoni anche in forma coattiva. Peraltro non è neppure scontata la segretezza, visto che già in altri casi le sedute sono state pubbliche. Ecco perché al timore per rischiose sovrapposizioni con le indagini portate avanti dalla magistratura, si somma la preoccupazione per un uso improprio dello strumento parlamentare, che più che chiarire eventuali responsabilità potrebbe trasformarsi in un palcoscenico per il protagonismo dei politici anche a costo di compromettere il rapporto con altre istituzioni, a partire da Bankitalia e Consob.
Alla ripresa dei lavori parlamentari il confronto entrerà nel vivo. Anche perché a chiedere l’istituzione della commissione d’inchiesta non è solo il Pd. Fi ha già presentato un suo ddl in cui si propone però di circoscrivere l’«inchiesta» alle vicende delle quattro banche popolari. C’è poi la proposta dei fittiani, presentata dal capogruppo di Cr Cinzia Bonfrisco, che punta a indagare sull’attuale sistema di «regole e controlli» e, infine, quella del gruppo delle Autonomie.
Sul confronto peseranno inevitabilmente eventuali novità che potranno arrivare dal fronte giudiziario visto il coinvolgimento nell’inchiesta del padre del ministro Boschi. È quello su cui puntano Fi e Lega, che a Palazzo Madama hanno presentato una mozione di sfiducia contro il governo che verrà calendarizzata subito dopo la riapertura dei battenti di Palazzo Madama. Nel frattempo bisognerà decidere anche l’assegnazione delle proposte per l’istituzione della commissione d’inchiesta. In realtà la proposta di Fi è già stata assegnata alla commissione Finanze, dove a questo punto è probabile arriveranno anche gli altri ddl.
Ma il dato più rilevante sarà la scelta dei tempi. Perché è un dato politico. Se ci fosse la volontà di procedere speditamente, l’approvazione del disegno di legge istitutivo della commissione d’inchiesta potrebbe avvenire in sede deliberante, ovvero attraverso la sola approvazione della commissione e, quindi, senza la necessità del voto dell’Aula. Di conseguenza entro un paio di mesi potrebbe essere istituita. Al contrario, se si dovesse decidere di ponderare maggiormente la scelta, potrebbe non bastare quel che resta della legislatura.

La Stampa 27.12.15
Cultura, finita la stagione dei tagli
Lo Stato mette sul tavolo 2 miliardi
di F.S.


«Grazie anche agli importanti miglioramenti introdotti nel corso del dibattito parlamentare, la cultura è diventata il cuore e l’anima della legge di stabilità». Giovedì, la vigilia di Natale, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini era al fianco del premier Renzi a inaugurare sei domus restaurate a Pompei («è stato fatto un lavoro importante e silenzioso, e facendo squadra vinceremo molte altre sfide», la promessa). Ieri, poi, ha fatto un calcolo del bilancio dell’anno che verrà per la cultura, così com’è stato tratteggiato dalla legge di stabilità appena approvata in Parlamento. E se n’è rallegrato: il bilancio per il comparto nel 2016 - fa sapere l’ex segretario del Pd, ormai tutto concentrato sulla cultura - andrà a superare i due miliardi di euro, il 27 per cento in più rispetto all’anno che si sta chiudendo.
Come saranno impiegati quei fondi? Intanto, in deroga ai limiti imposti per le altre realtà della Pubblica amministrazione, il comparto culturale potrà fare ricorso a un concorso per assumere a tempo indeterminato cinquecento professionisti del settore – archeologi come architetti, archivisti, antropologi, bibliotecari. Poi è stato reso permanente l’Art bonus, ossia l’agevolazione fiscale al 65 per cento per chi faccia donazioni a sostegno della cultura, che sia il restauro di un bene o un aiuto a una fondazione lirico sinfonica. Rafforzati i tax credit per il cinema; possibilità per tutti i contribuenti che lo desiderino di destinare il 2 per mille della propria denuncia dei redditi ad associazioni culturali; 50 milioni per realizzare un sistema di ciclovie turistiche e intervenire sulla sicurezza della ciclabilità cittadina, e tre milioni per creare itinerari turistici a piedi. Ventotto milioni in quattro anni andranno a Matera, capitale europea della cultura nel 2019; un milione di euro per finanziare festival, cori e bande. Come ampiamente annunciato da Renzi, poi, 500 milioni saranno a disposizione per «rammendare» le periferie, e 500 per distribuire il bonus cultura ai neodiciottenni. «Dopo gli anni dei tagli - esulta Franceschini - crescono le risorse per la cultura».

Il Fatto 27.12.15
Giglio magico
Firenze capitale degli appalti affidati senza gara
Negli anni di Renzi e Nardella l’87% dei lavori è stato assegnato con procedura negoziata, metodo esposto a corruzione e clientelismi
di Ferruccio Sansa


Firenze tra il 2011 e il 2014 è in vetta tra le città metropolitane per appalti assegnati con procedure negoziate, cioè senza una vera e propria gara. Parliamo dell’87,2 per cento degli affidamenti tra 40 mila a 200 mila euro. Cioè 27 per cento sopra la media nazionale”. A parlare è il professore Stefano Poli, docente di sociologia a Genova, che ha condotto una ricerca a partire dai dati dell’Autorità Anticorruzione e del Censis.
SIAMO nell’Aula Magna dell’ateneo ligure dove si svolge il convegno “Riflessioni sulla cultura della legalità”. Poli punta il dito sulle procedure negoziate che sono ammesse dalla legge, ma che, prevedendo meno garanzie, rischiano proprio di lasciare uno spiraglio aperto ai clientelismi e alla corruzione.
Come ricorda un investigatore della Guardia di Finanza che si è occupato di tante inchieste di corruzione: “Il rischio, tra gli altri, come hanno evidenziato le indagini svolte in ogni regione d’Italia, è quello degli spezzatini, cioè gli appalti divisi in tante piccole fette per poter restare sotto la soglia prevista dalla legge”.
Ed ecco allora la tabella che mette a confronto le città metropolitane e indica quanto spesso facciano ricorso all’insidiosa procedura negoziata. La poco invidiabile maglia rosa spetta proprio a Firenze. I dati si riferiscono al triennio 20112014, cioè al periodo in cui fu sindaco Matteo Renzi e all’esordio del suo delfino, Dario Nardella (che è stato anche vice-sindaco dell’attuale premier). A Firenze, secondo i dati, quasi nove appalti su dieci sarebbero stati affidati con procedura negoziata. Si parla di 2.720 casi su 3.119.
La città toscana – questo forse il dato più significativo – è di gran lunga in testa tra le città metropolitane prendendo in considerazione il valore complessivo degli appalti: il 50,5 per cento è stato assegnato così per un valore di 271 milioni di euro su 536 milioni totali. La media nazionale secondo questo parametro non supera il 27,5 per cento.
Tornando invece al numero di appalti (e non al loro valore), tra i capoluoghi il primo posto spetta ad Aosta (89,9 per metropolitane. Al secondo posto c’è Roma: 86,5 per cento. Un risultato che va condiviso tra le giunte di Gianni Alemanno e Ignazio Marino, anche se il primo cittadino di centrodestra si è sempre affrettato a scaricare il barile sul suo successore.
A COLPIRE, riguardo alla Capitale, non è soltanto la percentuale, ma proprio il valore assoluto: parliamo di 1,6 miliardi di appalti (il 33,1 per cento del totale), cioè quattro volte il dato di Milano. Nel capoluogo lombardo amministrato da Giuliano Pisapia, l’83,3 per cento degli appalti viene affidato con procedure negoziate, ma per valori percentualmente molto più bassi rispetto a Roma e soprattutto a Firenze: 409 milioni di euro, cioè il 14,3 per cento del totale dei contratti siglati.
Come segnala l’Anticorruzione, il 60 per cento degli appalti pubblici vengono affidati con procedura negoziata. “Ma nei grandi comuni – ricorda il professor Poli – si sale all’81 per cento”. Quali sono quelli più “virtuosi”? Tra le città metropolitane al Nord ci sono Genova (79,4 per cento) e Torino (72,6 per cento). Ma colpiscono soprattutto i dati relativi alle città del Centro e del Sud: nella Napoli di Luigi De Magistris siamo al 55,2 per cento per numero di appalti, che vale un 17,8 se si considera il valore complessivo. Ma salta agli occhi il dato di Palermo (sindaco Leoluca Orlando): appena 88 procedure negoziate su 759 appalti, cioè l’11,6 per cento. Addirittura 4,3 per cento se si considera il valore.
Ma colpisce anche l’aumento esponenziale del ricorso alla procedura negoziata rispetto al triennio precedente (20072010). A Firenze, per esempio, nel settore “Lavori” si è passati dal 28,5 per cento al 94,4, mentre per i “Servizi” dal 27,2 all’85,5. Per le “forniture” infine dal 52,8 al 73,2. Un dato, va detto, che vale per tutte le città italiane e che è anche conseguenza dell’innalzamento del tetto massimo previsto dalla legge. A Milano si è passati da appena il 4,9 per cento per i “lavori” al 38,4. A Perugia dallo zero per cento (secondo il dato dell’Anticorruzione) all’88 per quanto riguarda i “servizi”. A Catanzaro per le “forniture” si è passato da zero al 97 per cento di appalti affidati senza una vera e propria gara. Nel giro di appena tre anni.
La Procedura negoziata è una delle procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture da parte di un ente pubblico che consulta un numero limitato di operatori economici selezionati e dotati delle caratteristiche richieste. Con essi negozia le condizioni dell’appalto. Niente di illegale, ma certo una procedura “spiccia”, che garantisce minori controlli contro la corruzione.

il manifesto 27.12.15
A Milano stop totale al traffico. A Roma no: comanda Confcommercio
Smog oltre i limiti di legge, picchi di Pm10. Ma il commissario Tronca fa dietrofront e patteggia due giorni a targhe alterne. Nella Capitale, Natale senza metro. La Lega contro Pisapia: «Il blocco non serve»
di Gilda Maussier


Roma e Milano soffocano. Le centraline di rilevamento degli inquinanti atmosferici registrano picchi ben oltre i limiti di legge. Preoccupa soprattutto la concentrazione del Pm10 che si è attestata nel capoluogo lombardo da ben 31 giorni consecutivi a quote comprese fra 57 e 67 microgrammi per metro cubo, contro la soglia massima prevista, su disposizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, di 50 µg/m3. E Roma non sta meglio: le polveri sottili vanno dai 49 µg/m3 della Garbatella ai 78µg/m3 di Largo Preneste.
Eppure se a Milano il sindaco Pisapia corre ai ripari con il blocco totale del traffico (auto e moto) per tre giorni, da domani a mercoledì 30 dicembre, nella Capitale invece a dettare legge sono solo i desiderata delle categorie commerciali — in difficoltà per il flop del Giubileo — e i bisogni degli 11.900 dipendenti dell’Atac (l’azienda municipalizzata che incassa solo il 38% degli introiti contabilizzati a Milano dall’Atm).
E il commissario straordinario Tronca si adegua: Natale senza metropolitane, niente blocco del traffico nei giorni di fine anno ma solo targhe alterne per domani e dopodomani, e per il resto si vedrà. Il Campidoglio precisa infatti che sono «ancora in corso le valutazioni sui provvedimenti di limitazione del traffico per tutte le giornate post-natalizie, sulla base dei dati scientifici e delle rilevazioni tecniche tuttora in atto».
Complice il persistere dell’alta pressione, l’inquinamento ha raggiunto livelli oltre il consentito anche in altre città, da Torino a Frosinone, da Bergamo a Cassino, da Como a Mantova, da Lodi a Pavia. Ma per il segretario della Lega nord, Matteo Salvini, il blocco totale voluto da Pisapia «è una cazzata che non risolve i problemi dell’aria (che fa schifo) ma disturba solamente chi vorrebbe lavorare». E stavolta a dargli ragione è perfino il vicecapogruppo consiliare del Pd di Torino (dove è in vigore da ieri e fino al 29 dicembre il «biglietto antismog» che abbatte i costi dei mezzi pubblici): «Il problema dello smog si combatte strutturalmente nel tempo e non illudendo con provvedimenti spot inefficaci», dice Silvio Viale.
Verissimo, ma una cosa non esclude l’altra. In ogni caso, anche a Roma il commissario Tronca ha deciso di dare un piccolo segnale di incoraggiamento all’uso dei mezzi pubblici. Un atto dovuto, dopo il caos generato nel giorno di Natale dal suo via libera alla chiusura anticipata alle 13 delle tre linee di metropolitana. E così, nella due giorni a targhe alterne il biglietto singolo Atac da 1,50 euro avrò validità per l’intera giornata.
Nessun blocco totale, però, come previsto in un primo momento. E soprattutto come previsto prima dell’incontro tra il prefetto (voluto da Renzi al posto del sindaco) e il presidente di Confcommercio Roma, Rosario Cerra. Incontro durante il quale — spiega una nota ufficiale capitolina — «si è discusso, tra le altre cose, dell’eccezionale momento di persistente inquinamento nell’aria» e «si è convenuto che, qualora si configurasse la necessità di adottare ulteriori provvedimenti emergenziali, la linea delle misure da attuare venga discussa e condivisa con le categorie interessate». In particolare, continua il Campidoglio, «una specifica attenzione sarà posta al primo week end del nuovo anno, che coincide con l’inaugurazione dei saldi per gli acquisti».
Ma se nel giorno di Natale le centraline a Milano hanno registrato un sensibile, anche se non sufficiente, calo delle polveri sottili, a Roma i picchi di Pm10 sono rimasti praticamente invariati. «È un chiaro segno che non si fa abbastanza per tutelare la salute di noi cittadini, impegno che deve venire prima della salvaguardia della libertà di circolazione — dichiara il portavoce dei Verdi di Roma Gianfranco Mascia — Non capiamo il ritorno alle targhe alterne che, alla luce del parco auto circolante nella capitale, consente comunque a 1,3 milioni di macchine di scorrazzare e di emettere quasi il 50% dei Pm10 presenti nell’aria». I Verdi chiedono al commissario Tronca «di riproporre la chiusura totale del traffico, magari unendo al biglietto unico anche un autobus navetta che percorra il Lungotevere nei due sensi di marcia per salvaguardare la vita sociale e commerciale del centro storico».

Corriere 27.12.15
Negli Usa una campagna presidenziale infuocata
di Giuseppe Sarcina


Nel giorno di Natale a Hope, in Arkansas, un motociclista sconosciuto ha appiccato il fuoco nella casa natale dell’ex presidente Bill Clinton. Sempre il 25 a Houston, in Texas, un incendio doloso ha danneggiato l’Islamic Center. Due macchie, due brutti segnali nella «stagione delle feste» celebrata con la solita voracità commerciale e con un profluvio di buoni propositi. Il presidente Barack Obama e la moglie Michelle hanno diffuso un messaggio registrato sotto l’albero, celebrando i buoni sentimenti della «grande famiglia americana».
Ma il 2015 è stato l’anno del contrasto, non dell’armonia. Certo non sarebbe corretto stabilire una relazione diretta tra gli attacchi verbali di Donald Trump ai musulmani e, da ultimo,
a Hillary Clinton con le fiamme che arrivano dall’Arkansas e dal Texas.
Non c’è dubbio, però, che siano il risultato, o forse solo l’inizio, di un clima politico e sociale carico di t ensioni. Il Consiglio delle relazioni islamico-americane, che tiene il conto degli atti di vandalismo o di intimidazione contro le moschee negli Stati Uniti, riferisce che il 2015 è stato l’anno peggiore da quando, sei anni fa, cominciò questo tipo di monitoraggio. Il linguaggio usato dai candidati, non solo da Trump, sta concentrando l’attenzione sull’identità personale degli avversari, più che sulle loro idee. È una deriva sempre pericolosa. Bill Clinton annuncia che da gennaio tornerà a fare campagna elettorale in favore della moglie Hillary? In altri tempi qualcuno si sarebbe affrettato a compilare un dossier per mettere in luce le contraddizioni tra la visione di Bill e quella di Hillary. Adesso, invece, c’è chi si sente autorizzato a procurarsi una tanica di benzina e a dar fuoco a una casetta dichiarata nel 2011 «luogo di interesse storico nazionale». Più facile che studiare. Più pericoloso per tutti gli americani.

La Stampa 27.12.15
Affari e giudici corrotti
Il film che sbanca il Web e fa arrabbiare Putin
Milioni di clic per il documentario choc dell’oppositore Navalny
3,2 milioni Le visualizzazioni su YouTube in una settimana del documentario
di Mark Franchetti*


La festa di apertura dell’hotel di lusso Pomegranate, sul mare della Grecia, era stata sontuosa. I suoi ricchi proprietari russi non avevano badato a spese per intrattenere centinaia di ospiti Vip volati lì soprattutto da Mosca. Si esibiva una delle più amate popstar russe e a salutare gli ospiti c’era Vladimir Medinsky, ministro della Cultura di Vladimir Putin.
C’erano champagne alla spina e originali fuochi d’artificio e un laser show che si era concluso con un gigantesco tricolore russo proiettato su tutto l’edificio. Anche il fioraio arrivava da Mosca.
In un primo momento l’apertura dell’hotel, due anni fa, sembrava l’ennesimo racconto, quasi un luogo comune, sui ricchi russi che spendono generosamente all’estero. Ma ora è al centro del più discusso caso di corruzione degli ultimi tempi che collega presumibilmente alti magistrati con una delle più scellerate bande criminali del Paese.
Ad avviare le indagini è stato Alexei Navalny, il più importante leader dell’opposizione russa. Gli attivisti della sua fondazione anticorruzione hanno indagato per nove mesi gli interessi commerciali dei figli di Yuri Chaika, procuratore generale della Russia. I loro risultati sono stati prontamente divulgati in un documentario di 45 minuti postato su YouTube.
Boom online
Nel video una delle accuse più devastanti è che Artyom Chaika - figlio maggiore del pubblico ministero e uno dei principali proprietari del Pomegranate - co-gestisca l’hotel con un partner commerciale che ha avuto legami con due capibanda condannati per un uccisione di massa di 12 persone, tra cui quattro bambini. Più significativo ancora della natura delle accuse è che 3,2 milioni di persone abbiano visto il filmato di denuncia nella prima settimana dalla divulgazione. Per tre giorni è stato il video più popolare sul web russo – il primo caso per un film che racconta una serie di complessi intrecci di corruzione.
L’interesse pubblico senza precedenti è notevole dato il controllo rigoroso del Cremlino sui media russi.
«Quando ho sentito parlare per la prima volta di legami criminali non ci credevo, non può essere vero, è troppo assurdo ho detto ai miei collaboratori», racconta Navalny. «Ma, incredibilmente, è tutto vero. È come un film di mafia. L’altra cosa che non mi aspettavo è la grande attenzione che abbiamo suscitato. Ha smosso gli animi perché è così scioccante e la gente lo guarda e dice: ok sappiamo che la corruzione è endemica, ma questo è davvero troppo».
Il film, che secondo alcuni è un «video bomba», sostiene che oltre a essere comproprietaria del Pomegranate con Chaika, Olga Lapatina, ex moglie di un sostituto procuratore, era in affari con le mogli dei due capi della banda Tsapok, che terrorizzò una regione nel sud della Russia con stupri e rapine.
Secondo l’inchiesta di Navalny inoltre, Artyom Chaika, 39 anni, risulta coinvolto nell’esproprio di una compagnia di navigazione nell’Estremo Oriente russo il cui direttore fu presumibilmente strangolato. Si sostiene che i pubblici ministeri locali la cui carriera dipende dal padre di Chaika aiutarono Artyom a strappare il controllo dell’azienda.
Il documentario sostiene anche che delle gare per contratti pubblici lucrativi sono stati truccate a beneficio del fratello di Artyom, Igor, 27 anni. «Quello che fa Artyom Chaika non ha alcun rapporto con gli affari», dice Navalny nel film. «È banditismo, è razziare e intimidire la gente usando l’ufficio del Procuratore Generale russo guidato da Yuri Chaika ... Il figlio del procuratore capo è il fulcro di una vasta rete di corruzione costituita sotto la protezione del padre».
Il film, molto duro, sostiene che i fondi investiti da Artyom Chaika in conti bancari, attività commerciali e proprietà immobiliari in Grecia e Svizzera sono in parte il risultato di attività illegali. Il leader dell’opposizione ha passato le informazioni alle autorità svizzere dove, dice, Chaika ha preso la residenza, chiedendo loro di aprire contro di lui un fascicolo per riciclaggio di denaro. «Dovrebbero davvero agire, ma si tratta di una decisione politica», ha detto Navalny. Yuri Chaika ha denunciato il film come «menzognero e privo di fondamento».
Il Cremlino ha detto che le accuse formulate nel film non sono di alcun interesse, in quanto non riguardano la persona del procuratore generale - un commento che i critici di Putin hanno ampiamente ridicolizzato.
Il blogger condannato
Navanly, 39 anni, che è stato arrestato in numerose occasioni, è stato condannato per appropriazione indebita e frode a cinque anni con la sospensione condizionale della pena in un processo che la maggior parte degli osservatori giudicano dettato da motivi politici.
Per altri capi di imputazione suo fratello Oleg è attualmente in carcere con accuse parimenti inventate - una mossa del Cremlino, secondo Navalny, per cercare di metterlo a tacere. Finora questa tattica sembra solo aver ancora più motivato il leader dell’opposizione che ha oltre un milione di follower su Twitter.
La tv di Stato, che sotto Putin è dominata dalla propaganda, rimane la principale fonte di informazione per la maggior parte dei russi. Ma sempre più – come dimostra il pubblico record per il film su Chaika - milioni di russi si rivolgono a Internet per le notizie. «C’è un’altra Russia là fuori, che il Cremlino sta lottando per tenere sotto controllo», ha detto un sul web un imprenditore dell’opposizione.
In risposta il Cremlino ha approvato una serie di norme draconiane per regolamentare Internet, soffocare il dissenso e mettere al bando i contenuti politici sul web. Ha inoltre creato strumenti in grado di bloccare Twitter, YouTube e Facebook. «Ma ci sono tendenze impossibili da bloccare del tutto», ha detto Navalny. «Il film su Chaika e le reazioni che ha suscitato dimostrano che non ci ridurranno al silenzio e là fuori c’è un sacco di gente che vigila».
* Corrispondente da Mosca per il Sunday Times di Londra
traduzione di Carla Reschia

La Stampa 27.12.15
Il diamante maledetto guasta il Natale alla Regina
di Vittorio Sabadin


Il giorno di Natale, il primo ministro indiano Nerendra Modi ha fatto una breve visita a sorpresa al premier pachistano Nawaz Sharif. È una visita importante, che segna un riavvicinamento tra due paesi che si sono affrontati in tre guerre dal 1947 e che ancora litigano sulla proprietà della regione del Kashmir. Ci sono problemi anche sull’Afghanistan, con l’India impegnata nella ricostruzione e convinta che il Pakistan protegga e finanzi i Taliban.
Un altro motivo di contesa potrebbe diventare presto anche il diamante Koh-i-noor, del quale entrambi i Paesi hanno chiesto alla regina Elisabetta la restituzione. Dopo essere stata donata alla regina Vittoria, la pietra aveva adornato la corona di Queen Mary, la moglie di Giorgio V, ed era passata nella corona della madre di Elisabetta, dove ancora si trova, ben custodita alla Torre di Londra.
Tentativi vani
Sono anni che indiani e pakistani insistono per riavere indietro il diamante di 105 carati, che è stato per molto tempo il più grande del mondo e vale circa 140 milioni di euro. Sostengono che è stato portato via senza alcun permesso e che dunque non può appartenere alla Corona britannica. Estratto intorno al 1300 dalla miniera di Kollur, nello Stato indiano di Andhra Pradesh, il Koh-i-noor è passato nelle mani di decine di sultani e Mogul, e dopo mille avvincenti peripezie in quelle di Ranjit Singh, imperatore Sikh del Punjab, una regione che era indiana ma che ora si trova in Pakistan. Quando nel 1849 l’India fu annessa all’impero britannico, gli inglesi pretesero che il nuovo sovrano tredicenne Dulip Singh regalasse il diamante alla regina Vittoria, facendogli anche dire che era contentissimo di farlo.
Il Koh-i-noor è noto per portare sfortuna ai maschi che ne vengono in possesso. La nave che lo trasportò a Londra fu infatti quasi affondata dal mare in tempesta e il suo equipaggio venne decimato dal colera. Il principe Albert, marito della regina Vittoria, lo fece tagliare perché brillava poco, portandolo all’attuale, splendente taglio ovale.
Tra le migliaia di lettere che la regina Elisabetta riceve ogni giorno ci sono anche quelle dell’avvocato pachistano Jawaid Iqbal Jafree, che ne ha scritte in 50 anni più di 780 per reclamare indietro il gioiello, ottenendo solo un’unica cortese e vaga lettera di risposta, vergata da una Lady in waiting. All’inizio di dicembre, il tenace avvocato ha avviato un’azione legale all’alta corte di Lahore, alla quale si aggiunge ora l’appello di un’associazione europea, «Montagne de lumière», che vuole applicare ai Windsor l’Holocaust Act, la legge creata per restituire ai legittimi proprietari i beni confiscati dai nazisti.
La regina Elisabetta, che ha festeggiato il Natale come sempre nella residenza di Sandringham ed è stata molto elogiata per il suo bel discorso televisivo inneggiante all’amore e alla comprensione reciproche, troverà un’altra seccatura nelle scatole rosse piene di documenti che il governo le invia ogni giorno. Ma il premier Cameron terrà duro. Già nel 2013, in visita in India, aveva replicato all’ennesima richiesta con parole molto chiare: «Si sa come vanno queste cose. Cedi una prima volta, e ti ritrovi il British Museum completamente vuoto».

La Stampa 27.12.15
India-Pakistan, un dialogo a ostacoli
La visita-lampo del primo ministro Narendra Modi in Pakistan ha tutte le caratteristiche di un evento politicamente eclatante.
di Roberto Toscano


Il capo del governo indiano, di ritorno da visite ufficiali a Mosca e Kabul, ha fatto una sosta a Lahore del tutto improvvisata e centrata su un incontro con il primo ministro pachistano Nawaz Sharif che si può definire non solo caloroso, ma addirittura familiare, dato che ha avuto luogo in una residenza privata in occasione della celebrazione delle nozze di una nipote di Sharif.
In politica i gesti non vanno sottovalutati, ma sembra legittimo chiedersi che credibilità può avere l’apertura nei confronti dello storico nemico dell’India da parte di Modi, esponente del Bjp, un partito nazionalista, e prima ancora militante fin dall’adolescenza dell’Rss, un movimento induista dalle caratteristiche fascistoidi. Ma la risposta non può essere schematica e ideologicamente preconcetta. Richard Nixon non era certo una colomba progressista, eppure la storica apertura alla Cina si deve a lui e ad Henry Kissinger, non sospettabile di scarsa identificazione con l’interesse nazionale americano. E a chi va attribuito il riconoscimento dell’indipendenza algerina, incubo di generazioni di nazionalisti francesi, se non al generale De Gaulle, di cui sarebbe ben difficile mettere in dubbio il culto per la grandezza della Francia? Senza parlare di Ronald Reagan che, nonostante la sua retorica sull’«impero del Male» non disdegnò un serio negoziato strategico con i sovietici, arrivando a proporre a Gorbaciov, a Reykjavik, uno strabiliante disarmo nucleare bilaterale.
Per fare poi riferimento alla politica indiana, non va dimenticato che la fase più positiva dei rapporti fra Delhi e Islamabad si è registrata negli anni di un precedente governo di destra, quando nel 1999 il primo ministro Vajpayee si recò in visita ufficiale in Pakistan, mentre il progressista Partito del Congresso si è spesso contraddistinto per una linea di assoluta intransigenza.
In altre parole, non va escluso che Modi abbia davvero intenzione di sbloccare i rapporti con il Pakistan. Può darsi che lo faccia per costruirsi un’immagine di grande uomo di Stato, o anche per rispondere a più che probabili pressioni di Washington, che non chiederebbe di meglio che affrancarsi da una scomoda scelta fra Delhi e Islamabad. Va poi detto che la pace beneficerebbe senz’altro l’India più che il Pakistan, mettendo in risalto – con il prevedibile rafforzamento di un’egemonia regionale indiana – quella sproporzione di dimensioni, popolazione e potenza economica che viene oggi solo compensata dalla esasperata militarizzazione del Pakistan e dalla presenza del suo armamento nucleare.
Ma è proprio qui che emergono i primi dubbi sulla possibilità che il disegno di Modi, ammesso che sia credibile, possa produrre risultati sostanziali. Non vi è ragione per mettere in dubbio la volontà di Nawaz Sharif di uscire dalla deleteria spirale di ostilità con l’India, ma chi – se non le Forze Armate – comanda davvero a Islamabad?
E’ evidente che questo anomalo potere, parallelo a quello derivante dalle urne e capace di sovrapporsi ad esso sia con interventi aperti che con irresistibili condizionamenti, verrebbe radicalmente ridimensionato da una normalizzazione dei rapporti con l’India.
Le voci del contenzioso indo-pakistano sono poi oggettivamente molto pesanti, e il loro superamento richiederebbe dalle due parti la combinazione di uno straordinario coraggio politico con un potere internamente non contrastato. Pensiamo al Kashmir, per l’India sacro territorio nazionale e per il Pakistan territorio occupato di cui si esige l’autodeterminazione. E pensiamo ai tuttora irrisolti strascichi dell’operazione terrorista di Mumbai messa in atto nel 2008 da un commando dell’organizzazione islamista Lashkar-e-Taiba proveniente dal Pakistan e, come hanno rivelato le intercettazioni, teleguidato dal suo territorio. Il Pakistan respinge le accuse indiane secondo cui l’operazione è stata organizzata dall’Isi, i servizi pakistani, ma è un fatto che – come del resto era vero per Bin Laden e il supremo capo taleban Mullah Omar – anche i vertici di Lashkar-e-Taiba vivono indisturbati e anzi protetti in territorio pakistano.
Va poi aggiunto che gli ostacoli a un processo di normalizzazione non dipendono soltanto dalla politica interna pakistana, ma anche da quella indiana. Modi ama certo atteggiarsi a moderato, a uomo di Stato disposto al dialogo. Ma fino a che punto è in grado di convincere la sua base politica a superare ostilità e sospetto nei confronti dei musulmani di qua e al di là del confine?
Pochi giorni fa Ram Madhav, segretario generale del partito di governo, il Bjp (anche lui, come Modi, proveniente dal movimento Rss) ha detto che un giorno India, Pakistan e Bangla Desh si riunificheranno in un solo Paese, una Patria indiana.
Non sembra il modo migliore per placare la radicata paranoia dei pakistani, convinti da sempre che l’India aspiri a rendere reversibile la «partition» del 1947 e disposti per questo a usare qualsiasi mezzo per compensare lo squilibrio di forze fra i due Paesi.
Insomma, anche se non sarebbe giustificato attribuire alla visita di Modi a Lahore un significato solo di facciata, la normalizzazione dei rapporti fra India e Pakistan non sembra certo per domani.

Corriere 27.12.15
Antonio Canova a Parigi Caccia all’arte perduta
risponde Sergio Romano


Quest’anno ricorre il duecentesimo anniversario del congresso di Vienna, evento di fondamentale importanza (e forse non sufficientemente celebrato) che creò le basi di una lunga pace europea fino al 1870-71. Contemporaneamente agli incontri diplomatici viennesi, che si svolsero fra il novembre del 1814 e il giugno del 1815, papa Pio VII incaricò Antonio Canova di recuperare a Parigi i numerosi beni italiani trafugati dai francesi. Potrebbe illustrare meglio il ruolo che ebbe lo scultore italiano in quella vicenda?
Giovanni Godoli

Caro Godoli,
Negli anni in cui Napoleone trasferì in Francia una parte considerevole del patrimonio artistico accumulato dal pontefice romano e dai principi italiani per dare lustro alle loro corti, Antonio Canova si distinse per la forza degli argomenti con cui cercò, quasi sempre inutilmente, di evitare l’esproprio. Sostenne che l’arte era indissolubilmente legata alla storia di un popolo e della sua terra, che il suo sradicamento dal contesto in cui era nata poteva essere considerato una sorta di mutilazione. Quando venne in discussione il problema della restituzione, Canova, quindi, era la persona più adatta ad occuparsene. La missione a Parigi di cui venne incaricato dal cardinale Ettore Consalvi, segretario di Stato, fu il recupero delle 100 opere d’arte che lo Stato pontificio aveva ceduto alla Francia per onorare una clausola del Trattato di pace stipulato dalla Santa Sede con Napoleone Bonaparte nel 1797. A Parigi Canova trovò un vecchia conoscenza. Era Vivant Denon, artista e collezionista, compagno di Bonaparte in Egitto e, più tardi, insaziabile sovrintendente delle «acquisizioni» realizzate dalla Francia durante il periodo napoleonico.
Mentre Denon difendeva il suo bottino con le unghie e con i denti, Canova lo aggirò rivolgendosi a Wellington, il grande comandante inglese che aveva sconfitto Napoleone a Waterloo. Ancora più decisivo, tuttavia, fu l’intervento del principe di Metternich, cancelliere austriaco, a cui premeva recuperare le opere provenienti da Venezia e dai ducati satelliti dell’Austria nell’Italia centrale.
Forte del loro sostegno, Canova, con un drappello di soldati austriaci e prussiani, espugnò il Louvre e staccò dai muri una buona parte delle opere reclamate dagli Stati pontifici. Tuttavia, secondo una storica della Pinacoteca Vaticana, Ilaria Sgarbozza, quando queste e altre opere furono caricate su un convoglio composto da 41 carri trainati da 200 cavalli, fu chiaro che mancavano all’appello almeno 33 delle 100 opere cedute con il trattato del 1797.
In una lettera a Consalvi, Canova promise che avrebbe continuato le ricerche in altre città della Francia. Ma aggiunse che alcune opere erano nei palazzi reali, da cui non era facile rimuoverle, e altre nelle chiese. Per queste, in particolare, scrisse con un tocco di ironia: suppongo che a Sua Santità non spiacerà lasciarle dove sono.

Corriere 27.12.15
La lingua di Dante nata a tavolino
Più di un poeta: diede un’unica voce agli italiani e, attraverso quella, un’identità nazionale
di Ida Bozzi


Non sono soltanto motivi di ovvia cronologia a porre Dante Alighieri (1265-1321) al principio di un’organica storia della letteratura italiana. Nell’anno del 750° anniversario della nascita, pare necessario ricordare che Dante non è stato solamente in senso stretto il primo grande poeta italiano: il valore storico della sua figura si affianca a quello linguistico, decisamente irripetibile, e a quello simbolico, che è stato non meno importante, specie in particolari momenti di svolta che il Paese ha conosciuto. Insomma, l’Alighieri ha fatto così tanto per la nostra letteratura, ma anche per la nostra identità culturale, che il primo posto gli spetterebbe in ogni caso di diritto: e infatti proprio con il volume dedicato al grande fiorentino si apre la collana di Storia della letteratura italiana che accompagnerà nelle prossime settimane in edicola il «Corriere della Sera».
Ce ne parla Enrico Malato, grande studioso e specialista dantesco che ha ideato il progetto complessivo di questa Storia , monumentale opera critica originariamente composta per Salerno editore e ora proposta in una collana divisa per monografie che parte appunto con Dante e via via presenta personalità e temperie di tutta la nostra storia letteraria, fino ai Pascoli e ai Carducci dell’altroieri e ai Gadda e Calvino di ieri.
«Intanto va detto che questa Storia della letteratura italiana — spiega Malato — nasce come un affresco complessivo che propone tutto il tessuto culturale dei diversi momenti storici. È un’opera realizzata secondo un castelletto ben preciso: ogni curatore ha avuto una scaletta rigorosissima alla quale si è dovuto attenere, in un progetto concepito quindi unitariamente. Per ciascun autore o momento letterario, infatti, prima di tutto bisogna illuminare il contesto storico. Poi occorre definire il profilo biografico della personalità analizzata, quindi focalizzare l’analisi sulle diverse opere. In questo modo si dà conto della civiltà letteraria, perché io preferisco parlare di civiltà che di cultura letteraria, che è il tratto davvero identificante del nostro Paese».
Al poeta fiorentino della Commedia è dedicato il primo volume, curato appunto da Enrico Malato: qui si illustra il quadro complessivo dell’epoca, si analizzano la vita e l’opera nel suo complesso, si illustrano gli elementi fondamentali del contesto, ed emerge l’importanza della figura dantesca. Bisogna pensare che la grande attenzione riversata in questi anni sulla Commedia, con le letture, i reading e le maratone nei teatri, nelle piazze e in televisione, mettono in luce soprattutto il nostro legame emotivo con il grande poema, la bellezza della sua poesia, il suo peso teologico e filosofico, l’immaginazione senza limiti, la perfezione dello schema. Ma c’è altro per cui amare il sommo poeta.
«La cosa geniale di Dante — chiarisce Malato — è che lui ha l’intuizione della lingua italiana che verrà. Era una scommessa e l’ha vinta, e ha visto molto lontano. Bisogna pensare che all’epoca già si scriveva in volgare, ma soltanto le piccole cose, le novellette, qualche poesia. Il volgare non pareva una lingua in grado di concepire grandi opere del sapere. La costruisce lui. Costruisce la lingua italiana praticamente a tavolino, inventandola passo per passo, e tra l’altro coniando centinaia e centinaia di neologismi». Ne fa una lingua, insomma, e una lingua capace in sostanza di ogni complessità: del tono basso, degli argomenti medi della vita quotidiana, così come della poesia più sublime e delle altezze vertiginose del pensiero più alto. La crea e la plasma.
«Ma in più — aggiunge il curatore — la rende anche unica in Europa. Perché? Bisogna pensare a tutte le altre lingue europee: nelle aree che poi saranno l’Inghilterra, la Francia, la Spagna, il volgare che diventa lingua nazionale lo fa in tutt’altro modo, e cioè attraverso l’imposizione, sotto la pressione di una conquista militare o strategica, e quando nel Cinquecento le lingue nazionali subiranno una grande trasformazione, noi saremo già trecento anni avanti! La lingua italiana è l’unica plasmata sostanzialmente a tavolino, e imposta non per la pressione militare o la conquista, o per il prevalere di una dinastia sull’altra, di un volgare sull’altro, ma perché il prestigio e la fortuna dell’opera dantesca erano veramente enormi. Dante vide giusto, con consapevolezza, per il futuro: nel De vulgari eloquentia Dante parla già (in latino) di una “casa degli italiani”, in un’epoca in cui sul territorio del nostro Paese c’erano 300 staterelli e stati, alcuni grandi come regioni, altri piccoli come città. Lui capisce che c’è una comunità di sentimento».
Ecco perché costruire una storia della letteratura italiana significa dare una definizione della nostra identità culturale, prosegue Malato: «La lingua è il nostro tratto identificativo, e la dobbiamo a Dante».
Poi la storia della letteratura continua, e le vicende della civiltà italiana sono un caleidoscopio di scoperte. «Pensiamo a Petrarca. Se Dante ha scritto il grande poema, e nonostante i molti imitatori resta inimitabile, anche Petrarca ha avuto un’importanza grandissima nella nostra letteratura: ha avuto dietro al suo Canzoniere uno sciame di almeno 300 anni tra imitatori e influenze sulla poesia. E il Quattrocento? È l’epoca in cui torna in auge quale lingua culturale il latino, lingua dell’Umanesimo ma anche, in parte, lingua della scienza. E così via. I curatori dei singoli volumi di questa storia della letteratura sono tutti massimi specialisti di ciascun autore, e offrono in modo molto aperto e molto ampio una visione complessiva dell’epoca considerata. In modo da spiegare che cosa noi siamo oggi, da dove sorge la nostra identità».
Un’identità fortemente incarnata però proprio nella figura d’apertura, nel primo poeta italiano, come conclude il docente: «Proprio quest’anno abbiamo celebrato il 750° anniversario della nascita di Dante. Ma ci fu un momento in cui queste celebrazioni ebbero un potente significato simbolico: l’Unità d’Italia si compì nel 1860-61 ma, quando nel 1865 si celebrò l’anniversario della nascita del poeta, Trieste, Trento, Verona e altre città erano ancora in mano agli austriaci. E così partecipare in quelle città alle grandi celebrazioni dantesche significava celebrare l’Italia. E perfino oggi, non è finita qui: l’Alighieri è tuttora uno dei poeti più studiati al mondo, la cosa incredibile è che a 750 anni dalla nascita, ancora escono su di lui e le sue opere circa 1.000-1.500 libri all’anno, io stesso sto lavorando a un saggio in cui, ancora, qualcosa di nuovo sul poeta viene scoperto».

Corriere 27.12.15
Tante parole come tanti fiumi dove naufragar ci è dolce
In principio sta il monte del Purgatorio che galleggia in un mare immenso Poi le invenzioni: la vitalità di Boccaccio, il cinema di Manzoni, il futuro di Leopardi. E noi
di Aurelio Picca


È scolastico sapere che le Civiltà sono nate lungo i grandi e piccoli fiumi (l’Egizia il Nilo; Romana il Tevere). Come forse è altrettanto facile intuire che le lingue le quali rendono possibile le letterature sono anch’esse fiumi che vanno al mare, cioè all’Opera. Siccome l’Italia è nata da cento lingue (come i popoli che l’hanno abitata), la nostra letteratura è, e resterà, il grembo di tutte le letterature occidentali. È inutile riandare al latino e alla sua frantumazione, così come è pleonastico ripercorrere le tappe dei volgari e della loro secolare incubazione e sviluppo. Si è sempre, con troppa leggerezza, bollato la mancanza di una tradizione romanzesca per ragioni storiche e sociali rispetto alla letteratura francese o inglese. Invece «lo spezzettamento» dello Stivale, con i suoi tanti volgari da convergere a Firenze, è stata la fortuna dei nostri scrittori e dunque della nostra letteratura.
Intanto va ricordato che Francesco d’Assisi è il primo poeta. Storto quanto un pezzo di legno e con una lingua (volgare umbro) altrettanto storta, in possesso di una manciata di vocaboli ancora deformati come ossa artritiche, inventa la creaturalità che irradia molta della letteratura a venire: da Dante a Petrarca, da Pascoli a d’Annunzio (basti La sera fiesolana ), a Ungaretti. Di Dante non vedo Farinata degli Uberti e Costanza d’Altavilla, bensì godo del monte del Purgatorio galleggiare su un mare immenso; in su un cielo zaffiro e nell’acqua l’Arcangelo Nocchiero che a velocità «digitale» giunge ammantato di luce. Il Purgatorio , di preghiera e pazienza, è materia dell’oggi. Anche se il meccanicismo aristotelico non rimanda al libero arbitrio ma alla ineluttabilità del destino umano. Francesco Petrarca non è stato il cortigiano come asseriva il De Sanctis: che dava vantaggio ai moderni, al «realismo», a una letteratura «morale» (comunque imprescindibile la sua Storia della letteratura ). Petrarca, con il Canzoniere , ha raggiunto una purezza perfino proibita al Manzoni che ne I promessi sposi accumula e salda lingue e trame diverse (altro che passaggio dal lombardo al fiorentino!). Petrarca fu la corona di alloro tradotto nel mondo e venerato; Alessandro Manzoni scrive per il cinema (notare come presenta Fra’ Cristoforo, l’Innominato…), per i pedanti (la sterminata notarilità delle «grida»), per i filologi, per i linguisti e per noi poveri lettori. Eppure Le tragedie , con il loro retrogusto giansenista, zavorrano appunto alla tragedia le illusioni della storia, concedendoci tombe monumentali.
Boccaccio è figlio bastardo di Firenze. Forse privato dell’esperienza napoletana non avrebbe scritto il Decameron , che invoglia la poesia alla vitalità e alla giovinezza del narrare, in un talamo di sensi, mentre a Firenze impazza la peste, cioè la tragedia. Ariosto e Tasso inventano i due grandi poemi moderni. L’ Orlando furioso è «inconscio puro» al servizio di incubi, voli astrali e pittori. La Gerusalemme liberata è «inconscio d’oro» (ambedue prima di Freud; in Tasso l’oro è Gerusalemme: l’unico inconscio collettivo dell’umanità). Machiavelli scrive Il Principe con sveltezza e cinismo. È padrone della corazza di Cesare e della lingua del vulgo. Il Principe è la favola del gioco del potere. Guicciardini pare soccombere a tanta abilità, invece grazie all’essere uno scrittore autentico sa pensare ai dettagli del corpo di un popolo, come un antico clinico romano. Se il «povero» Parini, nato in una casa popolare, l’incorruttibile estensore de Il giorno , è il gigante morale dei giovani che verranno (Leopardi, Foscolo), Vittorio Alfieri sarà il gigante eroico di quella generazione illuministico-romantica. In Vita scritta da esso si assommano le ragioni del suo titanismo o superlativo, giacché «Esso» sta per il Sé junghiano, e «Vita» per la vita che si stacca dal protagonista per assumere i connotati di tutte le vite. In questa tensione centrifuga, all’interno dell’autobiografia, scocca l’attrazione titanica per Colui che scrisse il primo romanzo italiano. Nella borghesia che scalpita infastidita dall’orticaria delle «regole» troneggia Carlo Goldoni. Il suo teatro è la commedia, punto. Vi rumoreggia la strada. Del resto è un veneziano non un siciliano come Luigi Pirandello che studia e si forma in Germania. Infatti Pirandello trucca la sua opera di commedia per farla esplodere in dramma e follia. Che paradosso: Pirandello, isolano di Sicilia, ha struttura nordica, mentre Italo Svevo, triestino, legge Verga e La coscienza di Zeno gli viene comico: brogliaccio per la neo-avanguardia. Senilità è il romanzo che chiude ogni boheme, è un film di residuati umorali: un triste, indimenticabile amore in grigio, odor di naftalina, color di perle tarlate.
Leopardi nello Zibaldone ripropone le molte lingue e i molti pensieri della nostra letteratura. E quando gioca con i settenari, i novenari, gli endecasillabi è un piacere per l’orecchio. Le Operette morali sono una vetta da poema futuro, spalancato al futuro. Foscolo scrisse il primo romanzo italiano scritto da un ragazzino (l’ Ortis , no?). Eccetera. Cari insegnanti, fatelo imparare a memoria ai vostri studenti. Verga ha inciso novelle fulminanti, poi Eva , Tigre reale … E una massa di cordame intrecciato che fa de I Malavoglia una furia della natura (Gli si deve baciare la mano da morto). Senza Carducci, quercia antica e «parnassiana» (vedasi Pianto antico ) non avremmo avuto Pascoli e d’Annunzio. Il primo: primo poeta del Novecento che, con Myricae , inventa il nuovo Canzoniere; d’Annunzio già con il suo corpo e i suoi mille gesti ripropone le lingue in nostro possesso. Fenoglio è fedele alla lingua; Calvino la tradisce per una neutra: questo è il suo successo.
Montale è Ossi di seppia (rimandiamo agli ultimi studi montaliani di Andrea Gareffi), un nonno gelido. Ungaretti è l’ Allegria di un nonno felice. Gadda è un concentrato di morbosità. Non è vero che la sua è una partitura complessa. Mentre Levi è Auschwitz: la memoria più semplice e complicata da capire quando gli uomini si fanno mostri.

La Stampa 27.12.15
Messina 1908, la fine del mondo in 37 secondi
Il 28 dicembre, lunedì, il terremoto distrusse la città siciliana e la dirimpettaia Reggio Seguito da un inferno di vento, acqua e fuoco
di Mimmo Gangemi


La morte venne su dalle profondità delle acque di mezzo tra Messina e Reggio alle 5 e 21 del 28 dicembre 1908, un lunedì. Un boato lacerò il silenzio della notte. Dacché le due città dormivano placide sotto un cielo immobile, puntellato dalle stelle che scampavano a nuvole sparse, alte e chiare, e l’aria era quieta, spezzata solo dai rintocchi a ogni quarto degli orologi sulle torri, dal ritmato fruscio di onde deboli che s’infrangevano rispettose alla riva, da rumori lontani di ferraglia, dagli zoccoli dei primi cavalli per le vie del centro, a che un suono cupo, secco, fragoroso si risucchiò tutto, lacerò il buio, fratturò il cielo. E infranse i sonni.
Interminabile, il boato, quasi che tutti i tuoni del mondo si fossero dati appuntamento lì e mischiati da combinarne uno solo, terribile, assordante, insopportabile. Non fece in tempo a disperdersi in un’eco lontana. Fu risucchiato dallo sconquasso, dal demone, affiorato dalle viscere della terra, che s’accaniva ghignando, esplodeva il rancore covato a lungo. Addentò le città e prese a sciancarle vorace, a scuoterle rabbioso.
Le case si accartocciarono cangiandosi in mucchi di rovine, si mutilarono, si squarciarono offrendosi nude alla vista del cielo, sobbalzarono e si caddero addosso, in un ammasso disordinato di pietre, mattoni, calcinacci, travi, tegole, e di uomini impastati dentro, che rovinavano assieme, inermi di fronte alla furia della natura e rassegnati a un destino su cui nulla potevano.
Polvere esplodeva dalle macerie in una nube densa e nera, da pensarla solida, che per penetrarla occorresse farsi largo a forza di braccia. Si affacciava dagli squarci. Avvolgeva ogni cosa espandendosi lenta, senza fretta di tirarsi su per andare a pavoneggiarsi nuvola tra altre nuvole. Tolse il respiro. Oscurò il buio, cancellò il mondo intorno. Concedeva solo il cielo immobile lassù, schizzato di luminosi occhi indifferenti.
Gemiti, urla disperate
La polvere, l’ultimo fiato di un mondo che si arrendeva. La polvere, il manto nero della morte non ancora soddisfatta.
Trentasette i secondi della rovina.
Scese il silenzio, una cappa opprimente di silenzio. Qua e là, lo tranciavano crolli tardivi di case indecise se aggrapparsi al cielo di sempre o se restituirsi alla terra, con un rotolare di pietre che si sottraevano alla prigione dei muri e con polvere che si aggiungeva alla polvere, faceva più scure le tenebre e più fitte le ombre, impediva i passi e gli occhi, strozzava, e si allargava diradandosi piano, prima di avviarsi a scalare l’oscurità.
Nel silenzio, comparve l’uomo, con urla disperate, gemiti e lamenti, il rantolo dei respiri non restituiti, le invocazioni di un nome caro. Le macerie non cedevano di fumare polvere, il fiato della morte: continuava a sorgere dalle montagne di cumuli ch’erano stati muri, solai, tetti, ch’erano stati rifugio e vita e ora erano tombe. Si separava dai detriti e si alzava a fatica, riluttante a staccarsi dal suolo e a congiungersi alle nubi che l’attendevano lassù.
Crolli si succedevano a ogni scossa con cui la natura, la sua collera sotterranea, si quietava, in un frastuono che presto si restituiva al silenzio polveroso.
Il cielo dentro le case
Dentro le case s’era insinuato il cielo, il buio del cielo. E presto il vento, giunto appresso alle retroguardie della rovina. S’annunciò da lontano, come gli scrosci improvvisi di pioggia. Lo avevano partorito, soffio leggero, le acque profonde dello Stretto, lì dov’era esploso il rancore, ed era via via gonfiato fino a impattare violento e rumoroso sugli ostacoli, sorpreso di non essere respinto indietro da muri sempre parsi invincibili, che al più gli avevano concesso di fischiare lamenti. Penetrò gli squarci e vagò libero in ciò che restava dei palazzi, rovistò tra le rovine, s’accanì sulle macerie.
Uomini comparivano sporchi, cenciosi, in pigiama, in sottana, nudi. Urlavano dolore e strazio. Emergevano dalle macerie, scendevano in strada dalle poche case rimaste in piedi, da quelle sventrate, correvano a cercare riparo nella spiaggia. Dalle profondità risalivano lamenti, invocazioni. Erano voci lontane, sempre più flebili, sempre più rassegnate, che si tacevano infine. Dagli squarci uscivano urla, pianti, disperazione.
Nubi nere di polvere
Il demone non era ancora sazio. Nel tirarsi su aveva aperto una falla e spinto in giù i fondali, risucchiandosi il mare per decine di metri. Quando lo liberò, si ersero tre onde, gigantesche dune su cui si trascinavano le acque. Puntarono a Sud, su entrambi i fronti. Raggiunsero le coste quando gli scampati vi avevano già trovato riparo. S’abbatterono con impeto e tracimarono violente, in un fragore indicibile. E si guadagnarono meriti nella distruzione e nella morte.
La polvere saliva ora frettolosa verso le nuvole alte. Vi giunse e le penetrò. Le tinse di nero. Le gonfiò di pioggia, che scese giù a infierire. Assieme, si divertirono sugli uomini pioggia, vento, mare e morte.
I sopravvissuti vagavano sbandati nelle strade intasate. Tanti artigliavano le dita a scavare sui cumuli ch’erano stati le loro case, come se le mani potessero bastare a sottrarre una vita, o una morte. Braccia, gambe, teste sporgevano inermi dai detriti. Fuori, corpi già vinti inzuppati dall’acqua, feriti che si trascinavano implorando aiuto. I vivi si passavano sguardi smarriti, increduli, che dirottavano sulla città, su quella ch’era stata una città ed era ora un unico, grande rudere infestato da un demone di distruzione.
E alla fine il sole irridente
Poi, il fuoco. Lo partoriva il suolo. Diventavano fiamme i gas che si sprigionavano dalle tubazioni divelte. Percorrevano con vampate veloci i marciapiedi, si avventavano sui lampioni e li avvolgevano. Da lì, lingue rosse e serpeggianti s’allargavano voraci intorno, diventavano incendi che gonfiavano, rovistavano tra le macerie, risalivano i palazzi sventrati. E nulla potevano le lacrime che il Cielo pentito mandava giù.
Fumo si mescolava alla polvere. E si contendevano l’aria, la inghiottivano, togliendo i pochi fiati rimasti ai morenti. Nella volta indecisa fluttuavano farfalle di fuoco, planando leggere. Il fumo sbaragliò le retroguardie della polvere. E infestò con un odore di bruciato. La pioggia tutto marciva fango. E infieriva sui resti arrostiti, spandendo il puzzo dei tizzoni.
Lenta si squagliava la notte. Già cangiava il nero, tingendosi di violaceo. Come sempre, come in un giorno qualsiasi. E non era un giorno qualsiasi. Però il cielo pareva non essersene accorto. Beffardo, il cielo. Portò l’alba e la luce. Quietò il vento. Smise di mandare giù acqua. Al suo posto, una sabbia sottile: era la polvere salita su dai crolli, le nuvole la restituivano dopo essersene gonfiate fino a saziarsi, fino a forgiare assieme la pioggia.
Dal mare si erse irridente il sole. E rincarò la beffa stendendo un arcobaleno radioso.

La Stampa 27.12.15
Ma il libro di Casaleggio non è il programma dei 5 Stelle
di Massimo Russo


Prendi un pamphlet di considerazioni - spesso paradossali e provocatorie - sui massimi sistemi, trasformalo in un manifesto politico, ecco nascere lo scandalo. È quanto sta accadendo a Veni Vidi Web, il libro del cofondatore del Movimento 5 Stelle Gianroberto Casaleggio (Adagio editore). Il volume, con la prefazione del rapper Fedez, raccoglie interventi e scritti in larga parte già noti. Si va dal metodo di Gengis Khan per creare un senso di comunità, paragonato allo scardinamento dell’economia tradizionale portato dalle nuove imprese digitali, alla necessità di restituire un significato alla vita e al lavoro, oggi prigionieri della gabbia dell’alienazione, fino al downshifting, una sorta di descrescita felice o di moderno epicureismo: desiderare meno come chiave per accedere al piacere.
A scatenare le critiche è soprattutto l’ultimo capitolo, in cui Casaleggio racconta un mondo in cui le imprese edili distruggono il cemento in eccesso anziché produrne di nuovo, dove non ci sono più leader, petrolio e carbone sono proibiti, la costituzione si vota ogni cinque anni, chi ha più di 5 milioni deve restituire l’eccesso alla comunità, e chi sbaglia va rieducato in centri yoga. Ce n’è abbastanza per far gridare molti analisti a un M5S neo-maoista.
Ma è un errore considerare il libro come il programma del movimento. Lo stratega digitale di Beppe Grillo è persona di letture eclettiche, che rielabora in sintesi ardite. Un pizzico di Kafka mescolato a Fantozzi, una spolverata di Rousseau rinverdito da un bagno nel Cluetrain manifesto, un’analisi delle reti del fisico ungherese Barabasi contaminata dalle saghe celtiche. Il tutto per tratteggiare un mondo ideale in cui l’uomo, migliorato dalla tecnologia, non coltivi più desideri egoistici. È una realtà dalla quale è stato espunto il conflitto, simile a quella spesso narrata dalla fantascienza, come ad esempio Star Trek: il potere è esercitato con saggezza da organismi di pari, la minaccia viene sempre dall’esterno, si tratti alieni bellicosi o di mostri extraterrestri, i giornali non esistono perché non c’è alcun mistero da svelare e l’informazione è perfetta, come nei modelli semplificati di economia. Un mondo in cui il lato oscuro della forza non esiste.
Più che prestarsi a un’esegesi politica, queste pagine aiutano a capire perché, grazie al cortocircuito seguito all’incontro con Grillo, tali suggestioni siano state vincenti per tanti elettori delusi. Ma quel tempo è già passato. E - a vedere come il M5S si sta preparando alle amministrative e ha di recente eletto un proprio giudice costituzionale - si direbbe che Casaleggio, nella pratica politica, applichi piuttosto la lezione di Woland nel Maestro e Margherita: «Che cosa sarebbe il tuo bene se non ci fosse il male, e come apparirebbe la terra se non ci fossero le ombre? Non vorrai per caso sbucciare il globo terrestre buttando via tutti gli alberi e tutto ciò che è vivo per godere della tua fantasia della nuda luce? Sei uno sciocco».

Repubblica 27.12.15
Franca Viola.
Nel ’67 rifiutò di sposare l’uomo che l’aveva violentata. Il suo coraggio cambiò il codice penale. “Mai avere paura di lottare”
“Io, che 50 anni fa ho fatto la storia con il mio no alle nozze riparatrici”
di Concita De Gregorio


ALCAMO È di nuovo Natale a casa Viola. In sala da pranzo finiscono il dolce e i racconti il marito, Giuseppe, i due figli, Sergio e Mauro, le nuore. L’unica nipote, tredici anni, è appena uscita per raggiungere gli amici. Una ragazzina bellissima, Sonia: bruna e bianca come sua nonna Franca. «Ha visto com’è cresciuta? Mi ricordo che dieci anni fa, quando lei signora venne a trovarmi, mi trovò che pulivo le scale, di fuori, e quando la feci entrare in soggiorno c’era il triciclo della bambina e i suoi giocattoli a terra. Che vergogna questo disordine, pensai. Ancora me ne dispiaccio. Lei è l’unica giornalista che ho fatto entrare in casa mia, lo sa? Non lo so perché: certe volte è una parola, uno sguardo. Una cosa piccola, è quella che cambia». Non c’era nessun disordine signora Franca, solo il triciclo di una bambina. «Sonia adesso ha la stessa età di quando mi sono promessa a suo nonno Giuseppe. La vita è un lungo attimo. Mi somiglia moltissimo: quando a scuola hanno chiesto le foto dei nonni le ho dato la mia alla prima comunione e la maestra ha detto ‘Sonia, avevo chiesto la foto di tua nonna non la tua’. Ma questa è mia nonna, è Franca Viola… Mi rende così felice che sia orgogliosa di sua nonna. Certo che la sa la storia, sì, gliel’ho raccontata io ma non ce ne sarebbe stato bisogno. Sta su Internet, mi cerca lei tutte le notizie. Io non so usare il computer, neppure riesco a vedere i messaggi nel telefono. Però c’è lei che fa tutto. Le ho solo detto, in più: l’importante Sonia è che tu faccia quello che ti dice il cuore, sempre.
Poi certo, bisogna che le persone che ti amano ti aiutino e non ti ostacolino, come è successo a me con mio padre e mia madre. Ma lo sa che sono passati cinquant’anni dal fatto?». Il fatto, lo ha sempre chiamato. «Chi se lo poteva immaginare che sarebbe stata una vita così». Così come?
«Così bella. Perché poi la storia grande nella vita delle persone è una storia piccola. Un gesto, una scelta naturale. Io per tantissimi anni non mi sono resa conto di quello che mi era successo. Quando mi volle vedere il Papa, il giorno del mio matrimonio, chiesi a mio marito: ma come fa il Papa a sapere la nostra storia, Giuseppe? ».
«Per me la mia vita è stata la mia famiglia. Stamattina sono andata a trovare mia madre, che vive qui accanto, da sola.
Ha 92 anni, è lucidissima. Per prima cosa mi ha detto: Franca, ti ricordi che giorno è oggi? È il 26 mamma, sì. Per lei il 26 dicembre è il giorno del mio rapimento e il giorno della morte di mio padre. Lo sa che mio padre è morto 18 anni dopo il mio rapimento, lo stesso giorno alla stessa ora?
È stato in coma tre giorni, io pensavo: vuoi vedere che aspetta la stessa ora. E infatti: è morto alle nove del mattino, l’ora in cui entrarono a casa a prendermi. Ha aspettato, voleva dirmi: vai avanti».
Cinquant’anni fa, alle nove del mattino, Franca aveva 17 anni e 11 mesi. Era la ragazza più bella di Alcamo, figlia di contadini. Filippo Melodia, nipote di un boss, la voleva per sé. Lei si era promessa a Giuseppe Ruisi, un coetaneo amico di famiglia. Melodia e altri dodici della sua banda bussarono alla porta e rapirono lei e il fratello Mariano, 8 anni. Li portarono in un casolare in campagna. Dopo due giorni lasciarono andare il bambino, dopo sei portarono Franca a casa della sorella di Melodia, in paese. La legge diceva, allora, all’articolo 544 del codice penale, che il matrimonio avrebbe estinto il reato di sequestro di persona e violenza carnale. Reato estinto per la legge, onore riparato per la società. Doveva sposare Melodia, insomma: era scritto. Ma Franca non volle. Fu la prima donna in Italia – in Sicilia - a dire di no alla “paciata”, la pacificazione fra famiglie, e al matrimonio riparatore. Ci fu un processo, lungo, a Trapani. Lei lo affrontò. Un grande giudice, Giovanni Albeggiani. I sequestratori furono tutti condannati. Melodia è morto, ucciso da ignoti con un colpo di lupara, molti anni dopo. Gli altri sono ancora lì, in paese. «Quando li incontro per strada, capita, abbassano lo sguardo. Non fu difficile decidere. Mio padre Bernardo venne a prendermi con la barba lunga di una settimana: non potevo radermi se non c’eri tu, mi disse. Cosa vuoi fare, Franca. Non voglio sposarlo. Va bene: tu metti una mano io ne metto cento. Questa frase mi disse. Basta che tu sia felice, non mi interessa altro. Mi riportò a casa e la fatica grande l’ha fatta lui, non io. È stato lui a sopportare che nessuno lo salutasse più, che gli amici suoi sparissero. La vergogna, il disonore. Lui a testa alta. Voleva solo il bene per me. È per questo che quando ho letto quel libro sulla mia storia, “Niente ci fu”, mi sono tanto arrabbiata. Non è quella la mia storia, per niente. Mio padre non era un padre padrone: era un uomo buono e generoso. Lo scriva ». Lo scrivo. «Perché poi vede, il Signore mi ha dato una grazia grande: non ho mai avuto paura di nessuno. Non ho paura e non provo risentimento». Intende risentimento per chi la rapì? «Né per loro nè per nessun altro dopo. Sono stati molti altri i dolori della vita, ma di più sono state le gioie. Ho un marito meraviglioso. Nei giorni del processo e anche dopo mi arrivarono tante proposte di matrimonio, per lettera. Giuseppe però mi aveva aspettata. Io non volevo più maritarmi, dopo. Gli dicevo: sarà durissima per te. Ma lui mi ha detto non esistono altre donne per me, Franca. Esisti tu. Sono arrivati i figli, mio padre ha fatto in tempo a vederli e vedermi felice. Poi c’è stata la malattia di Sergio: temevo che morisse. Quando nel 2014 il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha voluto darmi il titolo di Grande ufficiale ho pensato ecco, una persona ora la conosco. E ho chiesto aiuto per curare Sergio. Ma non è servito a niente. Mi hanno dato il numero di un medico, dal Quirinale, poi questo medico non rispondeva e quando sono andata a Roma con mio figlio, ad agosto, mi hanno detto che era in ferie. Ho lasciato stare e ho fatto da sola. Un difetto si ce l’ho: l’orgoglio. Il Signore spero mi perdoni».
Il 9 gennaio Franca Viola compirà 69 anni. Nella sua vita ha visto abolire la norma del codice penale sul matrimonio riparatore. Ha visto nel 1996, solo 20 anni fa, la legge che fa dello stupro un reato contro la persona e non contro la morale. Si è vista riprodotta in foto, con grande incredulità, sui libri di scuola. «Il primo è stato Sergio. Era alle medie, mi ha detto: mamma sul mio libro c’è una tua foto da ragazza. Come mai? Gli ho raccontato. Un poco, certo, non tutto. Certe cose non si possono raccontare. Ma altre sì: che ciascuno è libero fino all’ultimo secondo, che tutto quello che dipende da te è nelle tue mani. Questo ho potuto spiegare ai miei figli e adesso a mia nipote. Sonia è una ragazzina del suo tempo. Vorrebbe fare l’attrice, mi fa sorridere: mi dice nonna, ma tu non conosci nessuno che mi possa insegnare a recitare? Le dico amore mio, impara da sola. Ciascuno si fa con le sue mani. I fatti grandi della vita, glielo ripeto sempre, mentre accadono sono fatti piccoli. Bisogna decidere quello che è giusto, non quello che conviene».
E per se stessa, Franca? Cosa si augura, ancora? «Di vedere guarito del tutto mio figlio. Di avere altri Natali con mio marito, con Sergio e Mauro, le loro mogli. Che ci sia un mondo meno ostile, meno feroce tutto attorno a noi. Perché è peggiorato, il mondo, sa, in questi anni. Però ora vedo questo Papa e sì, ecco, un desiderio ce l’avrei. Quando andai da Paolo VI ero giovane, tante cose non le capivo. Adesso che sono vecchia mi piacerebbe andare da Papa Francesco e consegnare a lui i miei ringraziamenti al Signore per la vita meravigliosa che mi ha dato. Ma lo faccio qui, se me lo consente lo faccio attraverso di lei. Ho il peccato dell’orgoglio, è vero, ma non quello della presunzione. Il Papa non può certo conoscere una storia così vecchia, una piccola storia siciliana. Come fa. Ha tantissime cose molto importanti da fare, in tutto il mondo. Un compito enorme. Infatti lo penso e lo prego. Tanto, prego per lui».

Repubblica 27.12.15
Vattimo, Pareyson e una giacca color salmone
di Simonetta Fiori


Vite segnate dalla guerra. Vissuta in prima persona o nella memoria famigliare. Impressa nei sogni, nell’ossessione delle sirene, o anche sedimentata nel non detto tra padri e figli. Oppure combattuta e poi letterariamente elaborata, perché la scrittura può fare molto per aiutare a liberarsene. La guerra o meglio le guerre sono motivo ricorrente tra i forthcoming di questo inizio d’anno, proiezione di un passato spaventoso e di un presente non meno minaccioso. La guerra per Gianni Vattimo è una scarpa slacciata, lui bambino che deve scappare al rifugio e non ci riesce, una pioggia di bombe e una coetanea che si inchina ad aiutarlo. Per gli ottant’anni esce un’autobiografia insolita, scritta a quattro mani con Piergiorgio Paterlini. Una testimonianza privata e filosofica senza censure. Molti i lutti, il padre perso a pochi mesi. Due maestri ritratti in modo inusuale: Pareyson imperturbabile davanti alla giacca color salmone del ballerino peruviano (allora compagno di Vattimo), Gadamer affascinante ma sempre un po’ irridente. E tanti amori, Renzo e Alberto, Gianpiero e Sergio, le malinconiche scorribande al Valentino. Diventare vecchi attenua il dolore della vita? Parrebbe di no, a leggere queste pagine. E, in un’esistenza vocata alla trasgressione, colpisce l’orizzonte sentimentale aperto da un recente incontro con Umberto Eco. «Ciò che mi è piaciuto di più è vederlo vivere da nonno», annota Vattimo. «Non l’ho invidiato, non ho mai desiderato avere figli o nipoti. Come diceva Pasolini, rimango “un figlio che non sarà mai padre”. Ma ecco venirmi incontro un’immagine di tenerezza, Umberto con la sua nipotina». Poi confessa che è Eco la persona a cui sente “di dover rendere conto”. «Gli ho detto: sei l’ultimo padre che ho». Non essere Dio esce da Ponte alle Grazie il 4 gennaio, giorno del compleanno. *** Ancora guerra nel racconto autobiografico di un figlio che ritrova il padre. Il figlio è un giornalista conosciuto, Pierluigi Battista, editorialista del Corriere. Il padre è un avvocato di solida esperienza che per tutta la vita si porta dentro l’umiliazione del combattente di Salò: sconfitto dalla Storia, insultato da chi aveva indossato con zelo la camicia nera, più tardi tenuto a distanza dal figlio che gli contesta le ragioni d’una scelta. Mio padre era fascista è la storia di una riconciliazione, tra politica e affetti. Il 26 gennaio da Mondadori. *** «L’11 novembre 2004 è il giorno in cui ho smesso di credere in Dio». Elliot Ackerman -35 anni di cui otto trascorsi nell’esercito statunitense - scrisse quella frase dopo aver partecipato alla battaglia di Falluja, in Iraq, con tanto di medaglia. Oltre a essere un valoroso soldato, Elliot è anche un bravo scrittore. E il suo primo romanzo, ambientato in Afghanistan, è stato molto elogiato dai critici americani. Non certo per motivazioni patriottiche. Il suo grande merito consiste nell’aver raccontato la guerra dalla parte degli afghani. Sul suo orgoglio di veterano prevale l’empatia per le persone contro cui ha combattuto. Con il risultato di farci ascoltare voci che non si trovano nei saggi di storia.
Prima che torni la pioggia esce a febbraio da Longanesi.

Repubblica 27.12.15
Psichiatria
Addio a Onnis terapeuta della famiglia
di Simonetta Fiori


Aveva appena consegnato a Bollati Boringhieri I teatri di famiglia, un’opera che ne riassumeva la rivoluzione impressa alla terapia famigliare. In quel campo era un’autorità indiscussa, Luigi Onnis, morto la sera di Natale e ora pianto da studiosi di tutto il mondo. Passione intellettuale, impegno etico-civile, grande sapienza psichiatrica: nelle sue pratiche terapeutiche confluivano componenti diverse, tenute insieme da una singolare carica umana.
Classe 1944, cagliaritano, s’era formato alla scuola di Basaglia, Jervis e Terzian, per cui il malessere psichico non andava separato dalla temperie storico- culturale e dal contesto famigliare. Professore di Psichiatria alla Sapienza e presidente onorario dell’European Family Therapy Association, ha indagato temi in stretta relazione con i fenomeni sociali come la tossicodipendenza, i disturbi psicosomatici e la bulimia/anoressia su cui ha scritto saggi importanti ( Il tempo sospeso). Negli ultimi anni guardava con entusiasmo al superamento della dicotomia cartesiana tra mente e corpo siglato dalla nuova alleanza tra psicoterapia e neuroscienze (al dialogo tra Stern e Gallese ha dedicato un recente volume). Le sue “sculture famigliari” sono state riprese in vari paesi: chiedeva ai componenti d’una famiglia di rappresentare plasticamente le dinamiche tra loro, sia in relazione al presente che alle aspettative future e al tempo passato. Ognuno a turno veniva investito del ruolo di “scultore”. Se ieri nella sua casa affollata di amici e colleghi ciascuno avesse dovuto tracciare la sua personale scultura, Onnis vi avrebbe avuto comunque un ruolo importante. Maestro nello sciogliere le matasse più ingarbugliate. E maestro in un’arte rara, sintetizzata così da un’allieva: sapeva rendere le persone migliori.

Repubblica 27.12.15
Goya
La realtà ambigua nei ritratti “imperfetti” di un maestro
di anna Ottani Cavina


LONDRA “Solo Goya”: due parole scavate nella sabbia dove incede, regale, la duchessa d’Alba nel nero scintillante della veste. Mantiglia e velo da maja, la bella dama indica con gesto imperioso la scritta enigmatica che si legge ai suoi piedi: “Solo Goya”. Una firma esibita e sfrontata? Una complicità fra la musa e l’artista? Comunque un ritratto temperamentale e sublime. E uno scatto d’orgoglio del grande pittore.
Per la prima volta proposto in questa prospettiva parziale – settanta ritratti e nient’altro – Goya trionfa nelle sale della National Gallery di Londra ( Goya: The Portraits, fino al 10 gennaio), in un anno che vede il ritratto protagonista a Londra e a Parigi nelle mostre parallele di grandi specialisti del genere, da Jean-Etienne Liotard (Royal Academy) a Elisabeth Vigée Le Brun (Grand Palais di Parigi).
Ma i ritratti, che sono solo un côté del suo genio versatile, diventano in Goya il reagente privilegiato e sensibile al mondo di cortigiani, regine, ministri, poveracci ed amici che abitano la fine di un’epoca.
Nella crisi disorientante e spietata che squassa l’estremo Settecento, la solitaria grandezza di Goya sta nella ricerca di un varco libertario per l’arte, un varco che non coincide con l’algida purezza neoclassica. Goya rivendica il diritto a esprimere una realtà individuale ed ambigua, un “sentire” tormentato e romantico, e forgia un linguaggio che corrode la forma, violando le convenzioni ed il canone.
Seguendo il percorso della mostra, la percezione è immediata: più duttili dei quadri sacri e delle scene galanti che portano il timbro della sua giovinezza, i ritratti di Goya restituiscono uno spaccato folgorante della Spagna, la sua storia antropologica e sociale, un repertorio di umanità.
È già un artista affermato (ha trentasette anni, ha compiuto il viaggio in Italia, ha orizzonti culturali molto vasti: Ve- lázquez, Rembrandt, i grandi veneziani), quando nel 1783 dipinge il suo primo ritratto, quel Conte di Floridablanca di pirotecnica maestria (l’azzurro smaltato della fusciacca incrocia ed accende la serica veste scarlatta), ma ancora rigido e in posa, prigioniero di troppi cliché.
Passano pochi mesi e Goya realizza un capolavoro, un ritratto di gruppo fra i più belli del mondo, miracolosamente conservato in Italia. Vorrei saperla raccontare questa presenza eccentrica di Goya in Val Padana, fra le nebbie di Mamiano di Traversetolo, nella Fondazione Magnani Rocca. Una tela, tre metri di base, che apre spettacolarmente la mostra di Londra, avendo catturato per sempre la malinconia dell’Infante don Luís di Borbone e della sua piccola corte.
Fratello cadetto del re Carlo III, don Luís viveva relegato nella Sierra de Gredos, lontano da Madrid, per avere sposato la bellissima Maria Teresa Vallabriga, borghese, di 31 anni più giovane.
In questa “scena di conversazione” dove nessuno conversa, quattordici figure si scalano silenziose in ribalta. Goya le osserva dalla sua postazione nel buio, nell’angolo sinistro del quadro: i bimbi, le ancelle, l’Infante senza più desideri, la bella signora vestita di luce, il coiffeur che le scioglie i capelli (è ormai scesa la notte), un uomo elegante che è il musicista Luigi Boccherini, un servo che passa nell’andirivieni della vita.
La composizione è imponente e complessa, eppure fluida, immediata, di sconcertante libertà nell’accostare prìncipi e borghesi, servitori e bambini sorpresi nell’intimità di una sera. Niente di aulico, di celebrativo, spazzati via i precedenti ingombranti dei ritratti ufficiali del regno. Si avverte, turbati, che «la solitudine dell’uomo nel ritratto può essere più grande della solitudine dell’uomo sulla terra». Parole del premio Nobel Ivo Andric, toccato dai ritratti di Goya. Parole che fanno riflettere sulla vistosa operazione di marketing lanciata da Credit Suisse (partner dell’esposizione) che, dai cartelli all’ingresso della National Gallery, invita a una lettura azzardata: «you can bring Goya’s portraits to life, using your smartphone».
La “vita” dei ritratti di Goya sta invece, io credo, nella tangibile e non virtuale grandezza del Ritratto del duca di Wellington, “generalissimo” e vittorioso, eppure così solo e smarrito davanti alla Storia. O in un secondo Ritratto della duchessa d’Alba, irresistibile e lattea, ornata di nastri rubino. O ancora nel Ritratto del piccolo Manuel Osorio, una colata di rosso sui non-colori del fondo. Compunto e sottratto ai suoi giochi, il bimbo si muove entro una scenografia che ha scompigliato le carte (ai suoi piedi: tre gatti, una gazza, una gabbia di cardellini) e portato nuova linfa alla tipologia del ritratto.
Difficile approdare a una sintesi. Questo reportage mette insieme frammenti, perché i dipinti ci prendono uno per uno, fino agli autoritratti dolenti dell’ultimo Goya. Fino al doppio ritratto (1820) che chiude la mostra: il pittore, fra la vita e la morte, è sorretto dal suo medico Arrieta. Nella gamma senza fine dei grigi (i grigi e i rosa di Goya!), si legge lo schema della
Pietà, il corpo del pittore malato, franante sul primo piano.
Da anni, chiuso in una prigione di silenzio dovuta alla sordità e prostrato dalla perdita di sei figli, Goya aveva espresso la sua amarezza esistenziale nelle “pitture nere” della Quinta del sordo, la sua casa sul Manzanarre. Per ritrovare infine in terra di Francia, nell’esilio volontario a Bordeaux (1824), quel filo di vita che la Spagna al tramonto, la Spagna di Ferdinando VII, sembrava crudelmente negargli.

Corriere 27.12.15
Quei 1.100 geni che ci rendono intelligenti
Per il 40% le capacità cognitive vengono da due «squadre» di materiale ereditato attraverso il Dna


Per l’intelligenza che ci è toccata in sorte possiamo ringraziare mamma, papà e oltre mille geni tra quelli che ci hanno trasmesso i nostri genitori. Che le capacità cognitive fossero (in buona parte) ereditarie e che non esistesse un solo gene dell’intelligenza ma molti, era chiaro da tempo. Ma grazie a uno studio appena pubblicato su Nature Neuroscience ora possiamo dar loro un nome. M1 e M3. Si chiamano così le due squadre di geni, costituite rispettivamente da un migliaio e un centinaio di singoli elementi, identificate all’Imperial College London da un gruppo che comprende anche alcuni nomi italiani.
I ricercatori hanno paragonato questi geni agli atleti di un team di calcio, che giocano in diversi ruoli cooperando tra loro. Non sappiamo ancora quali siano più importanti per vincere e non conosciamo la strategia della partita. Ma è probabile che esistano dei meccanismi regolatori comuni, che garantiscono il coordinamento molecolare responsabile delle nostre facoltà cognitive, dalla capacità di giocare a scacchi al senso dell’umorismo. L’esistenza di pochi interruttori condivisi, secondo il primo firmatario della ricerca Michael Johnson, in un lontano futuro potrebbe aprire la strada a interventi per aiutare i pazienti con disabilità cognitive. Ma i geni coinvolti sono così tanti, probabilmente ben più di quelli appena individuati, da far apparire come fantascientifica l’idea di progettare bambini superdotati a tavolino.
L’intelligenza generale è difficile da definire perché è un mix di capacità differenti, come la memoria e la velocità con cui processiamo le informazioni, ma può essere misurata perché queste doti tendono a presentarsi insieme e test diversi tendono a dare risultati simili. L’ultima scoperta è arrivata componendo un puzzle impressionante di dati. I ricercatori dell’Imperial College hanno individuato i primi tasselli grazie a studi sul topo e all’analisi di un centinaio di cervelli umani conservati post mortem . Poi gli indizi sono stati confrontati con due database, rappresentativi di migliaia di volontari, sani e affetti da diverse patologie tra cui epilessia, schizofrenia e autismo. È emerso così che il quoziente intellettivo nelle persone sane è influenzato da geni che ritroviamo, in forma mutata, nei pazienti con problemi.
La forte ereditarietà delle capacità cognitive è stata confermata dagli studi sugli scimpanzé e si stima che il 40 per cento della variazione nell’intelligenza umana sia legato alla genetica. Per il resto il merito va ai fattori sociali, come la scolarizzazione e la possibilità di crescere in ambienti stimolanti. Genitori intelligenti tendono ad avere figli intelligenti perché danno loro buoni geni e buoni libri. Come ha scritto uno dei massimi studiosi dell’intelligenza, James Flynn, la dotazione naturale con cui si nasce stabilisce dei limiti al successo individuale. Una volta raggiunta l’età per prendere decisioni autonome, comunque, dipende soprattutto da noi usare ciò che abbiamo nel miglior modo possibile.

Corriere La Lettura 27.12.15
L’Europa può salvarsi se diventa americana
Il filosofo Glyn Morgan:l’Unione deve assicurare prestazioni sociali minime
Serve un bilancio federale più elevato
conversazione con Maurizio Ferrara


Glyn Morgan è uno dei pochi filosofi americani che si occupano di integrazione europea. In un libro del 2005 che ha fatto molto discutere — The Idea of a European Superstate , Princeton University Press — questo studioso ha sostenuto che se l’Europa vuole davvero rispondere alle nuove sfide globali (e allora l’Isis non c’era ancora) deve trasformarsi in un vero Stato unitario, ispirato agli standard della democrazia e della giustizia. Morgan ama l’Italia ed è spesso in visita al Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, in Piemonte. Proprio al Collegio si è da poco tenuto un convegno internazionale sulla crisi greca, che mi ha consentito di rivedere Glyn e di avere con lui un’interessante conversazione sulla Ue e il suo futuro.
MAURIZIO FERRERA — L’Unione europea è ancora in grave difficoltà. La crisi del debito è stata contenuta, ma non risolta. Molti Paesi si rifiutano di fare la propria parte sul tema dei rifugiati. A dispetto delle dichiarazioni retoriche, il sostegno concreto alla Francia dopo gli attacchi terroristici di novembre è stato molto tiepido. Il Regno Unito minaccia di andarsene. L’economia arranca, crescita e occupazione stentano a ripartire. La sensazione è che a monte di tutti questi problemi ci sia una debolezza di fondo del Vecchio Continente, un’incapacità di decifrare le trasformazioni epocali che stanno avvenendo a livello globale.
GLYN MORGAN — Le sfide da fronteggiare sono in effetti enormi, non hanno paralleli con quelle del passato. Guardiamo all’economia. Viviamo in un’epoca di capitalismo davvero globale, al quale partecipano ormai a pieno titolo anche Paesi come la Cina e l’India. In un processo che l’economista di Harvard Richard Freeman ha chiamato il «Grande Raddoppio», l’offerta globale di lavoro è aumentata da un miliardo e mezzo a quasi tre miliardi di lavoratori. Un numero crescente di aziende e persino intere filiere industriali europee hanno scoperto di non poter più sopravvivere nel nuovo contesto. L’Europa deve trovare il modo di competere in questo nuovo mondo. Ed è costretta a farlo mentre la sua società invecchia e le pressioni sul welfare aumentano. Un sistema sociale «anziano» è meno capace di tollerare cambiamenti e sperimentazioni incisive, ha meno volontà di esplorare nuovi modi di produrre. Consideriamo ad esempio imprese rivoluzionarie come Google, Facebook, Airbnb e Uber: tutte creazioni di giovani americani tra i venti e i trent’anni. Le sfide politiche sono altrettanto gigantesche. Il Nord Africa e il Medio Oriente sono in via di implosione. Stiamo assistendo non solo alla caduta di leader e regimi, ma a una ridefinizione dei confini. Sulla scia di questo ridisegno, è probabile che arrivino al potere forze politiche tutt’altro che appetibili per noi occidentali. Inevitabilmente, un gran numero di persone fuggirà dal caos e dalla violenza e cercherà di entrare in Europa. A meno di non militarizzare i confini e respingere i rifugiati verso una morte certa, le autorità europee non avranno altra scelta che ammetterli. Se l’immigrazione è inevitabile, l’esigenza è quella di trasformare gli immigrati in cittadini leali e produttivi. Questo insieme di sfide farebbe tremare i polsi a qualsiasi sistema di governo. E ancora più ingenuo è pensare che la risposta a simili sfide possa venire a livello nazionale, come pensano gli euroscettici.
MAURIZIO FERRERA — Il populismo e l’antipolitica sono in ascesa un po’ in tutti i Paesi membri, come mostrano da ultimo i casi francese e spagnolo. L’euro e più in generale l’integrazione sono spesso presi di mira come capri espiatori. Non credi che ci sia una relazione fra la rinascita del populismo e del radicalismo e l’assenza di un sistema credibile di rappresentanza a livello Ue? C’è chi parla della trasformazione delle istituzioni sovranazionali (la Commissione in particolare) in una sorta di «econocrazia», del pericolo di un nuovo «autoritarismo liberale» nel cuore dell’Europa, esercitato da tecnici sempre più distanti dai cittadini e senza vincoli di accountability, di responsabilità verso gli elettori …
GLYN MORGAN — Il grande successo dell’Europa è stata l’«incorporazione politica liberale» dei Paesi ex comunisti. Nessun Paese dell’Europa centrale e orientale è scivolato verso forme di autoritarismo neofascista o neocomunista: il liberalismo è riuscito a trionfare. Certo, l’assetto istituzionale Ue pone vincoli alla democrazia nazionale. Ma a me sembra un prezzo relativamente basso da pagare. Consideriamo anche che la Ue lascia le decisioni in aree elettoralmente salienti come le pensioni, il welfare, l’istruzione, l’ordine pubblico, le tasse sul reddito nelle mani dei governi nazionali. È assurdo dipingere l’Europa come un’istituzione non democratica.
MAURIZIO FERRERA — In linea di principio hai ragione. Ma i vincoli sui bilanci pubblici nazionali sono diventati molto stringenti. La Commissione e la Banca centrale sono intervenute in modo molto intrusivo nelle scelte di politica economica e sociale durante la crisi. Pensiamo alle lettere di Jean-Claude Trichet alla Spagna o all’Italia, che contenevano una dettagliata lista di riforme da varare come condizione per il sostegno finanziario. E pensiamo alle vicende greche.
GLYN MORGAN — È vero, i greci amano ritrarre la «troika» come antidemocratica. Nel luglio 2015, i tecnici Ue hanno ottenuto decisioni di austerità dal governo di Atene che sembravano sovvertire la volontà popolare espressa nel referendum. Ma è più corretto interpretare questa dimensione della crisi greca come uno scontro fra democrazie nazionali. Il popolo greco voleva una cosa; il popolo tedesco (olandese, finlandese, slovacco e così via) ne voleva un’altra. Nessun sistema democratico ben ordinato può permettere a un segmento degli elettori di imporre perdite agli altri.
MAURIZIO FERRERA — Dipende da come si stabilisce chi perde e chi guadagna. Anche gli economisti più ortodossi riconoscono oggi che la Ue ha favorito i creditori a svantaggio dei debitori. Dopo tutto, le banche tedesche avevano prestato soldi alla Grecia per libera scelta, lucrando interessi più elevati rispetto a investimenti alternativi effettuati in Germania. Un’unione monetaria fra economie eterogenee non può funzionare senza una Banca centrale che funga da «prestatore di ultima istanza» e senza una certa quota di «mutualizzazione dei rischi» fra Paesi membri. Per muovere in questa direzione c’è bisogno però di una giustificazione non solo in chiave di necessità economica, ma anche di solidarietà: non sei d’accordo?
GLYN MORGAN — Invece di appellarsi alla solidarietà, un termine abusato che non ha chiaro significato, io preferirei usare un concetto di Alexis de Tocqueville: quello «proprio interesse correttamente inteso». I tedeschi hanno perseguito un proprio interesse definito in termini molto ristretti fin dall’inizio di questa crisi. Il cosiddetto bail out della Grecia nel 2010 è essenzialmente stato, come hai detto tu, un piano di salvataggio delle banche tedesche (olandesi e francesi): alcune sarebbero inevitabilmente fallite, se la Grecia fosse stata inadempiente. La retorica ipocrita dei tedeschi ha avvelenato il dibattito e ha portato a una spirale poco edificante di recriminazioni reciproche tra creditori e debitori. I tedeschi devono convincersi che il loro Paese ha tratto benefici sproporzionati dall’attuale sistema europeo di governance. E devono capire che molti europei percepiscono tale sistema come ingiusto. È nell’interesse di lungo periodo di tutti gli europei (tedeschi e greci, olandesi e italiani) individuare un sistema di governance che consenta chance di prosperità a tutti i popoli. Ho il sospetto che un tale sistema richiederà molta più centralizzazione di quanta ve ne sia al momento. Molta più Bruxelles e molta meno Berlino.
MAURIZIO FERRERA — Ma ciò comporta, come dicevo, l’elaborazione e la condivisione di una qualche concezione di giustizia.
GLYN MORGAN — Vero. Ma non credo che sia auspicabile o fattibile aspettarsi molto in termini di consenso sui dettagli che riguardano le tasse o il welfare. Abbiamo bisogno di accordo solo rispetto a una concezione di giustizia che si limiti a definire il minimo sociale di base. Al di sopra di questo minimo, le diverse regioni dovrebbero essere libere di fissare i propri livelli di tassazione e di welfare. Come negli Stati Uniti, dove il New Hampshire non ha alcuna imposta sul reddito o sulle transazioni commerciali, mentre uno Stato come New York ha imposte elevate in entrambi i casi. Nel corso del tempo, a mano a mano che gli europei diventeranno più mobili dal punto di vista geografico, potranno decidere di spostarsi verso la regione che meglio si adatta alle loro preferenze.
MAURIZIO FERRERA — Ma gli Stati Uniti hanno anche un welfare federale ( social security , tax credits , programmi di assistenza medica e sociale e così via: più del 15% del Pil), nonché un sistema di trasferimenti da Washington ai singoli Stati. Questi due elementi garantiscono un certo grado di solidarietà e redistribuzione sia inter-territoriale sia inter-personale. C’è più mobilità geografica, è vero. Ma il bilancio federale gioca un ruolo importantissimo in termini di stabilizzazione economica e sociale. Il bilancio Ue è meno dell’1% del Pil Ue. Lasciamo perdere le considerazioni di fattibilità politica. Non pensi che in Europa ci dovrebbe essere almeno una conversazione pubblica su questi temi?
GLYN MORGAN — Hai perfettamente ragione sulle differenza tra Ue e Usa. In realtà, non credo che l’Unione europea possa sopravvivere a lungo se non diventa molto più simile agli Stati Uniti. Vista dal punto di vista americano, l’Unione Europea oggi ricorda il sistema di governo basato sugli Articles of Confederation , che fu in vigore solo per 12 anni prima della Costituzione federale del 1789. Tale sistema si dimostrò troppo decentrato per affrontare le sfide economiche e di sicurezza che l’America doveva fronteggiare. La centralizzazione del potere è sempre pericolosa, il governo federale Usa ha fatto cose terribili nella storia, sia in patria che all’estero. Ma, nonostante ciò, penso che l’Unione europea debba oggi centralizzare. Serve un bilancio federale molto più elevato e molta più redistribuzione tra gli Stati membri. Nel breve, penso ci sia bisogno di un dibattito serio su un sistema di assicurazione contro la disoccupazione a livello europeo. Anche se questo non è all’ordine del giorno, alcuni studiosi hanno iniziato a lavorare su questo tema. Hai citato in precedenza la questione della fattibilità. Un sistema di assicurazione contro la disoccupazione a livello europeo non è attualmente fattibile. Ma se non iniziamo a discuterne, non avremo nulla da offrire nel caso in cui l’attuale crisi si aggravasse. Diciamolo chiaro, nessuno pensa seriamente che la crisi greca sia finita. Entro i prossimi due anni partirà un nuovo ciclo di dibattiti sul futuro dell’Europa. Abbiamo bisogno di piani audaci, radicati in adeguati principi di giustizia.
MAURIZIO FERRERA — E quali principi potrebbero ispirare la politica nei confronti dei rifugiati e degli immigrati in generale? Il loro arrivo (e penso non solo a quelli che provengono dall’Africa o dal Medio Oriente, ma anche a quelli che si spostano dalla Polonia o dalla Romania al Regno Unito) suscita ostilità e risentimento da parte dei nativi. Soprattutto da parte di chi rischia di perdere il posto di lavoro. Per grandi segmenti di popolazione (e di elettorato) la solidarietà si ferma ai confini nazionali, addirittura regionali. C’è un problema politico, ma anche un interrogativo etico: l’ospitalità e l’accoglienza degli «stranieri» sono degli imperativi morali?
GLYN MORGAN — Assolutamente sì. Gli europei devono fare i conti con uno spiacevole fatto: il loro essere nati in società stabili e relativamente benestanti è frutto della sorte. Ciascuno di loro potrebbe essere nato in Ciad o in Niger. Le frontiere chiuse e impermeabili imprigionano le persone in condizioni di povertà. Tra il 1880 e il 1919 gli Stati Uniti accolsero più di 23 milioni di immigrati, molti dei quali italiani. Purtroppo, il dibattito sull’immigrazione in Europa è dominato dai nazionalisti. Tutti coloro che credono nell’uguaglianza naturale fra gli uomini e nella libertà di movimento come diritto fondamentale — due conquiste intellettuali proprio dell’Illuminismo europeo — devono far sentire, oggi, la loro voce.

Corriere La Lettura 27.12.15
Diritti e salari, il lavoro è cambiato Siamo tornati indietro di un secolo
Parla la sociologa americana Ruth Milkman: negli Stati Uniti vince il fondamentalismo del mercato
Colpa delle tre D: deregulation, deindustrialization, deunionization


Il lavoro che non c’è. E quando lo trovi non ti senti al sicuro lo stesso. Il futuro dell’occupazione visto dall’altra parte dell’Atlantico con la sociologa Ruth Milkman, protagonista nei giorni scorsi all’Università Bicocca di Milano di un convegno sul precariato che per qualcuno è, spesso, sinonimo di flessibilità. Ma è proprio così? «La flessibilità è un termine ampiamente utilizzato negli Stati Uniti; ma il problema è: flessibilità per chi? Il più delle volte è una flessibilità a vantaggio solo di una parte: i datori di lavoro che decidono le regole. Mentre i lavoratori devono adattare la propria vita a soddisfare queste nuove esigenze. Diventare disponibili a offrire la loro prestazione ogni volta che il datore di lavoro lo richiede. Tutto ciò ha incrementato l’insicurezza per il posto. Un numero elevato di lavoratori statunitensi possono essere licenziati in qualsiasi momento e senza giusta causa. È illegale solo licenziare le persone sulla base di sesso, razza, e per alcune altre categorie protette, ma per il resto, se il datore di lavoro decide di licenziare, il dipendente non ha nemmeno la possibilità di fare ricorso. Questa non è una situazione nuova, ma negli ultimi anni, anche prima della crisi economica, è in crescita. Penalizzati soprattutto i lavoratori più anziani che vengono licenziati più facilmente per abbattere i costi».
È finita l’era del welfare?
«Negli Stati Uniti non l’abbiamo mai conosciuto, almeno non nell’accezione europea. Ci ha provato l’amministrazione Clinton, nel ’96, a riconoscere alcuni diritti alle fasce deboli. Ci ha riprovato l’attuale presidente con la riforma sanitaria, Obamacare. Negli Usa si pensa sempre che sia il libero mercato a determinare il destino degli individui, e in questa prospettiva i “diritti garantiti” sono problematici».
I sindacati hanno un futuro? O, forse, non hanno più neanche un presente?
«Negli Usa i sindacati sono sotto attacco da decenni. Nel privato gli iscritti sono scesi dal 35 per cento della metà degli anni Cinquanta al 6,6 per cento nel 2014. Hanno una maggiore presenza nel settore pubblico con il 35,7. Ciò ha avuto conseguenze enormi, ed è una delle cause della massiccia crescita della disuguaglianza del reddito a partire dal 1970».
Karl Marx ha perso. Ma siamo sicuri che Adam Smith stia vincendo?
«Negli Stati Uniti vige quello si chiama fondamentalismo del mercato, quasi un’ideologia che si è acuita dagli anni Settanta in poi: la certezza che il libero mercato è la risposta a tutti i problemi. Questa idea è stata utilizzata, e anche strumentalizzata, allo stesso modo dalle amministrazioni repubblicane e democratiche per giustificare la deregulation , i tagli al welfare e una flessibilità sempre più larga. In questa prospettiva Adam Smith ha vinto. Ma dopo la crisi del 2008 le cose sono cambiate. Grazie anche al movimento Occupy Wall Street , la preoccupazione per la crescente disuguaglianza economico-sociale è aumentata notevolmente. E per la stessa ragione c’è molto più scetticismo riguardo alle acrobazie finanziarie di Wall Street e all’aumento della forbice nei redditi: i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. I giovani sono stati colpiti più duramente dai cambiamenti del mercato del lavoro, anche se non ai livelli elevati e preoccupanti dell’Europa, e hanno accumulato debiti senza precedenti per potersi permettere gli studi universitari. Sono loro i più critici verso il sistema e in prima linea nella creazione di movimenti di protesta».
La linea che divide il precariato dal lavoro nero o non riconosciuto, spesso, è molto labile.
«C’è un numero crescente di posti di lavoro irregolari (per esempio, i conducenti Uber), ma fino ad ora le cifre sono modeste, meno dell’1 per cento del totale. In più ci sono molti liberi professionisti e imprenditori indipendenti che, però, lavorano in settori a basso salario. Infine ci sono i lavoratori che sono pagati a giornata e, spesso, che non sono contemplati dalle statistiche dell’economia ufficiale. E non abbiamo stime affidabili su quanti lavoratori ci siano in queste categorie, anche se i dati sulla loro crescita sembrano essere sovrastimati».
Il boom del precariato è una conseguenza della crisi economica del 2008?
«Tutto questo è cominciato ben prima della crisi, ma la recessione ha portato a un modo diverso di porsi davanti al mondo del lavoro. Quindi il problema non è direttamente legato alla crisi ma è di portata molto più grande. Un’altra osservazione: ci sono alcuni lavoratori, specialmente tra i giovani, che preferiscono un lavoro di tipo non subordinato, a loro piace l’idea di essere il capo di loro stessi, e non sembrano troppo preoccupati di avere la garanzia di un posto sicuro. Pensano che la sicurezza del posto è spesso illusoria e così scelgono il lavoro autonomo o di diventare freelance».
Però, per altri versi, sembra si stia tornando indietro a un modello antico di capitalismo.
«Sappiamo che il periodo d’oro per il lavoro negli Usa coincide con gli anni Trenta: il New Deal che tirò fuori il Paese dal fango della Grande Depressione. Le riforme sulla sicurezza sociale (1935), i salari minimi e il pagamento degli straordinari (1938), così come i diritti dei sindacati (1935). Uniche escluse le donne, che continuavano a non godere delle conquiste ottenute dagli altri lavoratori. Ma a partire dagli anni Settanta abbiamo assistito a un’erosione di questi diritti con il crescere delle politiche neoliberiste. Con l’arrivo delle tre D: deregulation , deindustrialization , deunionization (indebolimento del sindacato) . Questo ha trasformato il mercato del lavoro. E se leggiamo la storia in quest’ottica, si può dire che la precarietà assomiglia alla situazione di un secolo fa».
Come si immagina il mondo del lavoro domani?
«Alcuni cambiamenti importanti si stanno già verificando. E sono legati alla crescita dell’immigrazione. Stiamo parlando di tipologie molto varie di nuovi lavoratori. Dai tecnici iper specializzati ricercati e dagli stipendi molto elevati ai lavoratori sottopagati, come ancora oggi le colf, ai dipendenti a giornata, che si arrabattano per sbarcare il lunario. Tutti hanno contribuito e stanno contribuendo alla vitalità economica degli Stati Uniti. Eppure, per qualcuno, rappresentano la causa della crisi. E sono ritenuti i responsabili del calo dei salari. Gli immigrati, in particolare gli undici milioni privi di documenti, sono diventati un comodo capro espiatorio».

Corriere La Lettura 27.12.15
Abbaio, dunque sono. O no?
Pensiero. La scienza continua a ragionare secondo uno schema cartesiano. Fa meglio la filosofia
Le più recenti ricerche di Animal Cognition tendono ad attribuire capacità mentali complesse a molte specie
Ma sono studi che ricascano nell’antrpocentrismo
di Leonardo Caffo


Penso, dunque sono. Con questo aforisma, forse il più influente della filosofia moderna, Cartesio non decretava soltanto la priorità del pensiero sull’essere: l’implicazione, secondaria ma forse più importante, è che, se non pensi, allora non sei. Nelle Meditazioni sulla filosofia prima , proprio Cartesio argomentava che gli animali sono paragonabili ad automi proprio perché privi di pensiero (e linguaggio): ecco l’inizio, più o meno dichiarato, dello «specismo cognitivo» — l’unica specie pensante, e dunque dotata di esistenza reale, è la specie umana.
Lo spirito del tempo, oggi, appare diverso: eppure le risposte e i controargomenti a Cartesio hanno tutti dovuto seguire le sue regole — cercare forme di pensiero simili al nostro, negli animali non umani, e solo in quel caso cominciare a discutere la loro appartenenza alla sfera del vivente in grado di percepirsi come «esistente».
Due notizie recenti per cominciare: «The Economist» che pubblica, nel numero del 19 dicembre, il risultato divulgativo di alcune ricerche che mostrano come certi animali pensino ( Animals think, therefore… ); e la pubblicazione recente, presso Zanichelli, del libro di Lisa Vozza e Giorgio Vallortigara Piccoli equivoci tra noi animali .
Possiamo provare a mettere insieme le due cose perché il presupposto, di fatto, è simile: la vita mentale degli animali è più complessa e articolata di ciò che pensiamo, la scienza ha ridotto senza motivo il potenziale cognitivo del non umano, e per comprendere le alterità di pensiero dobbiamo cambiare presupposto. Non più cercare nella vita mentale degli animali le nostre strutture cognitive quanto, piuttosto, le loro. Torna in mente quel celebre e incompreso argomento di Ludwig Wittgenstein — «le forme di vita sono incommensurabili» e anche «se i leoni potessero parlare noi non potremmo capirli». Cosa ci sta dicendo Wittgenstein? Che ogni vivente ha una mente che segue regole, principi e parametri, a noi spesso incomprensibili: la vita dell’altro, proprio perché appartenente a un campo di senso a noi estraneo, è sempre e comunque incomprensibile se non attraverso dei principi di astrazione che la riportino ai nostri schemi personali.
«The Economist» discute le più recenti ricerche di Animal Cognition , secondo cui, «molti animali, dai ratti ai pappagalli, fino alle balene», hanno capacità mentali (e addirittura culturali) complesse, e in parte lo stesso fanno Vallortigara e Vozza, depotenziando quello che chiamano «egocentrismo» riferito all’attribuzione di stati mentali. Non si può pensare di attribuire al cane, e alle sue presunte espressioni facciali, emozioni simili alle nostre: il cane, come i delfini citati dall’«Economist», possono illuderci con false similitudini. Ecco, dunque, che spuntano i mitologici «neuroni specchio», classe di neuroni che scarica passivamente, ovvero quando si guarda agire e non solo quando si agisce, che sembrano ampiamente diffusi anche al di là del confine dei primati, umani e non, fino ai mammiferi più disparati.
La tesi, controversa, è che ognuno sia cosciente a modo suo, ma che qualcuno, per dirla con una parafrasi del motto della Fattoria degli animali di George Orwell, sia più cosciente degli altri. Chi? Noi, ovviamente. Ecco che per combattere Cartesio, paradosso alle porte, torna il cartesianesimo: scegliamo le regole del gioco del possesso della vita mentale, ma ovviamente scegliamo le nostre, e quanto più ci sono vicini tanto meno noi gli saremo lontani.
Lo specismo cognitivo, purtroppo, è un problema quasi innocuo se confrontato allo specismo come specchio del più ampio antropocentrismo e l’articolo dell’«Economist», francamente, è antiquato filosoficamente, se pensiamo alle più recenti ricerche sulla teoria dell’animalità. La domanda stessa è obsoleta: noi scegliamo cosa significhi «essere persona», attraverso le categorie dell’umano normodotato, e poi ci stupiamo se altri animali non ne sono in possesso. Possibile, davvero, che alla vigilia del 2016 la scienza debba cadere in questi errori? Se un ghepardo scegliesse le sue caratteristiche specie-specifiche per giudicare il mondo, non testerebbe tutti gli altri in base alla velocità? Non solo: se davvero per esistere bisogna pensare, e pensare significa pensare come pensano gli umani cognitivamente sani, allora che cosa ne è di tutti gli umani con menomazioni cerebrali, deficit psichiatrici o neurologici, afasie e via dicendo? Pensando e parlando diversamente da «noi» … dunque non sarebbero?
La verità è che la filosofia, talvolta, è assai più avanzata della scienza: Gilles Deleuze, con il suo «divenire animale», o Jacques Derrida, con le sue ricerche sull’animalità dell’umano, hanno mostrato come il vero problema sia pensare tutta la diversità animale come un paragone deficitario rispetto all’umanità. Fingiamo di discutere di animali ma continuiamo a parlare di noi: mentre diciamo come pensano (male) altri animali, o come producano cultura (di secondo ordine) altre creature, stiamo dicendo quanto siamo bravi noi a fare ciò che ci caratterizza come specie.
L’ Animal Cognition contemporanea, diciamolo senza paura, rispetto ai più ampi e complessi Animal Studies , giace a uno stadio scientifico arretrato: domande, quasi tautologiche («pensano come noi senza essere noi?») regolano ricerche che inevitabilmente, per questioni di metodo, conducono a un antropocentrismo di ritorno.
Eppure un’altra strada è possibile da tempo, una strada che non sia oltre che paradossale anche violenta, perché lo sappiamo che l’ Animal Cognition , per dimostrare che certi animali sono intelligenti o sensibili, si costringe a esperimenti brutali: pensiamo a come, per testare la presenza dei neuroni specchio nelle aree F4 e F5 del cervello dei macachi, si debbano eseguire operazioni e test che conducono alla morte delle cavie. Violenza e insensibilità scientifica: dire che anche le scimmie hanno empatia, e si relazionano con l’altro in modo complesso, attraverso atti di violenza mascherati da ricerca. «The Economist» riporta che vari animali hanno la mente, senza dirci che la parola «animale» nulla significa perché racchiude entro sé un’estensione semantica immensa (Quali animali? Chi? Dove? A che condizioni?), e il libro di Vozza e Vallortigara abitua a vedersi come diversi dagli animali, che pure sono pieni di risorse dicono, chiudendo il libro coscienti che questa diversità è anche qualitativa: l’intelligenza umana è ineguagliabile.
«Qui c’è troppa puzza di uomo», direbbe Carmelo Bene, perché davvero sembra impossibile aspettarsi apertura da chi studia gli animali senza abbandonare le implicazioni morali della posizione eretta: guardare, sempre e comunque, questo mondo dall’altro verso il basso. Ma le cose evolvono, e mentre la scienza si sforza di comprimere la via mentale di un delfino nelle nostre categorie, certa filosofia tenta il superamento definitivo dell’antropocentrismo in un viaggio fuori dalla nostra atmosfera.
E allora, ecco, altre due notizie — ma stavolta per concludere. Due libri appena usciti per Stanford University Press sembrano cercare il sorpasso dell’umanità padrona, la possibilità di abbandonare la proiezione perenne della nostra ombra sul vivente in generale: Plant Theory. Biopower and Vegetable Life , di Jeffrey T. Nealon, e Thinking Through Animals , di Matthew Calarco. Da un lato la possibilità di ripensare la biodiversità attraverso la vita vegetale, dall’altro la comprensione di un’evidenza: l’unica possibilità di pensare l’animalità non è attraverso un pensiero identitario, che riporti la diversità alle nostre regole (la scienza vecchio stile), ma attraverso un pensiero della differenza o addirittura dell’indistinzione: ogni forma di vita, non solo è incommensurabile, ma è tremenda come gli angeli di Rilke. Ogni ente esistente è una forma di un unico mistero che chiamiamo vita: mentre l’umano cerca il predominio morale e cognitivo sugli altri abitanti della Terra, il pianeta, dall’universo immenso, appare come un puntino periferico. Questo il senso ultimo: spostarsi dal centro e abitare, fino ad arredarle, le periferie — il pensiero migliore è quello che si fa quando siamo, con Franz Kafka, «sdraiati a terra tra gli altri animali».

Corriere La Lettura 27.12.15
Mente
Le finestre dell’illuminazione
La fase creativa della vita si spinge in avanti. Ecco perché, dicono due economisti, si raggiunge l’apice anche da anziani


Giorgio de Chirico arrivò a Parigi nel 1911 da Firenze, per raggiungere il fratello Alberto. All’epoca aveva 23 anni, ed era già vissuto in Grecia, in Germania e a Milano. Da quell’anno della Belle Époque fino ai suoi 30 anni, de Chirico produsse dipinti di un’originalità stupefacente. Le piazze metafisiche, gli orologi nel silenzio, le statue neoclassiche in una luce irreale. Dalle sue mani di ventenne prendevano forma scene come in un sogno o in una mente infantile, avrebbe poi detto lui stesso. Sono di questa fase i quadri poi identificati con il suo nome: L’enigma dell’ora del 1911, Canto d’amore del ’14, Gare Montparnasse del ’16. André Breton decise che da lì sarebbe venuta l’ispirazione del movimento surrealista.
Qualche anno dopo de Chirico rientrò in Italia, chiamato al fronte, e da allora non sarebbe più tornato all’approccio dei suoi vent’anni. Iniziò presto a pagare il prezzo di essere stato un giovane visionario. Breton emise una terribile sentenza di condanna dei suoi quadri più maturi, i surrealisti parigini cercarono in tutti i modi di farlo tornare allo stile di un tempo, lo storico dell’arte James Thrall Soby parlò del suo «collasso come artista originale e creativo». Si era aperta una ferita che non si sarebbe rimarginata. Da vecchio, de Chirico finì per copiare il se stesso di oltre mezzo secolo prima. Metteva arbitrariamente sulle tele date dei primi del Novecento. «Diventò un falsario delle sue stesse opere», scrive David Galenson.
Non molti gli crederanno, perché Galenson non è un artista né un critico d’arte. È un economista. Forse anche lui è affetto dalla smania imperiale così diffusa nella sua categoria, che si spinge a reinterpretare qualunque campo del vivere comune e dell’espressione umana attraverso gli strumenti dell’economia. Ma Galenson, che insegna all’Università di Chicago, è a suo modo anche lui un innovatore. Si è convinto che dovremmo capire molto meglio i metodi attraverso cui le persone producono scoperte: dovremmo studiare come gli artisti creano i loro capolavori, gli scienziati inventano nuovi vaccini, o gli imprenditori sviluppano tecnologie o prodotti. Per la precisione, bisogna comprendere in quale momento della vita le persone sono più produttive con la loro mente. E perché. Da economista, vuole definire l’età dell’illuminazione intellettuale: un’ambizione emblematica di un Occidente segnato dal declino demografico dei baby boomers , la generazione del dopoguerra con pochi figli e ancora meno nipoti.
La risposta più breve alla domanda di Galenson è che non c’è un’età sola. Si può raggiungere l’apice dalla creatività da giovani o anche da molto anziani, è la sua conclusione. Perché non esiste un solo tipo di processo creativo. Né le età più intellettualmente fertili sono sempre le stesse, nella storia. Benjamin Jones, un altro economista (della Northwestern University), ha esaminato i vincitori di Nobel in fisica, chimica, medicina, economia e i grandi e riconosciuti innovatori tecnologici del XX secolo (circa mezzo migliaio di persone). E ha verificato quanti anni aveva ciascuno di loro quando ha prodotto il lavoro che poi sarebbe valso il riconoscimento. Non a che età quelle persone hanno vinto il Nobel o sono diventate ricche; piuttosto, a che età hanno fatto le scoperte che decenni dopo le avrebbero portate al successo.
Poiché quei tipi di ricerca scientifica sono fra i più puramente concettuali e astratti — quasi come la matematica pura, o gli scacchi — non sorprende che i cinquecento innovatori di Jones siano in prevalenza giovani. Fisici come Paul Dirac o Albert Einstein hanno fatto compiere alla conoscenza umana progressi terrificanti quando avevano 26 anni (in una poesia Dirac scrisse: «L’età è una febbre che ogni fisico deve temere/ Meglio morto che vivo quando supera i trenta»). Anche Paul Krugman aveva 26 anni quando nel 1979 pubblicò lo studio che gli sarebbe valso il Nobel per l’economia trent’anni dopo. In generale il 42 per cento del campione selezionato da Benjamin Jones ha prodotto le maggiori innovazioni tra i 30 e i 39 anni, il 30 per cento fra i 40 e i 49 e solo il 14 per cento prima dei 50. Dirac, Einstein e Krugman sono in quel 7 per cento che ci è arrivato a 26 anni o anche meno.
Poi però, guardando i dati, Jones si è accorto di qualcosa di strano: l’età dell’illuminazione cresceva; con il passare del XX secolo, i grandi innovatori fiorivano sempre più tardi. L’apice della creatività scientifica si colloca in media intorno ai trent’anni nel 1900, ma slitta fino quasi a quaranta alla fine del secolo. La spiegazione di Jones: prima di diventare produttivi, dobbiamo camminare sempre più a lungo per raggiungere la nuova frontiera della conoscenza scientifica, perché quella si sposta sempre più in là. Prima di poter portare un contributo, il patrimonio intellettuale da conquistare è sempre maggiore con l’accumulo della ricerca altrui. All’inizio della Belle Époque si entrava nella fase creativa a 23 anni, nell’anno Duemila a 31. L’altro aspetto sorprendente però è che la finestra della produttività non si sposta tutta più in là nel corso della vita: il declino inizia sempre allo stesso momento, durante il decennio della quarantina.
La finestra è più stretta. Le donne e gli uomini del XXI secolo hanno meno tempo per lasciare un contributo concettuale. Non è vero per tutti, però. Per esempio, nota Jones, gli storici tendono a scrivere capolavori da vecchi. Qui entra in gioco l’originalità del maturo Galenson, autore di Old Masters and Young Geniuses: The Two Life Cycles of Artistic Creativity . Da economista, ha studiato i prezzi d’asta delle opere d’arte prodotte nelle varie età della vita di alcuni artisti, la frequenza delle loro riproduzioni nei libri o dell’esibizione nelle mostre. Coincidono: i pezzi più cari sono anche quelli del periodo più studiato o più esposto. La conclusione è che Picasso raggiunge il suo apice a 26 anni, quando dipinge un quadro di sconvolgente carica innovativa come Les Demoiselles d’Avignon . Ma Cézanne è al picco ai suoi 67, l’ultimo anno della sua vita. Francis Scott Fitzgerald scrive Il grande Gatsby a 29 anni, prima di conoscere un rapido declino che lo porterà all’alcolismo. Ma Svetlana Aleksievic ha pubblicato a 67 anni Tempo di seconda mano , il volume che probabilmente le è valso il Nobel per la letteratura di quest’anno.
Secondo Galenson questa forbice mostra che la creatività è di due tipi: esiste quella puramente concettuale, di innovatori spesso giovani che con l’intuizione creano modelli del mondo; e c’è quella sperimentale, di innovatori spesso più anziani che guardano al mondo, accumulano esperienza e la restituiscono per deduzione nelle loro opere. «Io non cerco, trovo», diceva Picasso; «nella pittura io ricerco», diceva Cézanne. La lezione è che una società invecchiata come l’Occidente è oggi assediata da troppi pregiudizi circa la sua sterilità: crediamo nell’innovazione dei giovani, la scoraggiamo nei vecchi. Galenson, che ormai avvicina la sessantina, ha un’idea per compensare: «Offriamo borse di studio anche ai creativi più anziani. Dobbiamo fare tutto per ottenere da ciascuno il massimo della creatività».

Corriere La Lettura 27.12.15
Le tracce di due pianeti invisibili
Ecco i fantasmi del sistema solare
di Stefano Gattei


Di fronte all’ingresso dell’Osservatorio astronomico di Parigi, all’estremità meridionale del viale che lo collega ai giardini del Palazzo del Lussemburgo, una statua celebra Urbain Le Verrier (1811-1877), che nell’osservatorio parigino svolse gran parte della propria attività. Il suo nome è legato alla scoperta del pianeta Nettuno, nel 1846. Anni prima, uno studio dei parametri orbitali di Urano aveva messo in luce come il moto del pianeta divergesse in maniera apprezzabile dalle previsioni teoriche. Le Verrier ipotizzò allora l’esistenza di un altro pianeta, invisibile per le dimensioni ridotte, ma comunque in grado, con la propria massa, di perturbare l’orbita di Urano. Il pianeta fu poi effettivamente osservato nella costellazione dell’Acquario.
Fino a pochi mesi fa, Nettuno costituiva l’ottavo e ultimo pianeta del nostro sistema, poiché nel 2006 l’Unione astronomica internazionale aveva escluso Plutone (scoperto nel 1930) dal novero dei corpi celesti «erranti» intorno al Sole. Ora il numero potrebbe salire addirittura a dieci: basandosi su un modello matematico nato dallo studio della perturbazione dell’orbita di una cometa passata in prossimità di Giove, un gruppo di astronomi inglesi e spagnoli ha dedotto l’esistenza di (almeno) due nuove corpi celesti con massa sufficiente da provocare la distribuzione anomala di un ampio numero di asteroidi. L’esistenza dei nuovi pianeti, troppo lontani per essere osservati al telescopio, potrà essere dedotta soltanto in modo indiretto, con calcoli analoghi — ma decisamente più complessi — a quelli svolti da Le Verrier nell’Ottocento. Se confermata, si tratterà di una scoperta rivoluzionaria.

Corriere La Lettura 27.12.15
Dagli addosso a Matteotti


È un po’ singolare, rievocando un delitto politico, dare addosso alla vittima. E nel caso di Giacomo Matteotti risulta anche fuorviante. Il deputato socialista ucciso nel 1924 non sarà stato un «santo» né un «genio della politica», avrà commesso senz’altro molti errori e avanzato proposte sbagliate, come si sforza lungamente di dimostrare Enrico Tiozzo nel libro Matteotti senza aureola, di cui l’editore Aracne ha appena pubblicato il primo volume (pp. 368, e 22). Ma la questione vera è un’altra: ad eliminarlo non furono generici «delinquenti fascisti», come scrive Tiozzo, bensì sicari di partito organizzati e pagati da dirigenti vicinissimi a Benito Mussolini per aggredire chiunque ostacolasse la marcia trionfale del Duce verso il potere assoluto. Ammesso e non concesso che Matteotti fosse solo un avventato mediocre, l’atto di colpirlo va allora giudicato ancora più grave, visto che non costituiva un pericolo reale, e soprattutto rivelatore della profonda natura violenta e totalitaria del fascismo. Quindi anche solo il fatto di aver indotto le camicie nere a gettare la maschera resta un notevole merito storico che non può essere negato al coraggioso socialista di Rovigo.

Corriere La Lettura 27.12.15
Il razzismo è una ferita aperta nell’America di Obama
L’orgoglio, la paura, la vulnerabilità del «corpo nero»: a meno di un anno dalle elezioni presidenziali, si discute sui temi proposti da Ta Nehisi Coates, Margo Jefferson e Claudia Rankine
di Serana Donna


«L’arco dell’universo morale è lungo ma tende alla giustizia». L’immagine, attribuita a Martin Luther King, di un egualitarismo lento ma ineluttabile ha alimentato a lungo la speranza di riscatto degli afroamericani. L’elezione di Barack Obama è stata salutata da alcuni come il compimento di quell’arco: l’inizio di un’era «post-razziale», libera da discriminazioni e pregiudizi. A sette anni da quel giorno, mentre il lavoro del primo presidente nero si avvia alla conclusione, il bilancio è molto distante dalle speranze iniziali: il 27%, della popolazione di colore vive in povertà (la media dei bianchi è ferma al 10,8%). Gli afroamericani rischiano dieci volte più dei caucasici di essere incarcerati, e sette volte di più di essere uccisi, benché disarmati, dalla polizia.
Trayvon Martin, Oscar Grant, Michael Brown, Eric Garner, Jordan David, Renisha McBride, Tamir Rice sono alcuni dei giovani e giovanissimi afroamericani uccisi negli ultimi tre anni. «La vera sfida degli Stati Uniti — ha scritto Ta-Nehisi Coates sull’“Atlantic” — non è diventare post-razziale ma post-razzista». Il cammino è ancora lungo. Qualche giorno fa, in un’intervista alla «National Public Radio», Obama ha dichiarato: «Donald Trump mi attacca perché sono nero». La discussione è ovunque: nelle strade, al Congresso, in libreria. «Milioni di conversazioni sull’identità afroamericana si stanno svolgendo in questo momento in America», ha detto a «la Lettura» Margo Jefferson, autrice di Negroland. Insieme a Citizen della poetessa Claudia Rankine e a Between The World and Me del giornalista Ta-Nehisi Coates, il suo libro, un’autobiografia sotto forma di memoir, ha scalato le classifiche dei migliori libri dell’anno, riportando al centro del dibattito culturale il processo a un Paese che avrebbe fondato la sua idea di progresso sulla pelle degli afroamericani.
Queste opere, lontane dalla mitezza di Obama e dalla cultura della non-violenza del reverendo King, stanno contribuendo ad alzare il livello dello scontro, sottolineando le contraddizioni di una nazione colpevole, che deve riconciliare il sogno di democrazia con un passato (e un presente) di soprusi e violenze ai danni dei neri.
Between The World and Me è la lettera che Coates, 40 anni, scrive al figlio adolescente: un manuale di sopravvivenza per un giovane nero nella società contemporanea. «Io non so cosa significa crescere con un presidente nero, i social network, i media onnipresenti e le donne di colore che sfoggiano i capelli naturali — dice Coates al figlio — . Quello che so è che quando hanno liberato l’assassino di Michael Brown, tu hai detto: “Devo andare”. E quello mi ha distrutto, perché nonostante le differenze dei nostri mondi, alla tua età mi sentivo esattamente come te».
La morte violenta e ingiustificata è solo la parte più evidente del «razzismo istituzionalizzato» degli Stati Uniti. Prima degli omicidi in strada, ci sono quelle che Chester Pierce, docente di Harvard, ha definito «micro-aggressioni»: i gesti offensivi che inconsapevolmente i bianchi rivolgono ai non-bianchi. A questi episodi di razzismo quotidiano sono dedicate le poesie di Claudia Rankine, 52 anni: i camerieri che ignorano clienti neri al tavolo o in fila alla cassa, quelli che non cedono il posto in autobus, o che li guardano male se si accorgono di aver subito un furto. Il corpo nero, spiega Rankine a «la Lettura», può essere invisibile agli occhi degli altri o, al contrario, iper-visibile. A proposito della tennista Venus Williams scrive in Citizen : «Così grande, così nera, così fiera... come se non dovesse chiedere il permesso a nessuno».
In Negroland Margo Jefferson, 68 anni, ex critica letteraria del «New York Times», racconta le giovani delle élite nere di Chicago negli anni Cinquanta, non così distanti dalla tennista: «Tutti i dettagli della nostra fisicità, le nostre maniere, erano constantemente sotto osservazione. Eravamo forzate verso la perfezione», racconta Jefferson a «la Lettura».
La fragilità e la tristezza, sentimenti che hanno caratterizzato la narrativa della donna bianca nei secoli, non possono appartenere alle afro-americane: «La depressione — aggiunge Jefferson — diventò per me uno spazio privato e segreto».
Le élite nere vivevano uno strano privilegio a Negroland : «All’interno della “razza” — si legge — eravamo aristocratici, educati, facoltosi, realizzati. Per i caucasici eravamo degli intrusi, bizzarri e meno fortunati di loro».
Uno degli aspetti che accomunano i tre autori è che la definizione stessa di «neri e bianchi», l’idea di una differenza dovuta al colore della pelle, sia all’origine del problema: «La razza è il figlio del razzismo, non il padre», scrive Ta-Nehisi Coates. «La definizione delle persone non ha mai a che fare con la genealogia o con la fisiognomica — continua — ma solo con la gerarchia». In base al «colore e ai capelli» è stata organizzata una società che ha separato «quelli che credono di essere bianchi» da tutti gli altri. È la fonte della discriminazione e del pregiudizio, che dai campi di cotone arriva alle periferie delle metropoli di oggi.
«Il concetto stesso di essere bianco non è stato costruito attraverso la degustazione di vini e le feste d’estate a base di gelato — si legge in Between the World and Me —, ma con il saccheggio della vita, della libertà, del lavoro e della terra; con le fruste e con le catene, strangolando coloro i quali si ribellavano, distruggendo le famiglie, violentando le madri, vendendo i figli».
Eppure bianco ha finito con l’identificare l’idea di progresso, di successo, l’essenza stessa del sogno americano. Per questo motivo «noi non volevamo essere più bianchi di quanto non volessero loro», scrive Margo Jefferson. Dall’altra parte, tra le strade pericolose d’America, lontano dal finto privilegio delle élite afroamericane degli anni Cinquanta e dalla bugia del sogno democratico, ci sono i corpi dei giovani neri.
Claudia Rankine era a Ferguson nei giorni delle proteste seguite all’omicidio, per un furto, del diciottenne Brown. Ha raccontato a «la Lettura» come il cadavere del giovane fosse onnipresente nelle foto e nei disegni che giravano in quei giorni nelle strade del Missouri e sui social network. «I ragazzi si identificavano con Michael, sapevano che non essere lui era solo questione di fortuna», ha spiegato.
È la stessa consapevolezza che turba il sonno del «padre» Ta-Nehisi Coates: lo scrittore vede nella vulnerabilità del corpo nero la ragione del pericolo costante, l’origine della paura, quella che c’era nelle strade di Baltimora durante la sua adolescenza e permane oggi, nonostante i social network e l’apparente pace sociale. «Tu sai — scrive Coates al figlio — che non esiste una vera distanza tra te e Trayvon Martin. Proprio per questo Trayvon ti fa paura».
Se la vita di un afroamericano è un esercizio continuo di controllo del terrore, Coates trova conforto alla Howard University, uno degli storici college per neri di Washington D.C. che lo scrittore definisce la sua «Mecca». Lì incontra i suoi simili, l’orgoglio di classe e si emancipa dall’ortodossia americana della non-violenza. Scopre Malcolm X: «Non ha mai mentito, non come fa la scuola con quella facciata di moralismo, non come la strada e le barbarie che appartengono a essa, non come il mondo dei “sognatori”». La «Mecca» di Margo Jefferson è, nonostante tutto, Negroland , dove non si può fare finta di niente e dove, soprattutto, ci si può ancora sentire individui: «Non c’è nulla di più caratterizzante per un nero del dover essere sempre rappresentante di una categoria — spiega Jefferson a “la Lettura” —. Un nero non può essere un individuo, ha sempre la responsabilità di rappresentare la razza».
Coates, Rankine, Jefferson respingono questa responsabilità. Nessuno di loro vuole parlare a nome dei neri d’America, diventare l’intellettuale di riferimento dei dolori di una massa.
L’urgenza del dibattito ha trovato nella rete una vetrina connettiva e un amplificatore: «I social media e le videocamere dei telefoni capaci di riprendere la verità contribuiscono ad allargare la discussione», precisa Claudia Rankine.
Su Twitter è nato nel 2013 il movimento per la difesa degli afroamericani #BlackLivesMatter , in risposta alle violenze perpetrate dalla polizia contro i giovani di colore: si è diffuso tra l’opinione pubblica americana riempiendo le piazze e arrivando a condizionare il dibattito delle prossime elezioni presidenziali. «Non può essere una coincidenza — spiega Margo Jefferson — che questi episodi tragici e incoraggianti stiano accadendo tutti adesso».

Corriere La Lettura 27.12.15
Il versante europeo
E nella Francia del «grande ripiegamento» il pregiudizio si fa «norma accettabile»
di Stefano Montefiori


«Il razzismo si è trasformato, al punto di essere talvolta irriconoscibile. Si è diluito in una norma accettabile», denunciano gli storici Nicolas Bancel e Pascal Blanchard assieme al sociologo Ahmed Boubeker nel saggio Le Grand Repli («Il grande ripiegamento», edito da La Découverte, pp. 198, e 14,50). Una sorta di «razzismo soft», a loro giudizio, impregna il dibattito pubblico. Gli autori notano come la lotta agli eccessi del politicamente corretto abbia preso in Francia la forma della difesa del Petit Blanc, il francese bianco piccoloborghese contrapposto sia all’élite cosmopolita parigina, sia ai francesi di origine araba o africana delle banlieue. Alcuni intellettuali, come Alain Finkielkraut, Éric Zemmour o lo scomparso e rivalutato Philippe Muray, legittimano la lotta di una «Francia invisibile», autoctona e dall’identità in crisi, contro le «minoranze visibili»: «Il Petit Blanc è chiamato a difendere il suo territorio, come i popoli colonizzati difendevano il loro», si legge nel Grand Repli. Dalla frattura coloniale si è passati alla frattura identitaria, scrivono, ma sullo sfondo resta il razzismo.

Corriere La Lettura 27.12.15
Scienza e coscienza per esplorare le frontiere etiche della medicina
di Chiara Lalli


Che cosa ci serve per affrontare un disaccordo morale? Quali sono gli strumenti necessari per partecipare a una discussione? Di recente l’avanzamento medico e scientifico è stato tumultuoso. In molti casi ci ha permesso di vivere meglio, ma la discussione sui limiti è ineliminabile e troppo spesso vietare e frenare sembrano essere diventate le uniche preoccupazioni del dibattito bioetico. Spesso con motivazioni irrazionali e ingiustificabili. Il libro Etica alle frontiere della biomedicina , a cura di Giovanni Boniolo e Paolo Maugeri (edito l’anno scorso da Mondadori Università, pp. 288, e 20), offre alcuni strumenti per orientarsi. La prima condizione è sapere di cosa si discute. Sembra ovvio, ma spesso l’ostilità nasce proprio da una scarsa comprensione scientifica. Ma non basta, anche perché l’aspetto più complesso riguarda il nostro giudizio, la nostra valutazione morale di una tecnica o di una possibilità. E allora servono strumenti non solo informativi, ma politici e sociali. Servirebbe una partecipazione democratica alla deliberazione, cioè un coinvolgimento, ragionato e razionale, nelle decisioni che riguardano tutti noi, soprattutto se coercitive.
A essere importante non è tanto la posizione che sceglieremo, né tantomeno la nostra reazione emotiva, ma gli strumenti che siamo capaci di costruire a sostegno del nostro parere. Non dovrebbero essere ammessi i «secondo me è così» o i vari argomenti d’autorità (l’ha detto qualcuno perciò è vero). Le tecniche argomentative costituiscono questi strumenti, e discutere senza conoscerle sarebbe come pretendere di giocare a scacchi senza sapere come muovere i pezzi.

Corriere La Lettura 27.12.15
L’abicì della guerra di Bertolt Brecht
Quando Brecht metteva in versi le foto
di Roberto Galaverni


L’abicì della guerra di Bertolt Brecht è un libro speciale, unico nel suo genere. La constatazione appare tanto più vera se si pensa che un autentico genere Brecht si era di fatto inventato nel realizzarlo: il «fotoepigramma», come lo aveva definito riferendosi al suo particolare assemblaggio di fotografia, testo poetico e, in molti casi, didascalia in prosa. Praticamente concluso nel 1945, quando lo scrittore si trovava ancora in esilio negli Stati Uniti, verrà pubblicato nella Ddr, la Repubblica democratica tedesca, solo dieci anni più tardi, nel 1955.
Brecht lo aveva concepito come una cronistoria degli anni hitleriani e della Seconda guerra mondiale. Fin dal 1938 aveva infatti cominciato a ritagliare da giornali e riviste fotografie che avrebbe ripreso più tardi. Apparentemente legato alla cronaca più immediata, L’abicì della guerra (riproposto ora da Einaudi) è però un libro che non ha tempo. Meglio ancora: è un libro dalle radici così profonde e universali da trovarsi di casa, ahimè, in ogni tempo e luogo.
Costruito come una specie di sillabario, l’ Abicì risponde a un preciso intento pedagogico: offrire al lettore una serie di istruzioni su come leggere e interpretare le immagini fotografiche. Da questo punto di vista risulta decisiva la questione del metodo, che coincide poi con la costituzione stessa dell’opera. Brecht instaura un gioco a due, spesso a tre voci — come detto: i versi, l’immagine e la relativa, invariabilmente tendenziosa didascalia informativa — che impone al lettore una continua dislocazione dei livelli del discorso. Il fuoco della rappresentazione entra ed esce dall’immagine, entra ed esce dai versi, determinando un ambito conoscitivo in cui a importare sono le relazioni e il processo stesso della conoscenza, anziché la cosiddetta folgorazione estetica. In sostanza, si può pensare a una variante della tecnica dello straniamento resa celebre dal teatro brechtiano.
In questo caso, il lavoro della comprensione sta tutto nell’andirivieni tra immagini dal particolare impatto emotivo (anzitutto scene del teatro di guerra, con le sue distruzioni e nefandezze inevitabili), e dunque l’empatia immediata della prima visione, e il rovesciamento dell’immagine, con il conseguente distacco critico, operato dai versi (ogni volta una quartina epigrammatica, nobile dal punto di vista metrico ma discorsiva e diretta nel tono).
Attraverso questo procedimento di reazioni intrecciate, Brecht intende condurre a una demistificazione delle immagini come strumento di propaganda e oppressione, e al parallelo affioramento delle ragioni profonde, di natura socio-economica e politica, sottese e come nascoste nell’immagine stessa. C’è una fotografia che rappresenta un soldato americano preso di spalle, con una pistola in mano, mentre guarda il nemico agonizzante. «Un soldato americano in piedi presso un giapponese morente che è stato costretto a uccidere», recita la didascalia della foto. E i versi di Brecht a chiudere (in realtà ad aprire) la triangolazione: «Di sangue una spiaggia doveva tingersi/ che non era né dell’uno né dell’altro./ Erano, si dice, costretti a uccidersi./ Lo credo, lo credo. Ma domando: da chi?».
Il riferimento al contesto extra-artistico, a ciò che sta fuori dall’immagine ma che pure la fonda, diventa decisivo. Si crea così un particolare rovesciamento delle prospettive, secondo cui il pur gigantesco scenario della guerra, considerato qui in tutta la sua estensione, appare comunque parte circoscritta di una scena e di parametri di giudizio più ampi, sia nel tempo sia nello spazio.
La vis ironica e sintetica, il talento inventivo, la capacità di mettere in contraddizione piani diversi della realtà tipici dell’opera brechtiana, appaiono qui ridotti alla nudità dello schema, come se si trovassero allo stato puro. La spregiudicatezza nell’impiego strumentale dell’invenzione artistica, come se davvero si trattasse di maneggiare un utensile, e insieme la naturalezza, la semplicità, la familiarità del gesto, non possono che sorprendere una volta di più. Del resto, proprio nella tensione tra l’ardimento tecnico e metodologico da una parte, e l’essenzialità, il carattere elementare delle opposizioni e dei valori dall’altra, va trovato uno dei punti di forza del libro.
Il nuovo orientamento ideologico è sempre riportabile a opposizioni basiche che sono anche grandi simboli e metafore della tradizione occidentale: bene-male, alto-basso, bianco-nero, sonno-veglia, maschile-femminile. Non sempre accade (ad esempio nei fotoepigrammi sull’Unione sovietica) ma quando l’ideologia si congiunge con la percezione del tempo lungo della natura, con la pietà, con la gentilezza, con l’umanità, il sillabario brechtiano sulla guerra ha davvero molto da insegnare. E ci riesce.

Corriere La Lettura 27.12.15
Adolf Hitler Import & Export La Spagna di Franco era un affare
Per Mussolini l’appoggio ai falangisti era una questione ideologica, il nazismo non sottovalutava le opportunità commerciali (secondo il modello dell’impero britannico)
Il suo stratega era l’economista Hjalmar Schacht


Nell’interpretazione più diffusa della guerra civile spagnola, gli interventi della Germania e dell’Italia furono anzitutto ideologici. Nell’anno in cui due democrazie europee, Francia e Spagna, stavano sperimentando governi di Fronte popolare, le due dittature «fasciste» decisero di schierarsi a fianco dei militari che stavano cercando di rovesciare il sistema politico della seconda. Più concretamente la Germania avrebbe colto l’occasione per una sorta di prova generale della guerra che fu scatenata tre anni dopo, mentre l’Italia avrebbe esteso la sua area d’influenza alle coste del Mediterraneo occidentale.
Per Hitler, in particolare, si trattò di una decisione improvvisa, presa a Bayreuth mentre risuonavano le note eroiche di un’opera di Wagner. Ma nel Paese in cui i poteri, dopo la legge del 24 marzo 1933, erano ormai concentrati nelle mani di una sola persona, qualcuno vide nella guerra la possibilità di creare un impero economico tedesco. L’autore di questo disegno era Hjalmar Schacht, riformatore della finanza tedesca durante la colossale inflazione della Repubblica di Weimar, governatore della Banca centrale, indispensabile strumento di Hitler quando aveva piegato il bilancio dello Stato alle esigenze del gigantesco riarmo dopo la rimilitarizzazione della Ruhr.
Paradossalmente Schacht, nonostante i suoi gesti di formale devozione al Führer, non era intimamente nazista. Aveva la formazione di un imperialista degli inizi del XX secolo. Il suo M ein Kampf non fu mai la creazione di uno spazio vitale tedesco all’Est, svuotato delle sue popolazioni originarie e riempito di contadini tedeschi. La sua personale battaglia era la creazione di uno spazio economico che la Germania avrebbe governato con i metodi usati dalla Gran Bretagna per lo sfruttamento dell’India e delle sue colonie. Sperò per qualche tempo che il Reich, grazie a Hitler, avrebbe riconquistato i possedimenti coloniali perduti a Versailles nel 1919. Ma quando si accorse che la Gran Bretagna, anche nei momenti in cui era più disponibile e conciliante, non lo avrebbe permesso, mise le sue energie e il suo genio economico al servizio di un disegno spagnolo.
La storia di questo tentativo è raccontata da uno storico argentino, Pierpaolo Barbieri, in un libro, L’impero ombra di Hitler , pubblicato ora da Mondadori. La Spagna, soprattutto dopo la perdita di Cuba e delle Filippine nella guerra ispano-americana del 1898, aveva un’economia zoppicante e mediocre, un parco industriale modesto e molte regioni arretrate. Ma aveva due ricchezze naturali: un tesoro sotterraneo (ferro, rocce metallifere di alta qualità, pirite, altri minerali) e un’agricoltura promettente.
La guerra civile apriva prospettive interessanti. Le formazioni militari di Franco avevano bisogno di armi e denaro. La Germania, come l’Italia, avrebbe riempito i loro arsenali e i loro forzieri, ma avrebbe preteso e ottenuto alcuni privilegi economici. Una società statale costituita a Berlino (la Rowak) avrebbe coordinato le esportazioni tedesche verso la Spagna e avrebbe aiutato le aziende del Reich a installarsi nelle zone occupate dai franchisti. Una società spagnola, ma diretta da un «proconsole» tedesco (la Hisma), avrebbe operato dal Marocco e svolto opera di intermediazione. In breve tempo i tedeschi riuscirono a monopolizzare una larga parte del commercio estero spagnolo.
I tedeschi furono meno fortunati quando cercarono di orientare la politica estera della Spagna. Nel 1938, mentre il Reich annetteva l’Austria e minacciava l’integrità della Repubblica cecoslovacca, Franco, frettolosamente, proclamava la neutralità del nascente Stato nazionalista. Più tardi, dopo l’occupazione tedesca di una larga parte dell’Europa occidentale, Hitler incontrò il caudillo a Hendaye, sulla frontiera franco-spagnola, nell’ottobre del 1940 e gli promise Gibilterra se la Spagna si fosse unita al fronte antibritannico. Ma si scontrò con un uomo sfuggente, che non intendeva pregiudicare, partecipando a una guerra europea, il risultato della guerra civile. Quando incontrò Mussolini a Firenze, qualche giorno dopo, il Führer gli disse «che avrebbe preferito farsi cavare un dente piuttosto che conversare un’altra volta con Franco».
Il dittatore spagnolo fu attratto dalla guerra contro il comunismo sovietico che Hitler aveva scatenato con l’operazione Barbarossa, ma si limitò all’invio di un corpo militare, la Divisione Azzurra, composta da 45 mila uomini. Su un altro fronte, quello del pagamento dei debiti contratti con la Germania durante la guerra civile, la Spagna fece una battaglia di contenimento e logoramento da cui uscì, grazie alla sconfitta del Terzo Reich, vincitrice.
Il sogno di Schacht, nel frattempo, era ormai fallito. Alla prospettiva di un impero ombra economico, di cui la Spagna sarebbe stata il primo satellite, Hitler aveva anteposto la creazione di un impero formale nel grande «spazio vitale» dell’Europa centro-orientale.
Il lettore si chiederà a questo punto quali vantaggi economici l’Italia di Mussolini abbia tratto dalla guerra di Spagna. A questa domanda Barbieri risponde anzitutto che il contributo italiano, sul piano militare, fu quantitativamente molto superiore a quello tedesco: 70 mila «volontari» (contro i 12 mila della Legione Condor tedesca), 600 aerei, un migliaio di pezzi d’artiglieria. A differenza della Germania, l’Italia non volle, o non poté, fare acquisizioni e sfruttare le risorse naturali spagnole. Qualche tentativo in questa direzione venne fatto da Filippo Anfuso, capo di gabinetto di Galeazzo Ciano, e da Felice Guarneri, ministro per gli Scambi e le Valute, ma con risultati modesti. In Spagna Mussolini voleva difendere il fascismo e «forgiare» il carattere militare della «stirpe» italiana. Quando vennero fatti i conti, alla fine del conflitto, fu calcolato che l’intervento italiano in Spagna era costato oltre 8 miliardi di lire, «una cifra pari, secondo le stime, al 6-8% del prodotto interno lordo dell’economia nazionale».
Dopo essersi sottratta alla Seconda guerra mondiale e al pagamento dei debiti contratti con la Germania e con l’Italia, la Spagna di Franco aveva un conto aperto con la democrazia e fu per qualche tempo sul banco degli imputati. Esclusa dalle Nazioni Unite, denunciata dall’antifascismo europeo, messa alla gogna dal «profondo disgusto» di Roosevelt per il suo regime, Madrid sembrò precipitare nel girone dei dannati. Ma il Caudillo era un uomo fortunato e la scomunica durò meno di otto anni. All’inizio degli anni Cinquanta, quando giunse alla conclusione che il comunismo fosse più minaccioso di quello che Barbieri giustamente definisce l’«anacronistico fascismo», il mondo libero cominciò a cambiare idea. Nel 1953, durante la presidenza Eisenhower gli americani, dopo un accordo con Madrid, sbarcarono in Spagna per prendere possesso della loro prima base militare.

Corriere La Lettura 27.12.15
Ho portato fra gli dèi la rabbia adolescente
Ha frequentato le saghe norrene fin da bambina, amandole al punto da imparare l’islandese antico
Ora la scrittrice che ha interpretato con il linguaggio di oggi in un romanzo la leggendaria figura del ribelle spiega a «la Lettura» le ragioni della sua scelta
La parlantina ironica di Loki, l’intelligenza e persino l’ambiguità sessuale: dentro la mitologia nordica ci siamo noi
di Joanne Harris


Da bambina ero una purista della mitologia. Ho iniziato con le rivisitazioni di H. A. Guerber e Robert Graves. Ho letto Snorri Sturluson e Saxo Grammaticus; non mi lasciavo sfuggire nessuna traduzione delle Edda e morivo dalla voglia di leggerle in lingua originale. Alla fine, ho imparato da sola l’islandese antico e l’ho fatto. Il mio interesse per la mitologia norrena risale a oltre quarant’anni fa, e la passione per quelle storie mi ha seguita tutta la vita.
In questo non sono l’unica: da Wagner ai fumetti della Marvel, attraverso Tolkien, Tennyson e Arthur Rackham, questi miti sono stati formulati e raccontati molte volte, e ogni volta in maniera diversa. Il diciassettesimo secolo li ha rappresentati come una storia di esplorazione. I vittoriani gli hanno ridato forma per farli coincidere con il loro sogno imperiale. E il ventunesimo secolo li ha nuovamente abbracciati — in particolare uno di loro, Loki, il Burlone di Asgard, il cui personaggio, che sia lo scaltro macchinatore degli American Gods di Neil Gaiman o il tormentato antieroe della Marvel, si addice in maniera straordinaria alla nostra epoca.
Fra tutti gli dèi di Asgard, Loki è il sovversivo, l’estraneo sociale e razziale, un personaggio di genere mutevole in un mondo decisamente binario. Sembra dunque giusto che Loki sovverta la tradizionale epica della prosa, come sovverte qualsiasi altra cosa. In un gesto di sfida — uno dei tanti — contro l’autorità, la convenzione, perfino le stesse regole della narrazione.
Il Loki delle Edda è un personaggio mercuriale. Poco si sa delle sue origini o delle ragioni per cui Odino gli diventa amico. Viene descritto come bello, intelligente, dalla parlantina sciolta e inaffidabile — spesso, in realtà, «effemminato» (parola che è una condanna), e nel complesso impopolare ad Asgard, e trattato con sospetto — tranne, naturalmente, quando gli dèi si trovano ad aver bisogno delle sue doti speciali.
Nei miti antichi, appare come la classica figura del Burlone, che agisce più per monelleria che per cattiveria, ma alla fine è diventato una presenza sinistra, vendicativa, malevola e autodistruttiva. Perché avviene un tale cambiamento? Nessuno lo sa. I miti (e le successive interpretazioni) suggeriscono che essere malvagio è semplicemente nella natura di Loki. Ma dal dodicesimo secolo in poi, le storie e i narratori sono evoluti. Adesso siamo meno interessati alle facili divisioni come bene contro male. Abbiamo iniziato ad apprezzare una certa ambivalenza morale nei nostri eroi. E anche in questo Loki appare come un moderno antieroe, escluso, pieno di rancore e diffidente nei confronti dell’autorità. È anche un personaggio da commedia, colui che aizza gli dèi uno contro l’altro, che combina scherzi insolenti e sconfigge il nemico soltanto con la sua mente brillante e la lingua tagliente. Il linguaggio è il suo miglior amico e la sua arma più affilata — di nuovo, un’idea moderna — ed ecco perché ho scelto di scrivere la mia versione della storia di Loki nella lingua del presente; di sfidare gli stereotipi «epici» creati da artisti e studiosi. Il titolo originale del romanzo, The Gospel of Loki (Il Vangelo di Loki, da poche settimane nelle librerie italiane con il titolo Il canto del ribelle ), è volutamente ironico: Loki, il bugiardo, vi dice lui stesso di non aspettarvi che si racconti la verità. Sin dal principio, la sua storia è concepita per ridicolizzare le figure retoriche della scrittura epica. La sua voce si sente di rado nei miti, eccetto nella Lokasenna , cioè gli «Insulti di Loki», il duello verbale in cui Loki, malizioso, crudele e esilarante, insulta gli dèi uno alla volta, e ne smaschera le debolezze. Questa è la vera voce di Loki: rude, irriverente, giovanile e colorita di odio per se stesso e di disprezzo. Qui non c’è linguaggio eroico, soltanto la voce della gente comune. E quella voce non è cambiata granché nel corso dei secoli. Abbiamo ancora le stesse preoccupazioni fondamentali. Guardiamo i cieli con ansia. Non temiamo che demoni-lupi inghiottano il sole e la luna ma siamo consapevoli dell’inquinamento, dello smog e del buco nell’ozono. I mostri che vediamo distruggere il mondo non sono giganti di ghiaccio ma gigantesche multinazionali.
E in questo mondo che muta, Loki, più di tutti gli dèi, si è adattato per intonarsi ai tempi, e sopravvive per raccontare la propria storia, con parole sue, dal principio dei Mondi fino a Ragnarök. Che sia sopravvissuto alla sua stessa morte non è forse così sorprendente. Le caratteristiche che lo hanno reso un outsider — il sentimento di estraniazione, la rivolta contro l’autorità, il rifiuto di conformarsi, la scelta dell’intelligenza rispetto alla forza bruta, l’ambiguità sessuale e il senso dell’umorismo quasi esistenziale — tutte queste cose lo rendono, se mai, più a suo agio nel XXI secolo che nel XII.
Loki pone continuamente domande. Chi sono? Perché sono qui? Che cosa succede se infrango le regole? E poi, che importa? Per l’Islanda cristianizzata del dodicesimo secolo di Snorri Sturluson, dev’essere stato il massimo della sovversione. Non soltanto Loki infrange le regole, ma ne mette in discussione l’esistenza stessa. In un mondo che fa il possibile per realizzare l’ordine, lui è l’incarnazione del caos, un demone che può rivaleggiare con Lucifero, il simbolo di tutto ciò che il cristianesimo antico si sforzava di vincere e reprimere.
Ma adesso, in un mondo in cui la religione ha fallito nel portare l’effetto civilizzatore che prometteva, la popolarità di Loki è accresciuta. Non è più la voce dell’outsider solitario, ma il portavoce della condizione umana. Per questo ho scelto di dargli uno stile tanto moderno — non il linguaggio della poesia epica ma quello della protesta adolescenziale — ed è per questo che la storia della sua ascesa e caduta rimane così rilevante per il nostro mondo di oggi, non perché sia vera (in fondo Loki è il Padre delle Bugie) ma perché le storie che ci raccontiamo su noi stessi — storie che un tempo erano una fede — ci rivelano più su di noi e sul nostro mondo di quanto amiamo credere.
(traduzione di Laura Grandi)

Corriere La Lettura 27.12.15
Il nemico di Odino astuto e un po’ codardo che partorì un cavallo
Ritratto dell’antico ingannatore di bell’aspetto legato per punizione alle rocce come il Prometeo dei Greci
di Alessandro Zironi


Oramai alle soglie della fine del periodo aureo della cultura islandese, nel XIII secolo, un erudito dell’isola dei ghiacci, Snorri Sturluson, pensa che sia giunto il tempo di salvare la memoria del passato pagano. Scrive un’opera, Edda , per gli studiosi Edda in prosa . È una sorta di manuale per decodificare metri poetici, ma anche un’esemplificazione di miti e metafore che fanno riferimento a un patrimonio culturale la cui conoscenza, alla metà del secolo XIII, stava tramontando. Per noi, lettori del XXI secolo, l’ Edda di Snorri è diventata la guida per poter decifrare una cultura immensa, sepolta dal tempo.
Qui troviamo raccolti i racconti mitologici con protagoniste le divinità nordiche, fra cui Loki. Ad esempio, Hár, nome con cui si cela Odino, spiega al suo interlocutore chi è Loki: un dio che infama, ordisce inganni, vergogna di dèi e uomini; forte, bello, ma di carattere malvagio, incostante, astuto e ingannatore; mette in difficoltà gli altri dèi, però sa anche trarli d’impiccio. Certo, diremmo noi, un ritratto non proprio lusinghiero, ma allo stesso tempo ambivalente: di bell’aspetto e vigoroso, ma parimenti perfido e con un’arguzia votata al male. Loki è un dio difficilmente imprigionabile in un mondo in cui gli esseri divini hanno solitamente precise e nette caratteristiche. Già a partire dal suo nome, di etimologia incerta: forse rinvia all’antico nordico log , «fiamma», oppure potrebbe essere una variante di Loptr/Loftr, nome con cui viene anche nominato. Loptr è legato a lopt , «aria», oppure Loki rimanda alla forma svedese medievale locke , «ragno».
Tutte queste proposte hanno in sé un po’ di verità, ma nessuna permette di ingabbiare il dio. Forse a maggiore aiuto giungono le kenningar , forme metaforiche proprie della poesia medievale antico nordica, in cui due nomi, appartenenti a campi semantici differenti, sono uniti per offrirne un altro quale soluzione. Ad esempio Loki è la soluzione della kenning «padre della cinghia dell’oceano», ovvero padre di Miðgarðsormr, alla lettera «il serpente della terra di mezzo», il terribile rettile che giace negli abissi abbracciando con le sue spire tutta la Terra. Loki è detto anche il «padre del lupo», cioè del mostruoso lupo Fenrir, che alla fine dei tempi ingoierà Odino; o ancora «il fardello delle braccia di Sigyn» ovverosia «marito di Sigyn», una liaison che è stata molto rappresentata anche nella pittura ottocentesca e ha offerto spunto a numerose riscritture contemporanee, specie fumetti e manga.
Proprio il rapporto fra Loki e Sigyn permette di decifrare con maggior facilità alcuni aspetti del dio. Loki viene legato a tre massi di pietra con le viscere dei suoi due figli generati con la moglie: sopra di lui viene posto un serpente che gocciola veleno sul suo capo; la moglie Sigyn regge un catino per raccogliere il siero letale, ma quando il bacile è colmo ed ella si allontana per svuotarlo, gocce di veleno cadono sul volto di Loki e questi si scuote provocando terremoti. Questa la pena di Loki sino ai Ragnarök, «destini degli dèi», cioè la fine dei tempi.
Quello di Loki prigioniero è uno dei miti più recenti riferiti al dio che, al pari di altre narrazioni mitologiche nordiche, è forse influenzato dalla cultura classica (vedi il mito di Prometeo) e, ancor più, dal cristianesimo. Il dio legato non è episodio conosciuto al paganesimo germanico, ma deriva probabilmente da racconti cristiani in cui l’Anticristo è incatenato negli inferi, ove spezzerà le sue catene ai tempi del Giudizio Universale. Anche la motivazione della pena rispecchia vicende legate alla vita di Cristo: il dio Baldr, figlio di Odino, viene fatto uccidere da Loki (da qui discende la sua punizione eterna), mentre Baldr tornerà dal regno dei morti a reggere il mondo nuovo, sorto dopo i Ragnarök.
Il nostro Loki è pertanto un dio perfido, ingannatore, in continuo contrasto con gli altri dèi, verso i quali usa parole di scherno nel componimento poetico che porta il suo nome, la Lokasenna «l’invettiva di Loki», in cui ingiuria tutte le divinità, ma è a sua volta accusato da Odino di bisessualità avendo partorito figli. Tutti ricorderanno che anche Zeus genera Atena, ma Loki si spinge oltre, mettendo al mondo streghe, restando gravido dopo aver mangiato il cuore di una donna maligna; partorisce anche il cavallo a otto zampe, Sleipnir, che sarà poi di Odino, dopo essersi trasformato in giumenta e aver attratto uno stallone nei boschi. Con la gigantessa Angrboða darà alla luce il lupo Fenrir, il serpente cosmico Midgarðsorm e la dea Hel, custode del regno dei morti.
La doppia sessualità del dio rispecchia una ritualità religiosa pagana germanica piuttosto arcaica, già ricordata nel I secolo d. C. da Tacito nell’opera Germania , ove cita sacerdoti in abiti femminili. Nel mondo nordico tale pratica prende forma nel seiðr , rito dapprima religioso, poi magico-stregonesco, in cui uomini si cimentano in pose sessuali spiccatamente femminili. Da attività rituale (si dice che Odino stesso abbia praticato tali costumi) l’inversione sessuale e l’omosessualità divengono oggetto di repulsione in una società sempre più cristiana e perciò sono connesse a Loki, il dio malvagio.
Loki appartiene al Pantheon nordico sin da tempi remoti; radici profonde, in correlazione anche coi suoi natali: è figlio di un gigante, di una stirpe ctonia e malvagia, con cui egli si allea alla fine dei tempi partecipando allo scontro insieme ai giganti e a tutti gli esseri demoniaci contro gli dei. Morirà, Loki, nello scontro finale, nella lotta con il dio Heimdallr, il guardiano dell’ordine cosmico. Denuncia la sua presenza antica l’appartenenza a una triade divina che novera Odino e Hoenir: ce ne resta traccia nel Haustlöng , uno dei poemi più antichi che fanno riferimento al dio, composto dal poeta Þjóðólf di Hvín, forse addirittura del IX secolo. Si tratta di un tipo di componimenti tipici dell’epoca, ovverosia la descrizione di scene riportate sbalzate su uno scudo. In una di queste Loki, insieme agli atri due dei, trafigge con un palo un gigante trasformatosi in aquila. Rimasto attaccato al palo, Loki, atterrito, è trascinato in volo. È il primo di tanti esempi in cui egli è in preda alla paura. Le testimonianze più tarde lo vedranno infatti protagonista di scene e avventure buffonesche; al medesimo tempo è il primo esempio di Loki in associazione con mutazioni in animali di cui egli stesso farà gran uso (in giumenta, come detto, ma anche in pulce, mosca, falco, salmone ecc.).
Loki appartiene a più mondi, quello dei giganti, degli dèi, degli animali; reca danno, ma allo stesso tempo aiuta le divinità; possiede un’astuzia votata per lo più al male, ma allo stesso tempo è codardo. Sono tutti aspetti necessari all’ordine cosmico, in cui il bene non può sussistere senza il male. Loki è perciò un dio essenziale della mitologia nordica: anche se non è mai stato venerato e non ci sono luoghi che ricordino il suo nome, ha sempre goduto di grande fortuna, sia nei miti medievali che nelle riletture contemporanee.

Il Sole Domenica 27.12.15
Fermi a Firenze
Per capire la grandezza del fisico italiano bisogna soffermarsi sul lavoro svolto ad Arcetri esattamente 90 anni fa, prima di Roma e di Chicago
di Massimo Inguscio


Professore incaricato presso l’Università di Firenze: questo il ruolo che Enrico Fermi, allora giovane scienziato, ha rivestito dal gennaio 1925 all’autunno 1926. In quel periodo ha segnato con la sua creatività ad ampio spettro, teorica e sperimentale, un affascinante sviluppo scientifico e tecnologico sempre crescente. Novant’anni fa viveva e lavorava sul colle di Arcetri, dove Galileo aveva passato gli ultimi anni della sua vita. Lì aveva ritrovato l’amico e collega di studi pisani Franco Rasetti che avrebbe poi parlato di una «incursione di Fermi nel campo dell’esperimento». Si trattava dell’invenzione nel laboratorio di Arcetri di una «metodica sconosciuta» per lo studio degli atomi con metodi di radiofrequenze «che saranno poi ampiamente utilizzati». Lo sviluppo di questi metodi consente oggi di misurare campi magnetici debolissimi e mira a rivelare quelli prodotti dall’attività cerebrale. Ma il lavoro più importante del periodo fiorentino è quello sulla statistica quantistica di un gas di atomi, uno dei contributi più rappresentativi all’evoluzione della fisica teorica. Grazie al lavoro di Fermi riusciamo a comprendere il comportamento dei vari costituenti della materia, elettroni, protoni, neutroni, quarks... Non è un caso che questi mattoni fondamentali dell’Universo appartengano alla grande “famiglia dei fermioni”. In Enrico Fermi nel ricordo di allievi ed amici Bruno Pontecorvo scriveva che il lavoro scaturito «nella tranquilla atmosfera dell’Istituto di fisica» offriva una chiave di comprensione dei comportamenti all’apparenza più disparati, come quello degli elettroni nei metalli o delle stelle di neutroni. Oggi quella statistica, comunicata il 7 febbraio 1926 con una nota all’Accademia dei Lincei presentata dal socio Antonio Garbasso, allora professore di fisica sperimentale e sindaco di Firenze, assume un ruolo fondamentale in svariati campi, dai solidi ai superfluidi, agli atomi, alla fisica nucleare, alle particelle elementari, all’astrofisica. Il lavoro più completo scritto da Fermi in tedesco Zur Quantelung des idealen einatomigen Gases - Von E.Fermi in Florenz - sarebbe stato inviato il 24 marzo del 1926 alla rivista «Zeitschrift für Physik». Successivamente P.A.M. Dirac in una comunicazione alla Royal Society sarebbe arrivato alle stesse conclusioni per via indipendente e per questa ragione la statistica quantistica che descrive il comportamento dei fermioni è detta di Fermi-Dirac. Erano momenti in cui la meccanica quantistica stimolava un dibattito serrato, solo l’anno prima la statistica di Bose-Einstein aveva spiegato il comportamento dei bosoni, l’altra “famiglia” di cui ad esempio fanno parte i fotoni, particelle di luce. L’impatto dell’incipit venuto dalla collina di Arcetri continua ad essere tale che la stessa Accademia dei Lincei programma di organizzare nel 2016 un convegno internazionale che coprirà più di una frontiera della fisica contemporanea legata al lavoro svolto da Fermi 90 anni fa.
Torniamo a Firenze nella basilica di Santa Croce. Non lontano dalla tomba di Galileo, una targa ricorda come lo scienziato «offrì al mondo nuove forze ed energie» con l’aggiunta del dantesco «... ma misi me per l’alto mare aperto...». Questo sembra voler suggerire un senso di pericolo della scienza nonché attribuire l’immagine di Fermi quasi esclusivamente alla fisica nucleare. Tuttavia il periodo fiorentino di Fermi ha anche segnato la partenza del rivoluzionario progresso tecnologico che ha portato alla produzione di energia fotovoltaica, tema oggi centrale nel dibattito per un mondo sostenibile. Quello che viene chiamato «livello di Fermi», frutto del lavoro del 1926, è fondamentale per capire i meccanismi microscopici che fanno funzionare i transistors, che portano all’emissione di luce dagli efficientissimi Light emitting diodes (Led) e che sono anche alla base dell’efficienza delle celle fotovoltaiche. Gli ultimi sviluppi si estendono alla chimica e riguardano dispositivi flessibili e trasparenti basati su materiali organici.
Facciamo un passo indietro, al momento della scoperta, per ricordare come il subconscio possa giocare un ruolo cruciale nella creatività scientifica: ne parla Laura Fermi nel suo Atomi in famiglia. Da tempo Fermi cercava di descrivere il comportamento statistico di un gas di atomi a bassissime temperature prossime allo zero assoluto. Non era lontano dalla soluzione, ma era come se gli mancasse un tassello. Ad Arcetri, insieme a Rasetti, passava ore disteso sull’erba con in mano lunghi tubi di vetro forniti all’estremità di lacci per catturare gechi, pare da usare per spaventare le ragazze nella sala mensa. Il vagare libero della mente “distratta” in attesa della cattura delle lucertole aveva acceso in Fermi la scintilla: egli aveva capito come associare il suo problema di fisica statistica al principio di esclusione che Wolfgang Pauli aveva appena introdotto per spiegare il comportamento degli elettroni. Pertanto Laura Fermi osserva come i problemi scientifici raramente si sviluppino isolati e che spesso le soluzioni sono interconnesse. La nota di Fermi ai Lincei recita testualmente Sulla quantizzazione del gas perfetto monoatomico, gas che l’immaginazione scientifica “intrappola” in una buca a forma di parabola e raffredda quasi allo zero assoluto, dove atomi indistinguibili perdono identità e degenerano in un mare comune. Ci sarebbero voluti più di settant’anni perché i fisici sperimentali riuscissero a produrre quelle temperature bassissime. Per farlo sono stati utilizzati anche i metodi a radiofrequenza introdotti dal Fermi sperimentale e si sono osservati direttamente con atomi, intrappolati in speciali buche a forma di parabola, la degenerazione quantistica. Una delle prime realizzazioni del «mare di Fermi» atomico è avvenuta proprio nel laboratorio Lens sulla collina di Arcetri, ma questa è una storia diversa.

Il Sole Domenica 27.12.15
Riforme
Ragionando sulla buona scuola
di Sergio Luzzatto


Se per un punto Martin perse la cappa, Matteo rischia di perderla per una lettera. Lo scamiciato presidente del Consiglio che con lavagna e gessetti ci ha illustrato, il 13 maggio scorso, tutti i meriti della «buona scuola», rischia di perdere la sua scommessa («non chiamiamola riforma, che non ne possiamo più!» ha raccomandato Renzi nel video) per avere confuso una d con una n: per avere trattato quale crisi dell’educazione quella che costituisce – in realtà – una crisi nell’educazione. Una crisi, cioè, che non riflette problemi squisitamente pedagogici, e meno ancora problemi meramente amministrativi. Una crisi che riflette, piuttosto, problemi culturali. Anzi, più fondamentalmente ancora, problemi epistemologici, ideologici, sociali.
È quanto ritengono gli autori di due volumetti usciti da poco, dove senza eccesso di tecnicismi (ed è già un merito) si affronta la questione educativa nell’Italia di oggi. Per Adolfo Scotto di Luzio come per Walter Tocci, la «buona scuola» di Matteo Renzi minaccia di rimanere un’operazione di superficie. Poco più che un intervento di restyling, a fronte di problemi che richiederebbero ben altro impegno organizzativo e finanziario. Ma soprattutto ben altro impegno – si avrebbe voglia di dire, con un sintagma oggi terribilmente fuori moda – etico-politico.
Pamphlettistico fin dal titolo, Senza educazione, il libro di Scotto di Luzio ha ambizioni contenute. Dedicato a I rischi della scuola 2.0 (così il sottotitolo), vuole rispondere alla domanda «Le nuove tecnologie fanno bene alla scuola?», e risponde che non fanno bene per nulla. Lo sforzo di attrezzare le scuole italiane con computer, tablet e lavagne digitali sottrae all’erario risorse economiche ed energie manageriali che andrebbero impiegate più utilmente – secondo Scotto di Luzio – nella formazione degli insegnanti e nel potenziamento della didattica. Senza dire che il ricorso alle nuove tecnologie rischia di accentuare le diseguaglianze sociali. Perché avvantaggia chi già possiede beni intellettuali, mentre penalizza chi non li possiede.
Il libro di Tocci riesce altrimenti ambizioso, fin da un titolo alla Mandeville: La scuola, le api e le formiche. Senza rinunciare al tono vibrante del pamphlet, il libro muove da un confronto consapevole e insistito con la questione di una riforma della scuola nell’Italia del XXI secolo. Ex vicesindaco di Roma, Tocci è attualmente senatore del Partito democratico e membro della commissione Istruzione. La «buona scuola», lui l’ha vista crescere nel grembo del governo Renzi prima che fosse pubblicamente partorita alla lavagnetta nel video di palazzo Chigi. E la «buona scuola» Tocci ha cercato – con il lavoro parlamentare – di rendere migliore.
D’altronde, Tocci riconosce al presidente del Consiglio il merito personale di un’attenzione per la scuola (e di una «competenza specifica», e di una «sincera passione») che non hanno uguali nella storia dell’Italia repubblicana. Così pure, Tocci riconosce alla legge sulla «buona scuola» il merito politico di avere voluto aumentare – rafforzando le autonomie scolastiche – la quantità e la qualità dell’offerta formativa. Ancora, Tocci riconosce alla «buona scuola» il merito di investire, almeno in prospettiva, sulla formazione degli insegnanti. E il merito di voler ribaltare il vecchio ordine delle cose tra il reclutamento di un insegnante e la sua formazione: facendo della vittoria di un posto a concorso la tappa che precede, anziché seguire, il relativo percorso di professionalizzazione.
Ma al di là di questi pregi, Tocci vede soprattutto difetti. A cominciare da un’«evidente aridità culturale» (incredibilmente prolissa, la legge sulla «buona scuola» rimastica in salsa british parole, formule, concetti, che zavorrano da trent’anni il burocratese ministeriale), per continuare con l’indulgenza verso tre peccati capitali che il senatore del Pd enumera e definisce così: gli «equivoci dell’autonomia», gli «inganni del mercato», i «malintesi del merito».
Ciascuno di tali peccati andrebbe discusso nel dettaglio, mentre qui bisogna contentarsi di riassumerli. Secondo Tocci, sono equivoci dell’autonomia – ad esempio – quelli per cui la nuova didattica sarà ristretta, nell’Italia della «buona scuola», agli insegnamenti opzionali gestiti dai singoli istituti: come se davvero questo potesse bastare per corrispondere alla «transizione cognitiva» in atto nel nostro tempo. Sono inganni del mercato quelli per cui si vuole affidare il futuro della scuola italiana (come già il presente dell’università) a un sistema di ripartizione dei fondi basato sul principio del bonus-malus: sistema che non può funzionare altrimenti che penalizzando il Sud a beneficio del Nord, dunque allargando il divario tra un’Italia concorrenziale e un’Italia non competitiva. Sono malintesi del merito quelli per cui religiosamente ci si inchina al dogma di una valutazione iperformalizzata e indiscriminata, che prescinde dalle coordinate del contesto territoriale e dalla saggezza delle valutazioni informali.
A tutto questo si aggiungono – nella critica di Tocci – i peccati di omissione della «buona scuola». Nel senso che la riforma (o comunque Renzi preferisca chiamarla) nulla contiene che aspiri a risolvere i limiti maggiori, strutturali, della scuola italiana. Quelli di cui Tocci stila impietosamente l’elenco, e che esamina poi uno per uno: «le diseguaglianze legate allo status familiare, al tipo di scuola e al contesto territoriale, soprattutto nel Mezzogiorno; l’inadeguatezza della didattica rispetto ai caratteri del mondo nuovo; la struttura dei cicli vecchia e ridondante, che costringe i giovani a rimanere a scuola un anno in più, perdendo in molti casi, lungo il percorso fino alle superiori, i buoni risultati raggiunti nelle elementari; le sfide e le opportunità dell’accoglienza dei migranti nella scuola multietnica; la regressione degli apprendimenti negli adulti che colloca l’Italia negli ultimi posti [Ocse]» (altro che «superpotenza culturale», come Renzi disse alla lavagnetta...).
In effetti, è difficile trovare nella «buona scuola» anche il più piccolo ingrediente correttivo di tali limiti strutturali. D’altra parte, la ricetta appassionatamente suggerita da Walter Tocci per riportare la scuola – intesa nella materialità stessa dell’edificio scolastico, eppure nella permeabilità dei suoi spazi e dei suoi confini – al centro del villaggio, del quartiere, della città, dell’agorà, sembra contenere, in questa nostra modernità che abbiamo ormai il vezzo di definire come liquida, non poco di socialisticamente utopistico.
Adolfo Scotto di Luzio, Senza educazione. I rischi della scuola 2.0,
il Mulino, Bologna, pagg. 136, € 12,00
Walter Tocci, La scuola, le api e le formiche. Come salvare l’educazione dalle ossessioni normative, Donzelli, Roma, pagg. 190, € 19,50

Il Sole Domenica 27.12.15
Savonarola e il falò delle (proprie) vanità
di Armando Massarenti


«Il carnovale seguente, che era costume della città far sopra le piazze alcuni capannucci di stipa e altre legne, e la sera del martedì per antico costume arderle queste con balli amorosi (…) si condusse a quel luogo tante pitture e sculture ignude molte di mano di Maestri eccellenti, e parimente libri, liuti e canzonieri che fu danno grandissimo». Con parole che esprimono addolorato sbigottimento, Giorgio Vasari riferisce la trista cronaca del Falò delle vanità, voluto dal frate domenicano Girolamo Savonarola il 7 febbraio del 1497 a Firenze. L’intento del rogo era quello di indurre il popolo al pentimento e alla penitenza, colpendolo in quello che aveva di più caro, quell’arte e quella bellezza che in epoca rinascimentale abbracciano il moderno laicismo affrancandosi dalla cultura medievale. Furono bruciati dipinti, a quanto pare anche di Botticelli, libri di poesia profana, strumenti musicali tra i quali liuti. Dopo la caduta del governo di Piero de’ Medici, dal 1494 a Firenze vigeva uno stato di restaurazione repubblicana capitanata da Pierantonio Soderini, che fu affiancato proprio dal frate-“profeta” Savonarola, il quale intendeva infondere nella nuova costituzione fiorentina le motivazioni di un governo teocratico. L’invasamento profetico di Savonarola si fondava sulla possibilità che la religione drizzasse il timone della politica sulla giusta rotta, nonché sulla constatazione di una più che evidente e profonda corruzione sia della politica sia del clero: di tale stato di «corruttela» il popolo fiorentino era talmente stanco, da essere indotto addirittura ad abbracciare - seppur per brevissimo tempo e non senza nemici in città -, le proposte teocratiche del frate. Le accuse di anti-umanesimo rivolte al frate sono oltreché motivate. Se non fosse che lo stesso Savonarola era stato in gioventù un amante della musica, suonatore proprio di liuto – lo strumento che arse nelle fiamme del rogo – e della poesia. Certo, lo fu a modo proprio, come si evince dalle polemiche da lui scatenate contro le melodie musicali liete, la polifonia e l’uso dell’organo nelle chiese, tutte fonti sensibili di perversione spirituale. Nel Codice Borromeo, poi, rinvenuto nel 1970 da Giulio Cattin presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, si trova un taccuino di poesie dello stesso Savonarola: un canzoniere contenente 3 sonetti, 6 canzoni e 5 laudi, oggi edito per i tipi del Melangolo con la cura di Giona Tuccini e il titolo di Rime. Nell’Apologeticus de ratione poeticae artis, Savonarola spiega come la poesia sia uno strumento complementare dell’eloquenza omiletica, come egli dimostra in quei celebri componimenti nei quali accusa la presente corruzione, De ruina mundi e De ruina Ecclesiae. Eppure, nemmeno lui era riuscito a sfuggire alla seduzione della bellezza emanata dalla poesia laica: al di là dei contenuti squisitamente spirituali, la forma poetica delle sue Rime è frutto di una profonda conoscenza della poesia profana del ’300, in primis del Canzoniere (Rerum Vulgarium Fragmenta) di Petrarca, dal quale il frate mutua calchi quasi perfetti. Espressioni che rinviano alla mistica religiosa come «l’amorosa piaga», riproducono chiaramente l’eco di versi petrarcheschi come «l’alta piaga amorosa». Tali numerose annotazioni filologiche mostrano come, a dispetto della sua ideologia teocratica - tanto anacronistica e medievale quanto efferata nei modi -, in campo artistico Savonarola non riuscì a voltare del tutto le spalle all’avanzare del laicismo estetico rinascimentale, non riuscì del tutto a non essere un uomo del suo tempo.

Il Sole Domenica 27.12.15
Spiritismo
Dettato dai fantasmi
di Chiara Pasetti


«Lo Spiritismo ha assolto un compito immenso. Ha violato la soglia dello sconosciuto, spezzato le porte del santuario. Ha operato nell’extranaturale una rivoluzione simile a quella che si è prodotta in Francia nel 1789 nell’ordine terrestre! Ha democratizzato l’evocazione, aperto tutta una via», affermava Huysmans in Là-bas, il romanzo sul satanismo moderno e sull’immaginario demoniaco.
Se la storia della letteratura ha a lungo evitato la questione dello spiritismo, almeno fino agli anni Novanta del 1900, anche e soprattutto per la difficoltà di circoscrivere questo fenomeno e inquadrarlo nell’ambito dei saperi, ciò non ha impedito a questo «mito moderno», la cui poetica è inscindibile dai suoi presupposti filosofici e che non può essere ridotto esclusivamente a elementi stilistici o estetici, di interagire strettamente con la letteratura. Il ricchissimo saggio di Patrizia D’Andrea, Le Spiritisme dans la littérature de 1865 à 1913, fornisce fin dal titolo un’indicazione dell’oggetto e del periodo di studio scelti: prende in esame le opere letterarie realizzate dalla metà del XIX secolo fino alla prima Guerra Mondiale, opere soprattutto francesi ma anche italiane (di Capuana e Pirandello), senza escludere il caso di Alfred Kubin, che rappresenta il contesto culturale tedesco. Opere che possono essere iscritte sotto la formula «letteratura dello spiritismo», o «letteratura spiritista», ossia tutte quelle produzioni letterarie di finzione in cui si ritrovino degli elementi che si rifanno direttamente allo spiritismo. Come fenomeno culturale proteiforme la cui durata precede e oltrepassa quella del corpus letterario indagato (già da tempo si parlava di magnetismo, sonnambulismo, occultismo, fluidi, elettricità, «tables tournantes», delirio apparente, visioni, ecc), lo spiritismo oscillava tra la letteratura, la filosofia e le scienze occulte.
La credenza nella reincarnazione era già in voga a partire dagli inizi dell’Ottocento, specie all’interno del socialismo utopistico (Fourier e Reynaud difendevano la pluralità delle esistenze, così come Eugène Sue nel suo Les Mystères de Paris del 1842), George Sand aveva trattato il tema del reincarnazionismo in diversi romanzi, e Balzac, negli anni Trenta del XIX secolo, aveva scritto opere come Louis Lambert e Séraphîta, in cui Swedenborg era considerato il punto di riferimento; inoltre, il magnetismo aveva ispirato numerose opere letterarie non solo in Francia (si pensi a Hoffmann), e il fenomeno della scrittura condotta attraverso diretta comunicazione con gli spiriti (cui il critico Alain Mercier fa risalire la «scrittura automatica» dei surrealisti) si stava diffondendo tra i poeti e nei salotti «come un’epidemia». Il terreno era dunque fertile quando appare l’opera che segna la nascita dello spiritismo come disciplina isolata, che viene da questo momento teorizzata, codificata e a cui rimandano tutta una serie di fenomeni: il testo di Allan Kardec Le Livre des Esprits. A Kardec si deve, nel 1858, la prima definizione del termine «spiritismo», che nella sua formulazione più concisa recita: «lo spiritismo è la dottrina fondata sulla credenza nell’esistenza degli Spiriti e nella loro comunicazione con gli uomini». Lo spiritismo diventa un evento chiave della storia intellettuale e scientifica, nonché della storia della letteratura.
Nel 1865 Gautier scrive il racconto Spirite, che viene analizzato nel testo di Patrizia D’Andrea come prima opera di finzione in cui, ed era inevitabile, spiritismo e letteratura fantastica si intrecciano indissolubilmente, dando l’avvio a una produzione sempre più fertile di testi di ispirazione «spiritista»; da lì in poi, il processo delle «photographies spirites», la creazione della Società di Teosofia, e tutta una serie di studi psicologici che saranno determinanti nell’interazione tra spiritismo e letteratura (in particolare, l’opera fondante di Pierre Janet L’Automatisme psychologique, o di Bernheim vedranno il moltiplicarsi dell’interesse degli scrittori e dei poeti nei riguardi della tematica «spiritica». La rappresentazione, nel 1897, della pièce di Sardou Spiritisme interpretata da Sarah Bernhardt sarà un’altra occasione importante per la diffusione del genere, i cui temi principali costituiscono, secondo lo studio di D’Andrea, una reinterpretazione di miti e motivi già esplorati dalla tradizione letteraria precedente, tra cui il mito di Psiche o dell’androgino, la figura del doppio e del vampiro, l’estetica baudelairiana della carogna, ora trattati nella prospettiva, e con il linguaggio, della teoria e dell’estetica dello spiritismo. L’analisi si ferma al 1913 con la pubblicazione del romanzo di Marc Saunier Au-delà du Capricorne. Roman spirite. Se la guerra ha sicuramente arrestato la produzione letteraria su questo soggetto perturbante e fecondo, ha nondimeno contribuito a una ripresa, negli anni Venti, specie con le opere di Charles Richet e di Conan Doyle, dell’interesse per le manifestazioni e le testimonianze dei defunti. Ripresa continuata fino ai giorni nostri, in cui lo spiritismo è, ancora oggi, «la babilonia del mistero».
Patrizia D’Andrea,Le Spiritisme dans la littérature de 1865 à 1913. Perspectives européennes sur un imaginaire fin-de-siècle, Honoré Champion, Paris, pagg. 642, € 105.00;

Il Sole Domenica 27.12.15
Fede & ragione
La mistica degli agnostici
Da Russell a Borges. da Gide a Barthes, numerosi sono stati gli intellettuali laici che si sono lasciati tentare dal misticismo
di Gianfranco Ravasi s.j.


Filosofo, matematico, scrittore (Nobel 1950 della letteratura) ma soprattutto agnostico, tant’è vero che poteva intitolare un suo saggio del 1927 Perché non sono cristiano. Ebbene, proprio Bertrand Russell sarà l’autore nel 1918 di uno scritto sorprendente fin dal titolo, Misticismo e logica, nel quale senza remore o imbarazzi asseriva che «i più grandi filosofi hanno sentito il bisogno sia della scienza sia della mistica». E tentava anche una definizione di questa realtà apparentemente così fluida e allergica a ogni stampo classificatorio: «La mistica è, in sostanza, poco più di una certa intensità e profondità di sentimento nei riguardi di ciò che si pensa a proposito dell’universo». Sta di fatto che la mistica, con la sua originale grammatica mobile, ha conquistato spesso personaggi a prima vista urticanti nei confronti della religione, forse per qualche esperienza deludente della giovinezza.
È il caso, ad esempio, di un altro Nobel letterario (1947), André Gide, in continuo duello con la sua matrice ugonotta, come si evince dai frequenti rimandi biblici dei titoli delle sue opere: Il ritorno del figlio prodigo, Se il grano non muore..., La porta stretta, Saul, Numquid et tu?, L’immoralista e così via. In uno dei suoi primi romanzi, I falsari (1925-26), esplorazione dei segreti contraddittori dell’anima perforando i veli dell’ipocrisia puritana, non esiterà a scrivere: «Senza la mistica non si raggiunge nulla di grande». E il fremito della spiritualità pervadeva l’autobiografico Numquid et tu?: «Penso che non si tratti di credere alle parole di Cristo perché Cristo è il figlio di Dio, quanto di comprendere che egli è il figlio di Dio perché la sua parola è bella al di sopra di ogni parola umana, e da questo riconosco che sei il figlio di Dio».
Potremmo allargare di molto il ventaglio degli agnostici tentati dalla mistica, a partire dallo straordinario sguardo “dall’occhio chiuso” (ma questa locuzione ebraica, applicata al mago Balaam in Numeri 24,3, significa in realtà “dall’occhio penetrante”) di Borges, per passare a Voltaire, ammiratore dell’Imitazione di Cristo, uno dei classici della spiritualità, le cui «parole sono come fuoco nascosto nella pietra», per giungere a Roland Barthes che considerava gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola un eccezionale palinsesto dell’anima, per cui «non occorre essere né cattolici né cristiani né credenti né umanisti per essere interessati a quest’opera». A questo punto ci si può chiedere quale sia la calamita che attrae talvolta persone remote dalla pratica religiosa e persino individui apatici rispetto a temi religiosi, pronti però a pendere dalle labbra di un guru misticheggiante esotico?
Non è possibile isolare una risposta omogenea, anche perché – nonostante l’oceano bibliografico critico dedicato a un altrettanto vasto mare testuale – è arduo elaborare una definizione di questo fenomeno dalle infinite iridescenze. Non per nulla la parola “mistica” ha alla radice il verbo greco myein che esige un chiudere le labbra, tacendo, avendo appunto per oggetto il “mistero”. Uno dei più alti scrittori mistici, lo spagnolo cinquecentesco san Giovanni della Croce nella sua Salita al monte Carmelo introduceva una vetta di vertigine ritmata sulla dialettica antitetica Nada/Todo: «Per giungere a gustare tutto, non volere il gusto di niente. Per giungere a possedere tutto, non voler possedere niente. Per giungere ad essere tutto, non voler essere niente. Per giungere a sapere tutto, non voler sapere niente...». Ignorando le frontiere etnico-culturali e religiose, la mistica replica anche in Oriente questa stessa intuizione apofatica (ma non afasica) in un testo indiano: «Come si scopre Dio? Rendendo bianco il cuore con la meditazione silenziosa. Non rendendo nera la carta con scritti religiosi. Non rendendo spessa l’aria con le parole spirituali».
L’ineffabilità è il vertice mistico e, proprio per questo, alla Wittgenstein, possiamo dire che quello di cui non si può parlare, si deve narrare. Per usare l’acronimo NOMA del Non Overlapping Magisteria, ossia degli statuti epistemologici “non sovrapponibili” propugnati da Stephen Gould tra scienza e religione, potremmo dire che la mistica privilegia non la definizione teorica ma la descrizione esperienziale. È ciò che affermava il cancelliere trecentesco dell’università di Parigi, Jean Gerson nella sua Teologia mistica: «Coloro che non abbiano mai fatto l’esperienza interiore di Dio, non potranno mai sapere intimamente che cosa sia la teologia mistica, come chi non avesse mai amato non potrebbe mai dire con perfetta cognizione di causa cosa sia l’amore». In questa frase abbiamo già uno dei percorsi più lineari per intuire quel “magistero” non sovrapponibile alla pura e semplice razionalità e alla sua logica formale.
È, come dice Gerson, la sintassi dell’amore e qui potremmo dilagare in un’attestazione documentaria sterminata che attraversa i secoli e i continenti. La mistica ignora l’astrattezza teorica e, per dirla alla Péguy, la sua è un’“anima carnale” e innamorata, come testimonia luminosamente una schiava musulmana riscattata, la mistica Rabi‘a, vissuta a Bassora nell’VIII secolo: «Mio Signore, in cielo brillano le stelle, gli occhi degli innamorati si chiudono. Ogni donna innamorata è sola col suo amato. E io sono sola con te!... O Amato del mio cuore, non ho che te! O mia speranza, mio riposo, mia gioia, il mio cuore non vuole amare altri che te!». Passano sette secoli e sulla Sierra Morena spagnola il citato Giovanni della Croce nel suo Cantico spirituale ripete: «Oh, notte che hai congiunto l’Amato con l’amata, l’amata nell’Amato trasformata!... Il volto reclinai sull’Amato, tutto cessò, mi abbandonai, e ogni pensiero lasciai perdersi tra i gigli...» (ove è evidente il richiamo al biblico Cantico dei cantici, poema d’amore riletto in chiave mistica).
La via dell’amore, dello stesso eros, della bellezza, del «Tu e io liberi da noi stessi, uniti nell’estasi, pieni di gioia e senza vane parole» – per usare una delle mille espressioni del grande Rûmî (XIII sec.), il maestro dei dervisci danzanti e dei sufi – si associa a un’altra dominante, conseguente alla logica d’amore, quella della corporeità trasfigurata. Tra l’altro, “ascesi” in greco significa semplicemente “esercizio” che rende naturali anche le esperienze e le figure somatiche più ardue e apparentemente capaci di sfidare la stessa legge di gravità, come accade nella danza classica, nell’atletica o nell’acrobazia. La mistica è, quindi, mistero e diafania, trascendenza e fisicità, miracolo e realismo. Il famoso Pellegrino russo procede ritmando la sua preghiera sul battito cardiaco. Kierkegaard, autore di Tre discorsi edificanti (1843) dal titolo emblematico, nel suo Diario annotava che «giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare: si vede, perciò, quanto sia sciocco parlare di un “perché” pregare. Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così con la preghiera».
È, questo, un filo d’oro della tradizione mistica di ogni latitudine. In Occidente, ad esempio, il grande e spesso indecifrabile Meister Eckhart, contemporaneo di Dante, ammoniva che «bisogna pregare con tanto fervore da tener avvinte le membra e le facoltà umane, orecchi, occhi, bocca, cuore e ogni senso, e non cessare finché non si sente di essere uno con Colui che preghiamo». Un santo vescovo ortodosso russo del ’700, Tikhon di Zadonsk, era ancor più didascalico: «Dammi, o Signore, cuore per amarti, occhi per vederti, orecchi per udire la tua voce, labbra per parlare di te, gusto per assaporarti, olfatto per sentire il tuo profumo, mani per toccarti, piedi per seguirti!». E un filosofo intriso di mistica come Rosmini elencava minuziosamente tutti i verbi dell’intimità con Dio: «conversare, parlare, soddisfare, ricordarsi, volere, intendere, conoscere, innamorarsi, pensare, operare, sperare, piacere, patire, vedere, toccare, gustare, vivere, morire, stare», verbi tutti mirati su Dio.
Un finissimo storico della mistica come è stato il gesuita Michel de Certeau evocava quei monaci del III-IV sec. che stavano ritti e muti per ore nella notte, simili ad alberi con le mani/rami levati al cielo in attesa del sole dell’alba e concludeva: «Era la loro preghiera; la loro parola era il loro stesso corpo in attesa». Era, questa, una modalità orante somatica statica, antitetica rispetto a quella dinamica dell’orazione “mobile” dell'ebreo osservante. In questa luce si intuisce che la mistica non è un decollo dalla terra verso cieli remoti, ma un tendere all’eterno e all’infinito tenendo i piedi ben piantati nella polvere della storia. Ancora Kierkegaard nel suo Diario: «Quando Adamo viveva nel paradiso, il motto era Ora! Quando fu espulso fu Labora! Quando Cristo venne nel mondo, il motto divenne Ora et labora!». E con una punta di ironia, il teologo martire del nazismo, Dietrich Bonhoeffer, dalla forte impronta spirituale, scriveva: «Penso che dobbiamo amare tanto nella nostra vita... e avere fiducia in lui quando giunge il momento di andare a lui. Ma che un uomo tra le braccia di sua moglie debba bramare l’eternità è, ad essere indulgenti, mancanza di gusto e comunque non volontà di Dio!».

Il Sole Domenica 27.12.15
Juan Ginés de Sepulveda (1490–1573)
Sulle guerre sante e giuste
di Armando Torno


Nel 1545, mentre si aprono i lavori del Concilio di Trento, termina la stesura di un libro che legittima la guerra speciale per la conquista del Nuovo Mondo. La pubblicazione è però ritardata dai domenicani. Il suo autore, Juan Ginés de Sepulveda, aveva studiato anche a Bologna seguendo gli insegnamenti di Pomponazzi; dal 1536 era diventato storiografo di Carlo V, ma anche cappellano reale. Con Erasmo da Rotterdam aveva avuto scambi di consensi e di critiche. Nel clima umanistico di quell’epoca ha un suo peso, tanto che il cardinal Gaetano lo incaricò tra il 1527 e il 1529 di rivedere il testo del Nuovo Testamento.
Quel libro che dicevamo e che l’Università di Salamanca nel 1547 ha l’incarico di vagliare, si intitola Democrates alter. Oggi si dovrebbe subito precisare che contiene idee politicamente scorrette. Si possono riassumere così: erano legittime le guerre contro gli indigeni americani e lecito era catturarli come schiavi, data la loro natura inferiore. Non entreremo nei dettagli e nelle questioni sollevate dall’opera, che fu tradotta da Quodlibet nel 2009, aggiungiamo soltanto che ora esce il primo Democrates di Juan Ginés de Sepulveda, libro che vide la luce a Roma nel 1535. Ovvero nell’anno in cui Carlo V strappò all’Impero Ottomano la città di Tunisi e giunse a Roma cercando di convincere papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, da poco eletto, a convocare un concilio.
Questo primo trattato si presenta con un titolo lungo, accattivante ed esplicativo, Democrate. Dialogo sull’accordo tra la professione delle armi e la fede cristiana”. Pone questioni come la seguente: è possibile intraprendere una guerra tenendo conto dei precetti evangelici? Respingendo gli ideali pacifisti di Erasmo, criticando Machiavelli che imputava al cristianesimo un infiacchimento degli animi e non poche colpe per la decadenza politica e militare, Sepulveda diventa il teorico della guerra umanitaria, un concetto che fu molto gradito al colonialismo europeo dell’epoca e dei secoli successivi. Ora Quodlibet propone la traduzione con il testo latino a fronte, a cura di Vincenzo Lavenia, anche di questo primo Democrate.
Va ricordato che Erasmo nella Querela pacis e negli Adagia aveva preso le distanze dal «Dio degli eserciti», quello caro all’Antico Testamento, a taluni pontefici nonché a numerosi interpreti che legittimavano l’uso delle armi, e scrisse parole chiare (riportate da Lavenia nella sua introduzione): «Un dottore davvero cristiano non approva mai la guerra; forse in qualche caso la permette, ma controvoglia e con dolore». Machiavelli, al contrario, più suadente del sommo umanista, attento nell’anteporre la forza alla giustizia, anzi vedendo la seconda dipendere dalla prima, credeva la guerra una realtà inevitabile (per Hegel sarà anche utile) e nei Discorsi attaccava senza mezzi termini il cristianesimo contrapponendovi gli ideali pagani: «La religione antica non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani e principi di repubbliche. La nostra religione ha glorificato gli uomini più umili e contemplativi che gli attivi». Parole scritte in un mondo in cui la Chiesa non scarseggiava di guerrafondai, papi inclusi.
Sepulveda nel suo primo Democrate entra in questo ideale dibattito e fa proferire ad Alfonso la risposta al quesito se la professione delle armi contrasti con la dottrina cristiana: «Anch’io in passato mi sono lasciato irretire da quella tesi; non perché ritenga che ai cristiani la fede proibisca di fare guerra (spesso mi pare che vi siano cause assai giuste, anzi necessarie, per intraprenderla), ma perché accadono molte cose nella vita per le quali a un uomo di valore è necessario perdere la buona fama (di cui deve avere massima cura) oppure mettere da parte i precetti della religione».
Più avanti Sepulveda affronta il problema discettando del «giusto per natura»; riflette sul giudizio di chi deve stabilire cosa sia bene e male. Giunge tra l’altro a ricordare che la guerra «secondo il diritto di natura» è fatta anche dalle bestie. Affrontando il tema Per quali cause si debba muovere guerra ricorda: «Non si dovrà affatto pensare che sia contro la religione o turpe rivendicare i propri beni sottratti o punire i malvagi. Né ci si dovrò vergognare di imitare Abramo, uomo giusto e chiamato amico di Dio. Egli molti secoli prima che fossero dettate le leggi degli ebrei, seguendo il diritto di natura mosse guerra contro quattro re che esultavano per la vittoria e li mise in fuga». Il resto viene da sé. E tale dibattito torna ad avere una certa attualità.
Juan Ginés de Sepulveda, Democrate , Quodlibet, Macerata 2015, pagg. 336, € 26

Il Sole Domenica 27.12.15
Democrazia / 1
Una politica di contenuti
La crisi delle nostre società è dovuta anche a un vuoto d’idee che va colmato, partendo dallo Stato sociale, dalla dignità e dai diritti
di Remo Bodei


Che la democrazia non goda di buona salute è testimoniato non solo da una diffusa percezione di disagio, ma anche da una ormai numerosa mole di ricerche. Le ragioni addotte e i sintomi descritti sono molteplici. Ne elenco alcuni: il dominio dell’economia sulla politica; lo svuotamento dei contenuti della democrazia stessa a causa della scarsa partecipazione dei cittadini ai suoi processi; il rafforzarsi al suo interno delle oligarchie. In quest’ultimo caso, è significativo che perfino insigni studiosi siano giunti a sostenere che le elezioni costituiscono un “inchino” al popolo, una riverenza che serve a dargli l’illusione di contare quale autentica fonte di legittimità.
Attraverso analisi acute e stringenti, Geminello Preterossi prende sul serio tutte queste affermazioni, non esorcizzandole con uno scaramantico vade retro!, ma cercando di individuare i punti deboli delle attuali democrazie per capire se è possibile porvi rimedio senza cadere nelle banalità della retorica pro o contro questo regime. Da questa prospettiva, anche il populismo, comunque inteso, non è oggetto di una facile condanna, giacché rinvia a una crisi profonda del sistema di rappresentanza e a un disagio che, puntando su aspetti reali di degenerazione della politica, crede di combatterla grazie alla totale sostituzione delle attuali classi dirigenti, accusate in blocco d’incompetenza e corruzione.
Per dare una risposta a queste difficoltà, sostiene Preterossi, occorre «fare i conti con la metafisica moderna, con i presupposti teorici ultimi del nostro lessico politico e con le implicazioni reciproche dei concetti che lo strutturano (come soggetto e diritti, volontà e artificio, sovranità e popolo, egemonia e consenso)». Egli mostra così come tutte queste entità siano costruzioni simboliche moderne, che non hanno nulla di naturale e che sono perciò fragili qualora non vengano sorrette da qualche appoggio esterno; sa, inoltre, che la “secolarizzazione” non è semplicemente la traduzione senza residui di termini e modelli teologici nel linguaggio della politica, la discesa del trascendente nell’immanente, dell’eterno nella storia o la trasfigurazione del Dio immortale delle religioni positive nel «Dio mortale» dello Stato teorizzato da Hobbes.
Le categorie del politico moderno non si sviluppano, infatti, per opposizioni nette in cui ogni elemento delle coppie sopra ricordate cancella il proprio antagonista. L’immanenza della politica non ha, ad esempio, eliminato il bisogno di trascendenza e già Max Weber aveva colto «la funzione compensativa del potere carismatico rispetto alla perdita simbolica che il tramonto delle forme tradizionali di legittimazione e il passaggio alla legittimità come legalità e razionalità scopo-conforme comportava». Ma è, soprattutto, con l’ultimo Habermas di Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia (Roma-Bari, Laterza, 2015) che Preterossi si confronta, accogliendo alcune sue tesi e respingendone altre (così come fa, in altre parti del volume, con Carl Schmitt o Ernesto Laclau).
Per Habermas la debolezza della democrazia dipende dal fatto che il disincanto moderno ha fatto dimenticare che le norme giuridiche e politiche non poggiano soltanto sulla pura ragione, ma su presupposti inespressi, pre-razionali e “presecolari”, che le sostanziano e danno loro l’energia necessaria per essere efficaci. La filosofia (ma anche la politica, aggiunge Preterossi) deve tradurre nel suo linguaggio questi presupposti taciti, rappresentati dal sacro e veicolati dal rito e dal mito. Per quanto appartenga a una fase pre-linguistica, il rito è un potente mezzo di comunicazione, capace di plasmare l’identità collettiva, di rispondere alle paure e alle speranze che caratterizzano la condizione umana, di costituire il ponte che, assieme al mito, elabora linguisticamente – e in parte razionalizza – il sacro, permettendogli di entrare nel discorso mondano.
Nel puntare sull’autonomia dei soggetti, Habermas ne sottovaluta la politicizzazione, la sola in grado di creare, a partire da persone atomizzate, la massa critica indispensabile ai cambiamenti. In più, il rifugio da lui trovato «nell’asilo offerto dalla cultura religiosa [...] è più un sintomo che una risposta». Preterossi accoglie però il concetto più generale che, per funzionare, la democrazia necessita di un apporto energetico mobilitante, «di un investimento simbolico, dell’edificazione di credenze e convinzioni collettive, orientate (egemoniche)».
In mancanza di tale eccedenza rispetto al sistema delle regole e delle procedure, si ottiene l’opacizzazione del potere e la spoliticizzazione dei cittadini. Non coinvolgendoli più direttamente nelle sue vicende, questo genere di democrazia anemica rischia pertanto di renderli inermi nel «grande e terribile» mondo globalizzato. La loro passività avvalora poi l’immagine nichilistica di un regime privo di fondamento proprio perché, in quanto artificiale, ha rinunciato a ogni “vero” fondamento. In quanto volutamente infondata, la democrazia deve essere compensata «da un processo di legittimazione permanente», da valori simbolici condivisi e unificanti, che le diano senso.
Da dove trarre simili risorse? Da una politica che si fa carico «di riempirla di contenuti sociali e apre spazio all’azione collettiva, compensando quel senso di relativo spaesamento che un ordine post-tradizionale sempre comporta». Tali contenuti sono, tra l’altro, offerti dallo Stato sociale, oggi minacciato nella sua esistenza, senza il quale le attuali democrazie non possono esistere nella loro pienezza e senza il quale perdono di consistenza la solidarietà, la dignità umana e i diritti (anch’essi costrutti artificiali non garantiti in assenza di un «ambiente democratico»): «La sicurezza sociale è il terreno sul quale fiorisce tanto un concetto di giustizia compatibile con il pluralismo, quanto l’azione di individui liberi come cittadini (e non solo come privati) perché non troppo diseguali».
Il libro di Preterossi ha il merito di disincagliarci dai dibattiti contingenti sulla crisi della democrazia per scavare in profondità sui suoi presupposti.
Geminello Preterossi, Ciò che resta della democrazia, Laterza, Roma-Bari,
pagg. 188, € 20,00

Il Sole Domenica 27.12.15
Democrazia / 2
Ma il «demos» non comanda
di Giuseppe Bedeschi


Nelle nostre democrazie governa veramente il demos, oppure questa è una mera parvenza, che nasconde tutt’altro? In altre parole, le nostre democrazie sono un mito o sono una realtà?
Nel suo ultimo libro (intitolato appunto: Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà) Massimo L. Salvadori propende per la tesi del mito. Nel mondo moderno, egli dice, è impossibile l’esercizio diretto della sovranità popolare, la quale viene delegata a dei rappresentanti. Ma la democrazia rappresentativa inciampa in una serie di trappole, che vanificano la volontà del popolo. Per dimostrare ciò, Salvadori espone, in ampi e limpidi capitoli, le analisi dei pensatori più eminenti circa la natura delle democrazie moderne. È opportuno soffermarsi su alcuni momenti essenziali dell’excursus storico-concettuale tracciato dall’Autore.
Kelsen affermava che solo l’illusione o l’ipocrisia può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici, i quali soltanto possono dare espressione alle volontà dei singoli. Ma cosa sono i partiti politici? Sono – rispondeva Michels – organizzazioni complesse, soggetti ineluttabilmente a una legge oligarchica. Infatti in essi la direzione e la rappresentanza diventano monopolio di professionisti, che, per le loro abilità e competenze, e per le posizioni di potere che conseguono, diventano inamovibili. Schumpeter, a sua volta, sosteneva che il processo democratico non si realizza dal basso all’alto (cioè dal demos ai politici), bensì viceversa. È del tutto irrealistico, egli diceva, pensare che nella democrazia i singoli siano capaci di iniziative razionali; al contrario, l’elemento decisivo è la leadership, nel senso che i leaders si presentano sul mercato politico e coi loro programmi e i loro slogan riescono a convincere una maggioranza di elettori. È quasi superfluo aggiungere che tale lavoro di convinzione si basa su tecniche che corrispondono esattamente ai modi della pubblicità commerciale: fanno leva sul subconscio, e sono tanto più efficaci quanto meno sono razionali.
Altre difficoltà che insidiano la nostra democrazia sono state evidenziate da uno studioso italiano, Norberto Bobbio, che ha richiamato l’attenzione su alcuni paradossi. Il primo paradosso è che chiediamo sempre più democrazia in condizioni obiettive sempre più sfavorevoli; nulla è più difficile che far rispettare le regole del gioco democratico nelle grandi organizzazioni: e le organizzazioni diventano, a cominciare da quella statale, sempre più grandi. Un secondo paradosso nasce dal fatto che lo Stato moderno è cresciuto non solo in dimensioni ma anche in funzioni, e ogni aumento delle funzioni dello Stato si risolve in una crescita dell’apparato burocratico, il quale è a struttura gerarchica e non democratica, a potere discendente e non ascendente. Un terzo paradosso è l’effetto dello sviluppo tecnico, caratteristico delle società industriali, in cui aumentano sempre più i problemi che richiedono soluzioni tecniche, affidabili solo a competenti. Ma è evidente che democrazia e tecnocrazia fanno a pugni. Il quarto paradosso nasce dal contrasto fra processo democratico e società di massa. La democrazia presuppone il libero e pieno sviluppo delle facoltà umane, ma l’effetto della massificazione, di cui tutte le società soffrono, è il conformismo generalizzato. A tutte queste difficoltà, Salvadori aggiunge gli effetti del processo di globalizzazione, che ha alterato i rapporti di forza a favore delle oligarchie economico-finanziarie, aumentando drammaticamente le disuguaglianze sociali.
Tutto ciò significa forse che la democrazia è solo una menzogna o una maschera? No, risponde l’Autore, perché i regimi che definiamo democratico-liberali non sono affatto assimilabili a quelli che sopprimono le libertà civili e politiche, che impediscono il pluralismo culturale e partitico, e che trasformano il voto in un plebiscito a favore del governo. Ma se questa valutazione è giusta, allora bisogna ridimensionare assai, io credo, la tesi, sostenuta in un primo tempo da Salvadori, che la democrazia moderna è largamente un mito.
Non bisogna dimenticare, infine, che nelle nostre democrazie opera potentemente un fattore di grandissima importanza: la pubblica opinione, la quale è il risultato di vari fattori assai eterogenei. La stessa classe politica non è una sfera compatta, anzi è un microcosmo altamente competitivo, nel quale i partiti manovrano per rubarsi gli elettori, e i politici guerreggiano fra loro all’interno dei rispettivi partiti. Inoltre, nelle nostre società democratiche è cresciuto a dismisura il numero degli intellettuali, i quali discutono, propongono, diffondono opinioni. Ci sono poi i giornali, i quali hanno un notevole grado di indipendenza, in quanto possono vivere solo grazie al sostegno di centinaia di migliaia di lettori che li acquistano. Tutto ciò significa che nelle società democratiche contemporanee l’opinione pubblica è sostanzialmente «autentica perché autonoma, ed è autonoma quel tanto che basta a fondare la democrazia come governo di opinione» (Giovanni Sartori).
Massimo L. Salvadori, Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà, Donzelli, Roma, pagg. 508, € 35,00

Il Sole Domenica 27.12.15
Gianfranco Pasquino
Le riforme e lo spezzatino
di Sabino Cassese


Sono in molti al capezzale della nostra democrazia, chi per valutare, chi per riformare, chi per accusare. La voce di Gianfranco Pasquino si differenzia dalle altre. Lui ama analisi distaccate, critiche, ma non catastrofiste. È contrario a semplificatori e conservatori ad oltranza. Pensa che anche le Costituzioni invecchino, e che quella italiana sia invecchiata non solo nella seconda parte, ma anche nella prima. Ritiene che gli stessi costituenti abbiano aperto la strada alle modifiche costituzionali, prevedendo le relative procedure. Non si limita a guardare nel nostro orticello, ma fa sempre paragoni con quanto accade nelle democrazie che fanno parte della nostra tradizione costituzionale comune. Non dimentica mai l’insegnamento dei classici, a partire da Bagehot. Critica il cosiddetto renzismo, ma non con la violenza passionale e lo spirito predicatorio di tanti altri commentatori. Tutti buoni motivi per leggere i suoi libri.
Quest’ultima riflessione sulla democrazia italiana parte dalla constatazione che non è vero che non si siano fatte riforme: se ne sono fatte molte, alcune buone, altre cattive. Insiste sulla necessità di considerare il sistema complessivo: le riforme costituzionali non si possono fare come uno spezzatino, richiedono un disegno coerente. Debbono avere di mira il potere dei cittadini e l’efficienza del sistema, quindi rappresentanza e governabilità (qualcuno una volta ha scritto che merito di un buon Parlamento è di dare al proprio Paese un buon governo). Insiste sulla necessità di ulteriori riforme, considerato che la nostra democrazia è di qualità modesta.
Da queste premesse prendono le mosse le sue critiche. Per Pasquino l’ultima legge elettorale è sbagliata perché i parlamentari sono nominati, non scelti, e quindi sono asserviti ai partiti. Questi ultimi sono atrofizzati, verticizzati, personalizzati: per restituire lo scettro al popolo, vanno riformati, ma la loro riforma può venire solo dalla modifica del sistema, della legge elettorale e del modo di finanziamento. Anche la riforma del Senato, tuttora in corso, è oggetto delle critiche di Pasquino: la sua composizione è cervellotica, i suoi compiti non ben definiti, non c’è la garanzia che l’iter delle decisioni sia più rapido. Infine, Pasquino non sposa la tesi secondo la quale i presidenti Scalfaro e Napolitano si sarebbero comportati da monarchi, ma ritiene che essi abbiano dovuto, contro la loro stessa volontà, giocare il ruolo del gestore delle crisi proprio di un sistema semi-presidenziale. Infine, Pasquino non nasconde le sue preferenze, che vanno all’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica, accompagnata da un sistema elettorale a doppio turno in collegi uninominali.
Come è dimostrato fin dal titolo (Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate), al centro di questo libro sta il problema della democrazia. Questo termine indica uno dei concetti più sfuggenti del nostro armamentario politico, tanto sfuggente che per qualificarlo occorre accompagnarlo con aggettivi (democrazia liberale, democrazia rappresentativa, democrazia deliberativa, e così via). Ora, i nostri sistemi politici hanno una componente democratica, ma questa si accompagna con altre componenti, una liberale e una efficientistica. Della prima fanno parte istituzioni come quelle giudiziarie, le corti costituzionali, le autorità indipendenti. Della seconda fanno parte gli organi amministrativi e in generale il potere esecutivo. Quando ci riferiamo alla democrazia, indichiamo una parte (quella che riguarda elezioni, corpi rappresentativi, nazionali e locali, vertici di governo), per il tutto (lo Stato, di cui fanno parte, a giusto titolo, anche altri organi ed altre funzioni).
Di qui la domanda: se si isola solo una delle componenti di questi organismi complessi che sono gli Stati–nazione, paragonabili a certe chiese che includono mura e colonne romane, volte rinascimentali e dipinti secenteschi, non si corre il rischio di non rispondere proprio a quella preoccupazione che muove Pasquino, quella di tener conto del sistema nel suo insieme, di evitare le spezzatino?
Gianfranco Pasquino,Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Egea, Milano, pagg. 198, € 16,00

Il Sole Domenica 27.12.15
I laici dell’Ugi
Quell’alternativa a Dc e Pci
di Massimo Teodori


La classe dirigente laica sembra essere scomparsa dalla scena pubblica. Eppure c'è stata una stagione - il ventennio postbellico - in cui ha svolto un ruolo decisivo nella trasformazione culturale e politica dell'Italia da Paese arretrato a moderna nazione sviluppata. L'Unione Goliardica Italiana (Ugi) è stata una delle sedi in cui si sono formati gli uomini nuovi che hanno guardato alla realtà senza gli occhiali dell'ideologia e del dogma, lasciandosi alle spalle le scorie autoritarie e corporative del ventennio. Per più d'una generazione di universitari l'Ugi ha rappresentato un crogiolo in cui si sono intersecati progetti innovativi di diverso tipo: il movimento studentesco con il movimento politico, la formazione culturale con l'educazione democratica, l'unità laica con il dialogo senza pregiudizi. La singolare esperienza postbellica durata una ventina di anni ha fornito giovani dirigenti all'intero arco politico (dai liberali ai socialisti) che ambiva porsi in autonomia rispetto a Dc e Pci. Suo autentico codice genetico è sempre rimasto il laicismo per una società aperta che però non le ha impedito di governare gli organismi rappresentativi universitari insieme ai cattolici dell'Intesa.
Se il riferimento alle ambigue vicende sessantottine continua dopo cinquant'anni a tenere banco, poco o nulla si conosce del percorso formativo della classe dirigente della Repubblica, alternativo a quello segnato dalle strettoie della chiesa cattolica e della sinistra marxista. Piero Pastorelli colma questo vuoto con le biografie di coloro che sono stati i 144 principali protagonisti dell'Ugi tra il 1946 e il 1968, divenuti per lo più professori universitari e politici. Nelle associazioni goliardiche si è formato l'originario gruppo dei nuovi radicali, già sinistra liberale, a cominciare da Pannella; sono iniziati gli itinerari autonomisti dei socialisti Craxi e De Michelis; e hanno coltivato idee anticonformiste i giovani repubblicani e comunisti riformisti alla Petruccioli. Ancora più variegati sono stati i percorsi degli intellettuali, accademici e non: il politologo Vanni Sartori, gli economisti Francesco Forte e Piero Barucci, il linguista Tullio De Mauro, il filosofo Umberto Curi, l'architetto Stefano Levi della Vida, il giornalista Vittorio Emiliani, il giurista Stefano Rodotà, l'europeista Gerardo Mombelli, l'editore Cesare De Michelis, e gli storici tra cui Piero Craveri, Mario Isnenghi, e Brunello Vigezzi. L'Ugi che raggruppò negli atenei di tutt'Italia ventimila giovani in un'università che allora ne contava duecentocinquantamila, è stata forse l'unica organizzazione di massa laica che ha sparso ovunque i semi del dialogo e della tolleranza in un Paese che era, e rimane inquinato dagli integralismi banchi, rossi e verdi.
Piero Pastorelli, L'Unione Goliardica Italiana (1946-1968). Biografie di protagonisti, Clueb, Bologna, pagg. 160, € 21,00

Il Sole Domenica 27.12.15
Pensiero rizomatico
Deleuze, vent’anni dopo
di Matteo Marchesini


A due decadi dalla sua morte rimangono notevoli le sue interpretazioni dei grandi filosofi, ma non convince per niente la sua intimidatoria mistagogia estetico-politica
Buona parte del pensiero novecentesco ha relativizzato la metafisica e l’umanesimo, cercando di risalire a una loro radice rimossa. Questa radice non è un concetto - altrimenti sarebbe metafisicamente inquadrabile - ma una «soglia». È, cioè, il contesto di senso che ogni discorso presuppone senza poterlo esprimere: l’essere dell’ente per Heidegger, ciò che si mostra ma non si dice per Wittgenstein, la barra che separa dalla Verità per Lacan… Anche Deleuze ha insistito su questo tema, come spiega Rocco Ronchi in un ritratto stringato e limpido (non era facile) uscito per Feltrinelli a vent’anni dalla sua morte.
Per capire cos’è, secondo l’autore di Differenza e ripetizione, questa soglia irrappresentabile da cui emergono le rappresentazioni, Ronchi si serve di Peirce (caro al suo maestro Sini) e di Gentile. Per un empirista radicale, annota, la realtà è un tessuto non di fatti ma di atti. I soggetti e gli oggetti, l’io e il mondo non sono essenze originarie, bensì risultati provvisori di eventi-soglie non oggettivabili e non personali, di un flusso di esperienza anonimo e assoluto. Qui è il nucleo del deleuziano immanentismo in movimento, nel quale Spinoza incontra Bergson, e al cui centro sta un Uno neoplatonico dinamizzato, che si dà solo nel proprio illimitato differenziarsi. Questa equivalenza tra monismo e pluralismo non contesta solo la metafisica classica, ma soprattutto Hegel. Deleuze rifiuta infatti di pensare la differenza a partire dalla negazione, che la riduce all’ombra di un’identità già data, e d’irreggimentare la molteplicità negli aut-aut (legge o infrazione, castrazione edipica o follia…). Il suo è un divenire antidialettico, tutto affermativo. Ed è appunto una tale “pura vita” che non si può dire: «semmai solo dirne, e cioè ripeterla», come tenta di fare Deleuze col suo continuo, seriale «gesto» filosofico. Affine a questo gesto gli sembra quello della cinepresa, «occhio non umano» che coi suoi illimitati punti di vista invera la percezione impersonale e diffusa da cui l’uomo ritaglia un proprio film, una soggettiva “metafisica” nel cinema infinito della realtà. È un’idea che il filosofo condivide con Pasolini, a cui si oppone invece frontalmente nel giudizio sul 68, che per lui non fu la trasgressione di un ordine, cioè un movimento imprigionato nel solito schema binario, ma un tentativo di riattingere il «piano di immanenza assoluta» dell’esperienza che scorre al di sotto dei «dispositivi di potere». Qui però sta il punto debole di Deleuze. Perché se nel divenire siamo sempre immersi, appare capzioso o pleonastico considerare il ’68 come una sua «affermazione» più «pura» di qualunque altro fenomeno, senza eseguire sui fatti associati a quella data il lavoro de-metafisicizzante che il pensiero deleuziano ostenta di eseguire su ogni oggetto; oppure bisogna credere a una mera metafora, o a un uso pretestuoso della teoria a fini giornalistici.
Coi suoi cortocircuiti tra filosofia e politica (estetizzante), Deleuze spaccia infatti per necessità filosofica suggestioni o scelte personali che richiederebbero invece di essere argomentate politicamente. La stessa ambiguità inficia la sua scrittura, che come quella di altri pensatori francesi si vuole vertiginosa, ma che poi appiccica la teoria alla cronaca, e mima nello stile il contenuto, con una meccanicità da far impallidire i positivisti e gli hegeliani più brutali.
La verità è che l’immanentismo assoluto, destinato a celebrare tautologicamente tutto ciò che esiste, lascia poche strade aperte a un pensatore che voglia sostenerlo senza rinunciare a distinguere caso per caso valori e disvalori. Un tale pensatore può annuire sempre, e tacere; oppure può giudicare le singole situazioni con una analisi etica o politica davvero immanente, abbandonando l’ontologia per la prassi (è la via del gentiliano Calogero); o infine può restaurare la dialettica, che sola permette di collegare universale e particolare senza trucchi. Altrimenti, l’immanentista che pretende di assegnare un’indebita aura filosofica a ogni opinione contingente calando dall’alto la sua teoria, finisce per contraddirsi e cede alla retorica: quella stantia del Gentile ideologo, o quella più glamour con cui Deleuze introduce surrettiziamente nel suo refrain sul Divenire opinioni improbabili sul 68 o sull’Olp, e in cui, proprio mentre predica l’anonimia, esibisce un ansioso bisogno di riconoscimento. Per questo, mentre rimangono notevoli le sue interpretazioni dei grandi filosofi, non convince la sua intimidatoria mistagogia estetico-politica. Pensatore del secolo, lo chiamò Foucault: in effetti rappresenta bene quel Novecento in cui l’intelligenza si confonde con la sofistica, e la demistificazione con una mistificazione al quadrato.
Rocco Ronchi, Gilles Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, Milano, pagg. 144, € 14,00

Il Sole Domenica 27.12.15
Storica confusione
Relatività solo di nome
Fin dalla sua nascita, 110 anni fa, il grande pubblico (tra cui anche Mussolini) fraintese questa teoria, che nulla ha di soggettivo. Anzi...
di Vincenzo Barone


C’è un problema che affligge le due relatività (la relatività ristretta del 1905 e la relatività generale del 1915, di cui abbiamo festeggiato in queste settimane il centenario) fin dal loro apparire. Un problema non di natura scientifica, beninteso – perché, da questo punto di vista, le due teorie hanno solo mietuto successi -, ma piuttosto fastidioso: il nome. Come Einstein non si stancava di ripetere, il termine “relatività” è connesso esclusivamente al fatto che «il moto appare sempre come moto relativo di un oggetto rispetto a un altro», e non è mai osservabile come «moto assoluto». Il termine, tuttavia, diede subito adito a fraintendimenti, che si trascinano ancora oggi.
Il fisico teorico americano Richard Feynman derideva quei filosofi «da salotto» – l’espressione è sua – che ritenevano che il contenuto della relatività fosse sintetizzabile in due formule verbali: «I fenomeni fisici dipendono dal sistema di riferimento», e «Tutto è relativo». La prima di queste proposizioni è banale: che un fenomeno fisico (per esempio il moto) dipenda dal sistema di riferimento, cioè che appaia diverso a seconda dell’osservatore, è cosa evidente e nota da sempre, e non c’era bisogno di aspettare la relatività per accorgersene (un passeggero su un treno è in quiete rispetto a un altro passeggero, ma è in moto rispetto a qualcuno che si trovi ai lati del binario).
La seconda proposizione, la più diffusa – «Tutto è relativo» –, è invece falsa. Ciò che la relatività afferma è semmai l’opposto. È vero che un fenomeno fisico è descritto diversamente da osservatori diversi, e che molte grandezze (intervalli di tempo, lunghezze, velocità, frequenze, ecc.) sono relative, cioè dipendono dal sistema di riferimento, ma le leggi fisiche che governano i fenomeni sono le stesse per tutti gli osservatori. La relatività non dice affatto che queste leggi sono relative, ma, al contrario, che sono “assolute”, per così dire, perché valgono nella stessa forma per tutti. È questo il significato genuino del principio di relatività, che Einstein enunciò nel 1905 per gli osservatori in moto uniforme, ed estese, con la relatività generale del 1915, a tutti gli osservatori.
Un altro classico equivoco è l’identificazione (sulla base solo della comune etimologia) della relatività con il relativismo, inteso in senso epistemologico come la dottrina secondo cui non esistono conoscenze oggettivamente valide. Anche questo elemento di confusione – fonte di innumerevoli insensatezze - risale agli albori della teoria. Nel 1922, per fare un esempio nostrano, apparve il libello Relativisti contemporanei, dello scrittore e critico Adriano Tilgher, in cui si celebrava Einstein – accomunato a Hans Vaihinger, il filosofo del finzionalismo, e a Oswald Spengler, l’autore de Il tramonto dell’Occidente - come il «duce del formidabile assalto relativista che, irraggiando dalla Germania in tutto il mondo civile, tende a rinnovellare le basi stesse del nostro sapere». Il merito del fisico tedesco, scriveva Tilgher, era quello di «aver introdotto per via di argomentazioni fisico-matematiche il soggettivismo nella scienza della natura», cosicché la relatività si inseriva in un più ampio movimento di pensiero ispirato a un’«intuizione attivistica del mondo e della vita», che in campo politico trovava espressione nel fascismo. «Esattissimo! Con questa affermazione Tilgher immette il fascismo nel solco delle più grandi filosofie contemporanee: quelle della relatività» – commentò sul «Popolo d’Italia» Benito Mussolini, il quale ovviamente non sapeva nulla di relatività, ma non disdegnava di attribuire al proprio movimento un’etichetta intellettuale di moda (questa e molte altre perle sulla ricezione della relatività nel nostro paese si possono trovare in un vecchio ma prezioso saggio di Roberto Maiocchi, Einstein in Italia, Franco Angeli, 1985).
Vale la pena di ricordare che, originariamente, Einstein aveva parlato solo di «principio di relatività» (Relativitätsprinzip). Fu Max Planck, il padre della meccanica quantistica, a battezzare la teoria einsteiniana Relativtheorie, espressione modificata poi in Relativitätstheorie, il nome con cui la teoria divenne universalmente nota. Rovesciando il termine, il matematico Hermann Minkowski, cui si deve l’idea dello spazio-tempo, preferiva chiamare il principio di relatività «Postulato del mondo assoluto». Un altro grande matematico, Felix Klein, uno dei fondatori della geometria moderna, suggerì il nome di «teoria degli invarianti», che individuava giustamente nel requisito di invarianza delle leggi fisiche il fulcro della relatività. Ma era ormai troppo tardi, e la proposta di Klein (che a Einstein piaceva) non prese piede. Non ci resta che pensare a quanti discorsi insulsi si sarebbero evitati se il nome della teoria fosse stato diverso.

Il Sole Domenica 27.12.15
La necessità di una legge
Morire con dignità
di Michele De Luca


Provate a immaginare quale possa essere il momento più intimo e privato della vostra vita. Personalmente non riesco a immaginarne uno che lo sia più della sua fine, quando mi renderò conto che il countdown per il mio commiato da questo mondo è ormai davvero iniziato. Ognuno di noi si augura una morte serena e indolore, possibilmente improvvisa e inaspettata, con la minor sofferenza fisica e psichica possibile a precederla. Quella che si può ritenere a pieno titolo “eutanasia”, cioè bella morte come suggerisce l'etimo. Molti di noi avranno questa fortuna, molti altri purtroppo no. Immaginate poi di ricevere una diagnosi infausta. E di vedere davanti a voi, oltre all'inesorabilità della morte, solo un destino di sofferenza e di decadimento fisico tale da rubarvi persino la dignità. Di cosa avreste più paura? Della morte in sé o del drammatico percorso per arrivarci, soprattutto se prolungato nel tempo? La risposta dipenderà ovviamente dalle convinzioni individuali. Ci sarà chi affronterà tutto questo come un percorso di redenzione o un'opportunità di portare la propria croce per ottenere la beatitudine nell'aldilà. E chi, come me, farà di tutto per minimizzare la sofferenza per sé e per gli altri, che inevitabilmente saranno coinvolti in questo percorso.
Non so quale sia la scelta giusta. Non posso saperlo, perché non esiste una scelta giusta tout court, ma solo la scelta giusta per ciascuno di noi, rispondente solo alla propria coscienza. Quello che conta è che sia una scelta. Sembrerebbe scontato, ma non lo è affatto. Quello dell'eutanasia legale, o del fine vita (come preferisco chiamarlo, perché è di questo che si tratta), è un problema quanto mai attuale. Non tanto perché il singolo caso di attualità, di chi si reca all'estero per ottenere quello che avrebbe il diritto di avere qui, periodicamente scatena la stampa e rimbomba per qualche giorno nei TG, ma perché nonostante le migliaia di firme di cittadini italiani raccolte e depositate in parlamento e nonostante l'appello dell'ex Presidente della Repubblica Napolitano, i nostri politici continuano da anni a procrastinare la discussione di questo tema, come se non si trattasse di una delle libertà fondamentali dell'individuo che lo Stato dovrebbe tutelare.
E qui entra in gioco la peculiarità del nostro Paese. Di quella creatività italiana che, se ha reso forte il made in Italy nel mondo, diventa devastante quando coinvolge i concetti di etica, libertà e diritto. Quella “creatività” che ha plasmato concetti come il diritto di cura anche quando una cura non solo non c'è ma è una stregoneria addirittura pericolosa per la salute, come avvenne col caso Stamina. Quella “creatività” che considera “etiche” cellule ottenute da feti abortiti spontaneamente (sebbene in Italia l'aborto volontario sia una pratica perfettamente legale) ma non le staminali embrionali (salvo poterle importare dall'estero con logiche incomprensibili), che potrebbero invece avere un potere terapeutico assai superiore e quindi molto più rispondente al concetto di etica che, da medico e ricercatore, mi appartiene. La stessa “creatività” che ha cercato di osteggiare la diagnosi pre-impianto violando il diritto dei genitori a mettere al mondo figli sani o costringendoli all'aborto quando la tecnologia permetterebbe di evitare tutto ciò.
Cosa potrebbe esserci di più etico che concedere ai cittadini il diritto di scegliere come e quando porre fine alle proprie sofferenze? Quale violenza maggiore si potrebbe immaginare dell'imporre a qualcuno, in un momento tanto intimo e privato, le scelte di qualcun altro, dettate da una coscienza, da un'ideologia o da un credo religioso che non sono i propri? Che differenza c'è tra questa subdola violenza psicologica e quella perpetrata dai regimi totalitari, di qualsiasi colore, in giro per il mondo? Si può definire democratico liberale uno Stato che priva i cittadini della libertà e impone un carico di sofferenza addizionale a chi già soffre?
Non ho mai usato tanti punti interrogativi in un mio scritto. Ma qui sono d'obbligo, perché ci sono troppe domande ancora aperte che hanno bisogno urgentemente di una risposta. E tanti interrogativi che per la loro stessa essenza non possono avere risposta se non nella libertà del singolo, che il legislatore può garantire solo intervenendo e legalizzando l'autodeterminazione del fine vita. In mezzo a tante domande ho almeno una certezza: ringrazio Marco Cappato e i militanti dell'Associazione Luca Coscioni, di cui ho l'onore di essere co-presidente, per avermi dato la certezza che quando sarà il momento potrò contare sul loro aiuto per essere accompagnato verso la fine delle mie sofferenze. E spero davvero, quel giorno, di potermi addormentare per sempre nel mio letto e non a migliaia di chilometri da casa perché uno stato che si definisce laico e democratico impone alla mia vita delle scelte non mie.

il manifesto Alias 27.12.15
Chateaubriand, fascino quasi esotico
Chateaubriand. Vocazione alla rappresentatività e pienezza epica: rileggere Le «Memorie d’oltretomba» («Millennio») in un’epoca segnata dalla crisi dell’esperienza
di Pierluigi Pellini


Un’esistenza che ha attraversato, a distanza variabile ma sempre ridotta dalle luci della ribalta, i rivolgimenti storici alle origini della modernità – la Rivoluzione del 1789, l’Impero napoleonico, la Restaurazione, la Rivoluzione del luglio 1830, la monarchia borghese di Luigi Filippo – per concludersi pochi mesi dopo la nascita della Seconda Repubblica, nel 1848, all’età di ottant’anni, quasi per predestinazione storica doveva assumere pienezza epica e aura eroica; doveva rispondere a una vocazione alla rappresentatività: caratteri, tutti, che s’ammantano d’un fascino desueto e quasi esotico in un’epoca variamente contraddistinta, come la nostra, da una conclamata crisi dell’esperienza. E infatti delle connotazioni retoriche, monumentali, e diciamo pure solennemente cimiteriali, suggerite dal titolo, l’autobiografia di François-René de Chateaubriand, le Memorie d’oltretomba, non s’è mai liberata. Libro della dismisura fin dalle dimensioni esterne (più prossime alle duemila che alle mille pagine), nasce come lascito testamentario di un uomo ambizioso e opportunista; e quel titolo lo inscrive deliberatamente nella tradizione della memorialistica aristocratica del Seicento e d’inizio Settecento – quella illustrata dal cardinale di Retz e dal duca di Saint-Simon –, rifiutando invece il modello, più prossimo nel tempo ma ideologicamente aborrito, di Jean-Jacques Rousseau: Memorie, dunque, e non Confessioni, per segnare il rifiuto sdegnoso (ma segretamente contrastato) di ogni psicologismo intimista, per rivendicare il diritto alla reticenza, e a una fiera focalizzazione sul ruolo pubblico – prima letterario e poi politico – dell’autore, il cui destino conta, innanzitutto, come sineddoche di quello di un’intera nazione; e il cui giudizio sulle vicende storiche e sui loro protagonisti, spesso fazioso, o tendenziosamente ambiguo, o perfino miope, ma sempre pronto e denso di significati (Chateaubriand è stato anche un grande giornalista), è esibito a ogni pagina.
Di fronte ai monumenti delle patrie lettere, in Francia come in Italia, la sensibilità novecentesca ha oscillato fra i poli opposti e complementari della schietta iconoclastia e della valorizzazione paradossale. Così, se per un verso, riprendendo giudizi sprezzanti che erano già di Zola, molti hanno dichiarato pomposamente insopportabile l’opera tutta dell’enchanteur (un po’ come da noi l’‘inimitabile’ d’Annunzio ha attizzato naturaliter le fiammate della parodia), per un altro una tradizione critica illustre e ormai molto nutrita ha cercato, spesso con ottime ragioni, la fragilità ambivalente dell’uomo romantico dietro la prosopopea del paladino della Restaurazione; ha riconosciuto i frequenti guizzi di irrequietudine traditi dalle asimmetrie di un edificio solo in apparenza progettato con pedante, mortuario rigore; e alle grandi campate della narrazione ha contrapposto le riuscite folgoranti di singole pagine descrittive (quasi poèmes en prose), facendo di Chateaubriand il capostipite della prosa d’arte estetizzante: quasi che al gusto novecentesco fosse possibile appropriarsi delle Memorie d’oltretomba solo attraverso una selezione antologica, o una fruizione deliberatamente a contropelo. Così Roland Barthes si è ingegnato a esaltare la forza disgregatrice degli anacoluti, frequenti soprattutto nella tarda Vita di Rancé, capaci a suo dire di stravolgere in frammentaria «paratassi impazzita» la prosa del più classico, levigato e di norma ipotattico fra i narratori ottocenteschi; così Jean-Pierre Richard ha letto, nell’horror vacui di una scrittura debordante di fatti e giudizi, «una grande messa in scena dell’assenza», dove l’ipocrisia magniloquente si rovescia in autenticità dell’esperienza letteraria, e l’esibizione del grandioso non esclude il riscatto poetico dell’infimo. Già Proust, d’altronde, aprendo la strada a tutte le riletture attualizzanti, ammetteva il debito contratto dalla celeberrima madeleine della Recherche con quella precoce rappresentazione di una memoria involontaria che addirittura dà l’abbrivo a tutta l’opera autobiografica di Chateaubriand: il canto di un uccello che, nel luglio del 1817, evoca all’improvviso nell’autore quasi cinquantenne il ricordo struggente dell’infanzia pre-rivoluzionaria, nel castello bretone di Combourg. Non c’è dubbio: le Memorie d’oltretomba hanno avuto in Italia sorte tanto grama – sono state tradotte per la prima volta integralmente solo nel 1995, nella «Pléiade» di Einaudi – anche perché questo memorabile «magico suono», che echeggia dal ramo più alto di una betulla nel parco di Montboissier, è il canto melodioso dell’acuta, squillante, quasi dionisiaca grive: in italiano, nient’altro che un opaco e ottuso tordo. Una figura della coscienza epifanica centrale in tutto l’immaginario novecentesco non poteva essere annunciata, di qua dalle Alpi, da un uccello portatore di ben più prosaiche connotazioni comico-realistiche: imprevedibile autonomia del significante, che vale da curioso contrappasso traduttivo, per uno scrittore innamorato, forse più ancora che di se stesso, dei valori fonici e timbrici della lingua.
In realtà, la critica più recente, così come ha fatto giustizia delle opposizioni fra Memorie e Confessioni (nel capolavoro di Chateaubriand i due registri, l’uno esibito e l’altro sotterraneamente vagheggiato, convivono in precario equilibrio) e fra ipocrisia e autenticità (l’io autobiografico si dissolve, con attualissima indeterminazione, nelle maschere che di volta in volta assume: quasi un’autofiction), ha mostrato come la singola pagina, per coerenza o per contrasto, acquisti senso e risonanza solo in dialogo con l’architettura dell’insieme. Un’architettura oggi finalmente di nuovo accessibile, dopo vari anni di assenza dai cataloghi, anche al pubblico italiano: torna infatti, in nuova, sontuosa veste (sempre einaudiana, ma nei «Millenni»), e con raffinati inserti iconografici, l’impeccabile traduzione di Ivanna Rosi, Filippo Martellucci e Fabio Vasarri, corredata dall’appassionata Introduzione di Cesare Garboli, che nulla ha perso del suo smalto propriamente giovanile – prima ancora che un saggio critico, è la storia di una lettura, e della scoperta di un inopinato, avvolgente plaisir du texte, capace di suscitare amore incondizionato per uno scrittore «così reazionario, vanitoso, codino, menagramo». È un’edizione che, certo, può intimidire: per la mole (il cofanetto comprende due volumi, per un totale di 2304 pagine) e il non modico prezzo (160 euro); non però per la ricchezza degli apparati critici (il cui aggiornamento è stato ottimamente curato da Vasarri), che si rivelano guida alla lettura indispensabile, consentendo non solo un orientamento nella selva di fatti e personaggi storici cui il testo allude, ma anche affascinanti incursioni nel tormentato laboratorio dello scrittore. È un’edizione monumentale: che sugli scaffali rischia di perpetuare l’immagine retorica di un autore sempre in posa (a quando un tascabile?), ma ad apertura di pagina squaderna la complessità di una scrittura in bilico – per riprendere un’immagine di Marc Fumaroli – fra Racine e Rimbaud; di un io che alterna «burrascosa sincerità» e «sottilissima malafede», e sul «fondo delle idee vago» accampa splendidi i «contorni delle frasi precisi» (così Garboli).
Quella di Chateaubriand è «l’autobiografia che nasce dal riscriversi, dal correggersi, dal giustificarsi, dal chiarire e dal precisare a distanza di anni e di decenni le proprie posizioni intellettuali e politiche, dal discutere le critiche, i successi, gli insuccessi, dal discutere le discussioni, insomma quel genere di verifica ininterrotta delle idee proprie e degli altri» che si fa Storia, anche grazie al «gusto acre, quasi cattivo, di trattare la propria lingua come una lingua morta». Garboli licenzia queste righe, a metà anni Novanta, a ridosso della scomparsa di un intellettuale e poeta che aveva fatto della «verifica» (dei poteri) il suo emblema, e della «sublime lingua borghese», «più morta di un inno sacro» il suo strumento espressivo: piace intuire che il suo ritratto di Chateaubriand sia segreto, paradossale omaggio, ancora oggi d’inattuale attualità, a Franco Fortini.

il manifesto Alias 27.12.15
Bettini, occhi acuti e incantati per un’opera collettiva sul mito classico
Maurizio Bettini, «Il grande racconto dei miti classici», una strenna del Mulino. Nel prediligere la forma-racconto il noto antichista si fa quasi piccino per non intralciare la meraviglia dei lettori. Ma lo studioso non abdica mai
di Andrea Capra


Un lungo viaggio di mare, avventuroso, nello spazio e nel tempo: così, fin dalle primissime pagine, Maurizio Bettini presenta Il grande racconto dei miti classici (il Mulino «Fuori collana», pp. 504, euro 48,00). Conosciuto e apprezzato come fine lettore della civiltà classica in chiave antropologica, Bettini sembra quasi volersi fare piccino di fronte alla meraviglia del mito, come nel timore che l’incanto del viaggio possa svanire sotto la lente indagatrice del ricercatore: «spero che verrò perdonato – ci dice mentre narra l’infanzia di Zeus – se interrompo di nuovo, solo per un momento, il filo del racconto, e punto l’obiettivo su questo fenomeno così singolare, ossia le somiglianze e le ripetizioni a distanza che caratterizzano spesso i racconti mitologici». E così il libro, fedele al titolo, è anzitutto un racconto che in trentotto capitoli ripercorre la storia del mondo: le origini del cosmo, gli dèi, gli eroi semidivini, i mostri del passato remoto… Il viaggio marino si conclude, significativamente nell’Egeo con Arianna e Teseo, alle soglie dell’età storica – non per caso, Plutarco rivendica l’eroe alla Storia e lo include nelle sue Vite parallele.
Nel prediligere la forma racconto, Bettini non fa che mettere in atto una convinzione espressa nel capitolo introduttivo («La voce del mito»): il mito-viaggio è un’opera collettiva che attraversa i secoli, e indagarne l’origine è impresa improba, un po’ come chiedersi «in che modo nasce, nell’uomo, l’impulso a immaginare o a raccontare». Il mito è anzitutto racconto, e alla stessa conclusione conduce anche la domanda insolubile che ne interroga l’essenza: cos’è il mito? È racconto appunto, ma anche – aggiunge subito Bettini – una forma di conoscenza che insegna e tramanda «una cultura, le sue regole e i suoi significati: di volta in volta può spiegare l’origine di un rituale (per quale motivo agli dèi si offrono il grasso e le ossa dell’animale?), dichiarare il perché di un costume (portare al dito un anello), dare ragione del canto di un uccello (l’usignolo canta ‘Itú! Itú!’ Perché…) o giocare con le regole del linguaggio, svelandone i meccanismi». Per poi ribadire, poco oltre, che «nello stesso tempo però il mito resta, semplicemente, racconto, e in certi casi somiglia addirittura alla fiaba».
Insomma: il mito è racconto (A), però è tante altre cose più complesse (B), però in fondo è racconto (A). Formulazione contorta se non contraddittoria, mal celata dalle grazie della scrittura? Non è così. A monte, ci sono gli innumerevoli tentativi novecenteschi, coraggiosi ma destinati all’insuccesso, di definire in modo univoco cosa sia il mito, un’impresa cui ormai gli studiosi sembrano aver rinunciato: ecco perché Bettini sceglie il racconto e si limita semmai a enumerare alcune funzioni del mito, che lo descrivono e commentano ma non possono approdare a una definizione conclusiva. A valle c’è il racconto stesso di Bettini, che riprende volentieri lo schema A-B-A: la narrazione (A), magari dopo una garbata presentazione di scuse, si interrompe (B) per far posto più o meno brevemente a osservazioni che illuminano la funzione extra-narrativa e latamente culturale del mito, per poi riprendere (A) il suo corso placido fino alla fine di una storia. Fine che è poi sempre al tempo stesso l’inizio o il richiamo di un’altra, perché il mito è «come una grande ‘rete’ fatta di maglie che si tengono fra loro, di rimandi incrociati, di collegamenti trasversali», attraverso un numero potenzialmente infinito di varianti. Anche qui Bettini solo con molta cautela, e per breve tempo, smette i panni del semplice narratore: se chi legge è spesso avvertito dell’esistenza di versioni alternative, e se un capitolo intero (il quarto) è dedicato alle varianti del mito, l’informazione non è però mai passata con l’austerità severa dello studioso, ma in modi a loro volta affabulatòri, un po’ alla maniera di Erodoto. Eppure queste interruzioni o digressioni, per quanto caute, sono importanti nell’economia del libro: fra le malie del racconto, il lettore guadagna pian piano uno sguardo complesso, tridimensionale. La scommessa sembra essere quella di portare chi legge a vedere il mito da dentro e da fuori, con occhi acuti ma incantati. E la scommessa è vinta anzitutto sul piano della scrittura, che è fresca e accattivante, e dissimula nel nitore del racconto le asperità della ricerca.
Un altro aspetto che contribuisce al successo dell’impresa è poi lo splendido apparato iconografico. Le tavole si susseguono fascinose, anche se – a pensarci bene – con un ritmo apparentemente capriccioso. Un esempio: ben undici figure, per complessive nove pagine di pura iconografia, illustrano la nascita di Afrodite nel capitolo «I figli di Urano e Gea, coppia smisurata». Si va da un rilievo del V secolo a.C. fino a un’immagine del 2010, passando per Tiziano e per Picasso. E gli altri? E l’indimenticabile Crono divoratore di figli dipinto da Goya? Le figure, poi, non vengono richiamate nel testo, non si integrano nella narrazione, non offrono un inquadramento storico. Incuria? No. Piuttosto, un’apertura di credito, dichiarata quasi casualmente dopo un bel tratto di navigazione: «se il lettore – gettando uno sguardo sulle immagini che corredano questo libro – terrà a mente che sta procedendo attraverso un gioco di variazioni, avrà la possibilità di apprezzare ancor di più la bellezza di queste antiche invenzioni narrative che ancora chiamiamo ‘miti’». Un controcanto, quindi, un percorso in parte alternativo che arricchisce di un’ulteriore dimensione lo sguardo del lettore. Aggiungerei che il buon fruitore di testo e figure potrà poi capire meglio un dialogo di Platone, assistere con maggiore gusto e profondità a una tragedia di Euripide, sentir vibrare più dolce e chiara la voce di un canto pindarico. Non ci è dato conoscere una forma pre-letteraria del mito, non esiste una ur-versione del racconto rispetto alla quale tutte le altre, quelle che troviamo nei testi e nella tradizione iconografica, possano definirsi variazioni. Eppure, nel proporre di volta in volta nuove variazioni sul tema, la letteratura e l’arte classica presuppongono sempre nel destinatario la conoscenza del mito. Questo libro offre a chi non li ha i migliori presupposti per capirle e goderle, e al tempo stesso li affina in chi, almeno in parte, già li possiede.

il manifesto Alias 27.12.15
Chiara Frugoni, ma quello di Giotto non è Francesco
Da Einaudi un ponderso volume sul «messaggio nascosto negli affreschi della Basilica Superiore di Assisi». Sulla base della biografia di Bonaventura la Chiesa mitigò la lezione francescana e orientò l’iconografia del ciclo assisiate: questa la chiave di lettura di Chiara Frugoni
di Marco Mascolo


La Basilica di San Francesco di Assisi, grandioso complesso cultuale che custodisce alcune delle testimonianze più alte di tutta l’arte occidentale, suscita da molto tempo attenzioni mirate da parte di studiosi di vario tipo, dagli storici dell’arte agli storici tout court. Le tracce del conflitto che, sin da quando san Francesco era ancora in vita, cominciò a dilaniare il nuovo Ordine si possono ancora ritrovare nella divisione fra le due chiese: la Superiore, destinata a ospitare i Capitoli generali dell’Ordine e i fedeli, votata quindi a un ruolo più ufficiale e più pubblico rispetto a quella Inferiore, con la sua atmosfera raccolta e adatta alla preghiera dei pellegrini. Il problema dell’appropriazione e dell’ufficializzazione di un messaggio tanto dirompente come quello del Poverello di Assisi avrebbe trovato una delle sue espressioni più alte proprio nei metri di superfici affrescate della Basilica Superiore. Molto più delle circolari papali, dei trattati vòlti a interpretare la vicenda di Francesco o delle biografie del santo, le immagini ebbero un ruolo straordinario nell’affermare e stabilire una sola, univoca immagine del santo.
Ora, in questa sua recente fatica, Chiara Frugoni affronta e dipana proprio questi problemi. Sin dal titolo, Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi (Einaudi, pp. 612, 222 illustrazioni, euro 80,00), appare chiaro lo scopo del ponderoso volume: quale fu il Francesco che si volle promuovere dalle pareti della Basilica assisiate? Il pauperista, ascetico frate che predicava la rinuncia ai beni terreni e tentava di reimpostare i rapporti tra la Chiesa di Roma e i fedeli? O un Francesco il cui messaggio era mitigato e in certo senso ‘addolcito’ rispetto al rigorismo iniziale, capace allora di essere assorbito all’interno di quella stessa Chiesa? La studiosa si era già concentrata, nel suo Francesco e l’invenzione delle stimmate (Einaudi, 1993), sulle vicende che portarono la Chiesa ad appropriarsi del messaggio, invero carico di elementi sovversivi tanto per l’autorità pontificia quanto per le sue gerarchie, dei frati dell’Ordine francescano. Un Ordine nuovo, la cui obbedienza era dovuta solo al sommo Pontefice e che usciva, quindi, dalla giurisdizione dei vescovi. Un dettaglio, questo, sul quale si scatenò una vera e propria battaglia a suon di testi e, come è facile aspettarsi, di immagini. Questo processo, lungo e accidentato, vide una prima sostanziale vittoria da parte di Roma nell’affermare, anno 1266, la Legenda Maior di san Bonaventura come l’unica biografia ufficiale del santo, con la conseguente distruzione delle altre biografie di Francesco, in primis quella di Tommaso da Celano. Proprio sulla base di Bonaventura, infatti, si sarebbe elaborato il programma iconografico delle storie del santo nella Basilica superiore, adornando in affresco le pareti della navata nel registro più basso, e quindi più vicino allo sguardo dei fedeli.
Ma Chiara Frugoni, questa volta, non si limita alle storie di san Francesco, e sottopone a un’analisi serrata e scrupolosa tutta la decorazione della chiesa, a cominciare dalla zona dove ebbero inizio i lavori, nel transetto destro, sino alle opere del giovanissimo Giotto. La studiosa rintraccia i rimandi contenuti nell’impaginato degli affreschi, indaga le ragioni delle rispondenze delle scene dipinte fra le diverse pareti della navata. La narrazione biblica procede dall’alto verso il basso: si inizia con la Creazione, si attraversano le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, infine si racconta la vicenda, trascorsa solamente cinquant’anni addietro, di san Francesco. Una storia, però, a quel punto bonificata e mitigata, perfettamente in linea con gli orientamenti e l’esegesi proposti da San Bonaventura nella sua Legenda Maior.
La struttura del libro della Frugoni, sostanzialmente bipartita, permette di avvicinare le pitture assisiati con una strumentazione non usuale. E moltissime sono le personalità che si avvicendano nelle pagine del libro – da dotti teologi come Gerardo da Borgo San Donnino o Guglielmo di Sant’Amore sino all’eretico Gioacchino da Fiore, senza trascurare papi e cardinali –, ma certo tra questi un ruolo specialissimo, opportunamente valorizzato, spetta a Girolamo d’Ascoli, già Ministro Generale dell’Ordine negli anni settanta del Duecento, poi divenuto papa come Niccolò IV, primo papa francescano ad ascendere al soglio di Pietro nel 1288. Dopo cinque capitoli, che seguono l’evolvere delle profonde controversie scatenatesi dentro e fuori l’Ordine francescano – e basti citare il bel capitolo, il terzo del volume, sulle lotte per accaparrarsi le cattedre all’Università di Parigi tra regolari, ossia quei frati che seguivano una regola, come i francescani e i domenicani, e secolari, che al contrario dei primi non afferivano a un ordine –, l’autrice conduce il lettore dentro la Basilica, e con pazienza si dedica all’analisi delle singole scene, dei loro significati, del loro senso, alla luce proprio degli strumenti di cui ha dotato il lettore nei capitoli precedenti. La necessità di ‘ammansire’ il messaggio del Poverello comportò l’attuazione da parte della Curia pontificia di una serie di contromisure che disinnescassero la forza, davvero incendiaria, del suo insegnamento. Il libro permette di calarsi all’interno di quei processi per cui le opere d’arte vengono investite di un potente messaggio ideologico e diventano foriere di valori ben precisi. Il corso del tempo e il passare dei secoli hanno edulcorato, come sempre accade, gli aspetti più scottanti di queste operazioni, ma le pagine della Frugoni, con i loro zoom storico-iconografici, permettono di recuperarle al vivo.
La studiosa avvalora poi la datazione ‘alta’ delle pitture murali, facendo rientrare l’impresa della decorazione della Basilica superiore negli ultimi anni del Duecento. Quest’idea, è bene sottolinearlo, era stata per primo sostenuta da Luciano Bellosi. Spetta a lui, infatti, rifacendosi a uno studio di Hans Belting del 1977 (che sarebbe davvero il caso di tradurre in italiano), l’aver ricondotto a questa datazione tutta la decorazione della Basilica, comprese le Storie di San Francesco, opera di Giotto. Bellosi aveva argomentato la sua intuizione con dovizia di particolari nel 1985 (tra l’altro, proprio quest’anno è stato ripubblicato il suo libro, La pecora di Giotto) e nel 1998.
Ma proprio su un problema di datazione, forse, ci sarebbe da discutere con le posizioni della Frugoni, quando, un po’ troppo nettamente, afferma che gli affreschi di Cimabue nella zona dell’abside e del transetto sarebbero opera degli anni settanta del Duecento, e non, come invece sostenuto da Bellosi, la cui posizione non è certo isolata, in anni non distanti dal papato di Niccolò IV, che regnò come pontefice dal 1288 al 1292. Al di là di certi aspetti, però, sui quali sarà necessario tornare con la dovuta ampiezza, la Frugoni riconosce – e questo è un elemento-cardine – la forte unitarietà del programma iconografico, la spinta a dotare la chiesa madre dell’Ordine di una decorazione all’altezza del prestigio del luogo, in linea con le intuizioni e le ricerche di Bellosi. Al netto di una lettura non facile ma di certo appassionante, il lettore accede a quel passato così lontano e può cogliere una serie di nuances che caratterizzavano il dibattito teologico di quegli anni attorno al problema, ad esempio, delle stigmate e di come trattare quel miracolo sbalorditivo concesso al solo san Francesco nella storia millenaria della Chiesa. Ma il dibattito assumeva anche connotati strettamente politici, in cui uno dei regnanti più potenti del mondo, il papa, vedeva fortemente minacciata la sua autorità da parte di Francesco e dei suoi seguaci. Moltissime sono le illustrazioni che accompagnano il testo e che permettono di seguire, soprattutto per la seconda parte del volume, i ragionamenti di Chiara Frugoni. Un libro che dovrebbe far riflettere, anche, su temi assai attuali eppure così malamente trattati, come il potere che le immagini rivestono nel loro uso ideologicamente orientato.