mercoledì 23 dicembre 2015

Corriere 2 3.12.15
Non chiamiamo più populista chi è deluso dall’Europa
di Massimo Nava


Molti storcono il naso se si dice che Front National, Podemos, 5 Stelle, Tzipras, Lega Nord e altri movimenti che avanzano nella vecchia Europa si assomigliano. Ha senso confondere orde xenofobe e antieuropee con nobili rivolte, ammantate di slogan di «sinistra»? Cosa hanno in comune l’estrema «destra» lepenista con la sollevazione civica e mediatica di un Grillo o di un Iglesias? Se ci si ferma al ritratto dei leader e alle radici, la risposta è ovvia. Ma se osserviamo da vicino l’elettorato, domande e bisogni che i movimenti esprimono, le cose stanno diversamente. Tanto più che i primi ad accumunare il «nemico» sono i partiti tradizionali e le ricorrenti analisi inclini a un giudizio sintetico e sprezzante : «populismo». Come se il populismo fosse il contrario della democrazia o sinonimo di demagogia. Ma così non si giudicano i leader, bensì l’elettorato che li esprime, senza affrontare cause del fenomeno e risposte possibili.
La prima considerazione dovrebbe essere il fatto che il «populismo» é la sola espressione che avanza in Europa, nonostante fenomeni di assenteismo elettorale e rigetto generalizzato della élites di governo. Se il consenso cresce bisognerà trovare la medicina adatta, ammesso che si tratti di malattia e non di proposte alternative.
La seconda è che l’erosione di voti danneggia più i partiti di sinistra che di destra. Sono giovani, operai, impiegati, disoccupati, pensionati, che guardano al «populismo» con motivazioni condivise : impoverimento, domande di sicurezza materiale e fisica, crisi del welfare, ripiegamento identitario che si traduce in bisogno di confini, regionali o nazionali, di frontiere invalicabili in stridente contraddizione con un mondo globalizzato.
La terza é che terrorismo, proliferazione dell’islamismo interno all’Europa e ondate migratorie sono problemi percepiti come un’unica minaccia, per quanto diverse siano le origini dei fenomeni.
Il linguaggio immediato della comunicazione non prevede memoria storica, così come i tempi lunghi dei meccanismi decisionali a livello nazionale e europeo non sono compresi da chi pretende risposte per la vita quotidiana : vissuta con difficoltà, diversa da come intere generazioni hanno sognato che fosse, illuse da un’idea di progresso inarrestabile, da ideali europei sempre meno raggiungibili, da un welfare incompatibile con le risorse pubbliche.
L’elettorato «populista» cresce perché ha deciso di non subire più il paradosso dell’ultimo decennio : l’Europa, l’area più progredita e più ricca del mondo, ma sempre più lontana dai bisogni dei cittadini, i quali non vorrebbero aggirarsi come i personaggi di Cechov, in un giardino dei ciliegi appassiti. L’elettorato «populista» cresce perché bombardato dal mantra dello «spread», percepito come indice dell’infelicità più che come regola dei conti pubblici, raramente come criterio di risanamento di privilegi e corruzione.
L’assenza di memoria storica accentua percezione negativa della realtà e ripiegamento di fronte alle minacce esterne, dal terrorismo, all’immigrazione, dai cambiamenti climatici al dumping commerciale.
Si può concludere che questo sia la conseguenza di settant’anni di pace e prosperità, di disabitudine al sacrificio, di rassicuranti negazioni dell’imprevisto, una guerra o una catastrofe naturale. Ma non basta ad arginare i fenomeni, né a costruire una nuova politica.
Di questo passo, come dimostrano le ultime elezioni, l’Europa è seriamente a rischio d’implosione. Fra i segnali più evidenti, l’ ostilità verso la Germania, depositaria del dogma dell’austerità, cresciuta dopo la sciagurata gestione della crisi greca. Prossimo appuntamento il referendum in Gran Bretagna. «Populisti» anche gli inglesi?