Corriere 15.12.15
Herta Müller, fuga da un regime che uccideva la gioia di vivere. Sotto il comunismo La futura vincitrice del Nobel fu perseguitata in Romania e perfino nell’esilio in Germania
di Isabella Bossi Fedrigotti
Le opere Herta Müller, La mia patria era un seme di mela (intervista con Angelika Klammer, trad. di Margherita Carbonaro, Feltrinelli, pp. 204, e 16). Tra i libri del Nobel 2009: L’uomo è un grande fagiano nel mondo (Feltrinelli), Il fiore rosso e il bastone edito da Keller Nel 2013 Feltrinelli ha ristampato il romanzo d’esordio della Müller, Bassure , mentre L’altalena del respiro (Feltrinelli) doveva ess ere scritto con Oskar Pastior (1927-2006)
È probabile che non pochi, pur intenzionati ad avventurarsi nei romanzi di Herta Müller perché attratti dai suoi temi o anche solo dalla sua fama di scrittrice da Nobel, si siano lasciati scoraggiare della sua non facile scrittura: fortemente poetica, tuttavia, a volte, davvero al limite dell’ermetismo. Si sono perdute, così, pagine straordinarie di storia personale, privata dell’autrice stessa, ma anche pubblica, politica del suo Paese, la Romania.
In loro soccorso viene ora La mia patria era un seme di mela, un libro che contiene una lunga intervista alla Müller, curata da Angelika Klammer, giornalista del settimanale tedesco «Spiegel» (Feltrinelli), e realizzata grazie a una serie di conversazioni avvenute a Berlino tra il 2013 e il 2014, nel corso delle quali la scrittrice si è raccontata a ruota libera e in termini perfettamente chiari. Dell’intervistatrice compare il nome soltanto in un discreto sottotitolo, in linea con l’intelligente discrezione delle domande, sempre assai brevi, che non intralciano, che non si sovrappongono, che lasciano tutto lo spazio disponibile alle risposte. Nessunissima ansia di protagonismo da parte della giornalista, e grande generosità da parte della scrittrice, che non si mette limiti, che ricorda e risponde per pagine e pagine.
Il risultato è un compatto racconto autobiografico — dall’infanzia in un minuscolo paese di campagna fino all’emigrazione in Germania alla fine degli anni Ottanta — nel quale ritroviamo le tracce e le trame di tutti i romanzi di Herta Müller; racconto che, però, va bene al di là della sua difficile vicenda personale per allargarsi a quelle della sua famiglia — il padre arruolato con i nazisti, la madre deportata in Russia — degli amici — lo scrittore Oskar Pastior, a sua volta finito in un lager sovietico — e del suo Paese ai tempi della dittatura di Ceausescu.
Di lei si sa che, appartenente all’antica minoranza sassone, fu per anni sorvegliata, vessata, minacciata, per essersi sempre rifiutata di spiare il gruppo di artisti e scrittori che frequentava. «Non è nel mio carattere», rispondeva facendo imbestialire l’inquisitore di turno. In cambio i servizi segreti la tormentarono perfino nell’esilio tedesco, già autrice famosa, pluritradotta e pluripremiata, mandandole, dalla Romania, Jenny, la sua amica del cuore, incaricata di rubarle le chiavi di casa, di modo che la potessero, anche lì, terrorizzare a piacere. La paura — ricorda la scrittrice — si lasciava dominare soltanto attraverso la scrittura. Scrittura senza intenzioni letterarie, dunque, almeno da principio, ma reazione alla paura e, forse ancora più, alla solitudine, effetto secondario ma molto intenzionale degli uomini del regime, cui bastava mettere in giro la voce che qualcuno era una spia per isolarlo all’istante e, magari, indurlo infine a trasformarsi davvero in delatore.
Herta è sola nel villaggio di campagna della sua infanzia esattamente come è sola, anni dopo, nella fabbrica di componenti meccaniche dove, per tormentarla, le è stata tolta la stanza, la scrivania e finanche la sedia, costringendola a lavorare seduta su un gradino del giroscale. Tranne, ogni tanto, l’amica del cuore, nessuno l’avvicinava perché è noto che ci si infetta anche solo a scambiare due parole con l’appestato; ed è in ricordo di quel tempo, delle chiacchiere sullo scalino assieme a Jenny, che fu felicissima di accoglierla, molti anni dopo, in casa sua in Germania: salvo poi scoprire le chiavi di casa sua ben nascoste in fondo alla valigia dell’ospite.
Paura e solitudine sono, dunque, i suoi pesanti castighi. Cui si aggiunge, terzo, la bruttezza, la diffusa, generale bruttezza di ogni cosa ai tempi del regime: brutte le case, brutte le vetrine dei negozi, brutti i mobili, brutti i vestiti, brutte le aiuole dei parchi, brutti i monumenti, brutti i manifesti, orribile perfino il cibo. Non casuale, bensì intenzionale, anche la bruttezza perché opprime l’animo, rende apatici e privi di pretese: questo voleva lo Stato, attentissimo a reprimere la gioia di vivere originata dalla bellezza che rende gli uomini spontanei e, perciò, pericolosamente imprevedibili.