martedì 15 dicembre 2015

Repubblica 15.12.15
Re Lear
Leggere Shakespeare ai tempi del terrorismo
Londra, 1605: un maxi-attentato sventato semina il caos
Volevano far saltare in aria il Parlamento con ben trentasei barili di polvere da sparo
È l’anno in cui nasce il capolavoro
di Siegmund Ginzeberg


Un attentato terroristico clamoroso che, seppur sventato all’ultimo momento, sconvolge una delle più grandi capitali del mondo. Popola gli incubi e le fantasie di tutta l’Europa. Scatena paura, anatemi, cacce ai complici e ispiratori, e ai simboli di un’altra religione, minoritaria nel paese. Sarà l’argomento del giorno per molto tempo. Ne parlano e ne scrivono tutti. Compreso William Shakespeare.
L’anno è il 1605. La città è Londra. I cospiratori volevano far saltare in aria il Parlamento riunito in seduta solenne il 5 novembre, con tutto il governo presente. Avevano affittato un appartamento nelle vicinanze. Avevano scavato un tunnel fino ai sotterranei della Camera dei Lord a Westminster ed erano riusciti ad ammassarvi ben 36 barili di polvere da sparo. I congiurati erano cattolici ultrà. Non dei disperati ma un gruppo di gentiluomini colti, guidati da sacerdoti della Santa romana Chiesa. Il bello è che ce l’avevano non con la protestante Elisabetta I, la regina che aveva fatto la guerra al Papa e alla Spagna cattolica, imprigionato e torturato come agenti del nemico preti e gesuiti, fatto decapitare la cattolica cugina Maria Stuart, ma con Giacomo I che le era succeduto sul trono e che era uno Stuart, e quindi molto più moderato, inizialmente portato a una riconciliazione coi cattolici.
I congiurati erano stati denunciati da una lettera anonima. Quello che doveva dare fuoco alle micce era Guido Fawkes, uno che aveva fatto esperienza militare nelle guerre dei Paesi bassi (la Siria, l’Iraq e l’Ucraina di quei tempi). Fu arrestato subito. Poi partì la caccia a quelli che erano fuggiti in altre parti d’Inghilterra nel vano tentativo di mettere in piedi una rivolta armata. Si diede molto rilievo alla scoperta di arsenali nascosti dove venivano tenute armi e soprattutto simboli dell’altra religione: “crocefissi, calici, e altri aggeggi per celebrare la messa (cattolica)”. Uno solo, un gesuita, un agente segreto del Papa, che era forse il capo della congiura, riuscì ad attraversare la Manica e rifugiarsi sul Continente. Gli altri furono ferocemente torturati perché confessassero, poi processati. Poi nel gennaio 1606 furono impiccati, poi decapitati, poi eviscerati, poi smembrati e squartati e infine bruciati in piazza.
La tremenda ironia della storia fa sì che ancora oggi a Londra si celebri ogni anno, con festa e fuochi d’artificio, il giorno in cui fu sventato il “Complotto delle polveri” (è un po’ il loro 4 o 14 luglio). E che allo stesso tempo Guy Fawkes, e la sua Maschera coi baffetti e il pizzo, siano diventati invece simbolo della protesta contro il potere e le sue macchinazioni.
Ai retroscena, ai postumi, e soprattutto all’impatto che l’avvenimento ebbe sulla psiche dei contemporanei, e sulla cultura dell’epoca, a partire dal suo massimo esponente, è dedicato buona parte di un libro fresco di stampa di James Shapiro, 1606: William Shakespeare and the Year of Lear (Faber & Faber 2015). Quello fu l’anno in cui Skakespeare completò la prima versione del Re Lear (e probabilmente scrisse anche il
Macbeth e mise in scena l’Antonio e Cleopatra). Fu per lui uno dei periodi più produttivi. Il nuovo re e sua moglie erano molto più interessati al teatro di quanto lo fosse stata Elisabetta. Assunsero la compagnia di Shakespeare a corte. Gli diedero una livrea rossa e uno stipendio. E in effetti ci sarebbero state più rappresentazioni di opere di Shakespeare nei tre anni di regno di Giacomo I che durante l’intero lunghissimo regno di Elisabetta. Ma la cosa più straordinaria è come Shakespeare sia riuscito a lavorare alle dipendenze del Re senza per questo divenirne servo.
Certo non poteva più permettersi battute come quella su Hotspur che «mi ammazza sei o sette dozzine di scozzesi a colazione » nella prima parte dell’Enrico IV. E neanche di contraddire apertamente le narrazioni ufficiali sulla politica corrente. Ma è quasi incredibile come sia riuscito a convogliare anche in quegli anni, un profondo sospetto sugli abusi del potere, l’orrore per gli orrori della sua epoca (di cui era testimone diretto) e, insieme, l’immancabile profonda prospezione nei meandri della natura umana.
Il Lear, indipendentemente dalle circostanze in cui è maturato e che vengono dottamente evocate in questo libro, è un’opera colossale che scava e intreccia gli aspetti più oscuri e reconditi del potere, della trasmissione del potere, del passaggio e dei conflitti tra generazioni, tra padri e figli, delle ambizioni, delle illusioni e delle delusioni umane. Se ne è scritto e discusso forse più di qualsiasi altra tragedia di Shakespeare. È stato interpretato, reinterpretato, riscritto in tutti i modi immaginabili. Shakespeare stesso ne fece due versioni diverse. Che si concludono pure in modo diverso. In una non si intravvede scampo. Nell’altra c’è un barlume, sia pure fioco, di speranza: «Voi ora governate questo regno e curate le ferite dello Stato”». In entrambe, il nuovo potente intervenuto a rimettere a posto le cose dice: «Al peso di questi tristi tempi si deve obbedire; dire quel che sentiamo, non quello che dovremmo dire. I vecchi hanno sofferto di più. Noi che giovani siamo, mai così tanto vedremo, né così tanto vivremo ». Non è solo fine della tragedia, è una profezia della fine del mondo. In qualche versione le figlie muoiono tutte, ma Lear sopravvive: torna il vecchio a raddrizzare le cose. Nella versione di Edward Bond (che risale agli anni Settanta, in questi giorni portata in scena da Lisa Ferlazzo Natoli al Teatro India di Roma), anziché morire di crepacuore stringendo la salma dell’unica figlia che non lo aveva tradito, a Lear sparano mentre sta cercando di picconare il Muro che lui stesso aveva iniziato a costruire.
Il testo di Bond è molto diverso da quello di Shakespeare. E questo lo rende in qualche modo più “datato” dell’originale, profetico se si vuole rispetto alla caduta del Muro di Berlino, ma più legato a conflitti ideologici del secolo scorso a cui poi sono subentrati altri conflitti. Eppure la bella regia della Natoli, che ha avuto il coraggio di accorciare Bond, e la bravura degli attori, rimediano egregiamente all’inconveniente. Abbonda la violenza: esecuzioni sommarie, stupri, occhi cavati dalle orbite, sgozzamenti, ferri da calza infilati nel cervello attraverso le orecchie, un’autopsia sanguinolenta. Forse troppo: ma questo è puro Bond, così come puro Shakespeare nell’anno del terrorismo, e anche puro notiziario di attualità quotidiana dei giorni nostri.