Repubblica 4.11.15
Martin Schulz.
“In Turchia la democrazia è sotto stress ma l’Europa deve trattare con Erdogan”
Il presidente dell’europarlamento: “La stampa libera è sempre più sola, però c’è stata un’alta partecipazione al voto. Dalla Merkel nessun assist al potere, non poteva andare ad Ankara dopo le elezioni. La crisi dei migranti richiede risposte urgenti”
intervista di Andrea Bonanni
BRUXELLES In Turchia la democrazia è sotto stress. Ma proprio per questo l’Europa deve continuare a trattare con Ankara. All’indomani delle elezioni che hanno visto il trionfo del partito di Erdogan, il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, insiste perchè il dialogo rimanga aperto.
Presidente Schulz, Erdogan ha stravinto le elezioni in Turchia dopo aver dato un ulteriore giro di vite sui diritti fondamentali e sulla libertà di informazione e dopo aver inasprito il confronto con la minoranza curda. Possiamo ancora parlare di un processo democratico nel Paese?
«Quando si parla di Turchia invito sempre a non sottovalutare la complessità del paese e della situazione: chi parla di fine della democrazia sbaglia così come chi nega che esistano problemi. Domenica abbiamo assistito a dati positivi, come l’altissima partecipazione e la continuità del pluralismo delle elezioni di giugno. L’opposizione stessa ha riconosciuto il dato inequivocabile della vittoria dell’Akp».
Tutto bene, allora?
«Non tutto. In Turchia assistiamo a una democrazia sotto stress. L’Akp di Erdogan è una formidabile macchina elettorale ma ha a disposizione un megafono mediatico che gli altri partiti non possiedono e la stampa libera è sempre più sola, come sottolineato anche dagli osservatori dell’Osce. La polarizzazione e la tensione, anche con la minoranza curda, sono aumentate negli ultimi cinque mesi. Ma anche all’interno dell’Akp bisogna saper cogliere le differenze. Per esempio il discorso conciliante del primo ministro Davutoglu dopo la vittoria, e il suo desiderio di unire più che dividere, dovrebbero essere i punti da cui ripartire».
Da Gaza all’Egitto, dall’Iran alla Libia, adesso in parte alla Turchia, quando le popolazioni musulmane vanno alle urne premiano formazioni poco o per nulla democratiche. Esiste un problema di compatibilità tra Islam e democrazia?
«Non c’è incompatibilità tra popolazioni a maggioranza musulmana e democrazia, purché vengano rispettati i principi dell’uguaglianza, della laicità, della tolleranza, della democrazia e dello stato di diritto. La stragrande maggioranza dei musulmani europei, per esempio, sottoscrive questi principi. Vicino alle coste italiane la Tunisia ha dimostrato quanto, attraverso l’unità nazionale e il desiderio di emancipazione, si possa arrivare a una sintesi virtuosa. Il problema della democrazia non è l’Islam moderato: sono le disuguaglianze, la mancanza di un’educazione universale, spesso la mancanza di unità interna del paese e le condizioni geopolitiche » Non crede che la visita della cancelliera Merkel a Erdogan alla vigilia delle elezioni sia stata un assist al presidente turco?
«La crisi dei rifugiati richiedeva risposte urgenti ed era una questione di stato. Erdogan è il capo di stato legittimo di un vicino strategico dell’Unione. Non si poteva aspettare la fine del periodo elettorale per affrontare un tema così urgente. E non credo che la visita di Merkel in Turchia abbia spostato voti a favore di Erdogan. Anch’io ho incontrato Erdogan prima delle elezioni durante la sua visita a Bruxelles. Tanto Erdogan quanto l’Unione non possono fare a meno di comunicare, per quanto l’Europa mantenga riserve sulle sue scelte politiche all’interno e all’esterno della Turchia».
Condivide l’idea di molti che sia meglio una Turchia stabile ma autoritaria piuttosto che una Turchia democratica ma potenzialmente instabile?
«L’Akp ha vinto democraticamente utilizzando però anche lo spauracchio della destabilizzazione. Questo non fa della Turchia un regime autoritario. Venendo io dalla Germania, nutro scetticismo nei confronti di chi dice che un governo di coalizione porta all’instabilità. Non c’è dilemma tra stabilità e democrazia. E’ vero il contrario: i regimi autoritari offrono una parvenza di stabilità, ma nel lungo termine sono destinati a fallire perché libertà e diritti avranno il sopravvento ».
Tra le condizioni che il governo turco pone all’Europa per frenare il flusso dei rifugiati c’è una accelerazione dei negoziati di adesione di Ankara alla Ue. Secondo lei, questa Turchia è pronta per entrare nell’Unione?
«Sono un sostenitore del dialogo e del processo di adesione. Credo che la mancanza di comunicazione rischi semplicemente di allontanarci e di non risolvere i problemi. È proprio grazie al negoziato che l’Unione può avere un impatto anche nelle questioni più delicate come la garanzia dello stato di diritto o la libertà della stampa. Quindi i negoziati sono benvenuti. Ma l’adesione è e deve rimanere in primo luogo un processo legato al merito dell’evoluzione delle riforme e dell’avvicinamento agli standard europei. E’ quindi prematuro parlare di adesione per la Turchia in questo momento».
Fino a che punto, secondo lei, bisogna cedere alle richieste turche? Meglio un’Europa della realpolitik che limita l’afflusso dei rifugiati a costo di compromessi ideali, o un’Europa intransigente sui principi ma invasa da milioni di profughi?
«Con la Turchia, e con gli altri paesi, non possiamo parlare solo di come limitare il flusso dei rifugiati, ma dobbiamo soprattutto trovare soluzioni congiunte al nocciolo del problema: la guerra in Siria. Per quanto riguarda la sua relazione con Ankara, e non solo, credo che l’Unione europea stia diventando sempre più cosciente del fatto che non può continuare ad essere soltanto una soft power che dispensa consigli e giudizi, ma che non ha un vero impatto o vera voce in capitolo quando si parla di geopolitica. Come disse Eyskens, non possiamo continuare ad essere un gigante economico, un nano politico e un verme militare».