mercoledì 4 novembre 2015

La Stampa 4.11.15
Erdogan, indispensabile ma illiberale
di Roberto Toscano


La vittoria di Erdogan è netta, e dalle urne emerge la possibilità di un governo stabile e capace di svolgere in modo efficace il proprio ruolo nel campo della sicurezza e dell’economia. La Nato potrà continuare a contare sul proprio tradizionale alleato nel suo sempre più critico scacchiere sud-orientale, mentre l’Unione Europea potrebbe, superando le note ostilità di alcuni dei suoi membri, rilanciare il discorso sul processo di adesione della Turchia. Nell’immediato, Ankara potrà dare il suo contributo a filtrare e rallentare quel flusso di profughi e migranti che tanta preoccupazione, e tante ripercussioni politiche, sta producendo nei Paesi Ue. Tutto vero, e si capisce perché sulle pagine di questo giornale Stefano Stefanini, mio «doppio collega» (prima in quarant’anni di diplomazia, oggi come collaboratori de La Stampa) definisca i risultati delle elezioni turche «una buona notizia».
Erdogan, scrive Stefanini, è «interlocutore indispensabile» non solo sui profughi ma anche sulla Siria. Ma è proprio questa attribuzione di «indispensabilità» a suggerire una mia riflessione che si discosta dall’analisi di Stefanini. Da un lato infatti, soprattutto in presenza di una personalità autoritaria come quella di Erdogan, l’essere considerato indispensabile corre il rischio di tradursi in una sensazione di arbitrio, se non impunità. Nostro alleato indispensabile, Erdogan ha appoggiato jihadisti di varie risme, compresi i più radicali, permettendo fra l’altro il libero transito di migliaia di «foreign fighters» che i servizi occidentali temono possano poi applicare nei Paesi di origine quanto appreso nei combattimenti in Siria e Iraq.
Nostro alleato indispensabile, sta dimostrando di avere della democrazia una visione illiberale, e in particolare di comportarsi nei confronti della libertà di stampa con crescente durezza repressiva.
Non è certo «colpa dell’Europa» se Erdogan vince le elezioni, ma non è possibile sottovalutare il significato politico della visita di Angela Merkel - una visita che, praticamente alla vigilia delle elezioni - ha costituito oggettivamente un avallo politico al Presidente turco.
Come europei, assieme agli americani, abbiamo una lunga e spesso disgraziata storia di rapporti con leaders «indispensabili». Era indispensabile, in un contesto di Guerra Fredda, lo Shah di Persia. Era indispensabile Gheddafi: per noi italiani in quanto «l’amico Mouammar» svolgeva il compito di fermare o quanto meno ridurre il flusso di sbarchi sulle nostre coste; per gli americani perché reprimeva gli islamisti; per tutti perché era sicuro fornitore di idrocarburi. Era indispensabile Mubarak, perché manteneva l’Egitto collegato con l’Occidente e lontano dal radicalismo islamista. Oggi è indispensabile Sisi, e cerchiamo di non pensare a quale possa essere il futuro orizzonte dell’Egitto. Persino Assad era, fino al 2011, indispensabile: non dimentichiamo i rapporti, buoni nella sostanza anche se non ostentati, che intratteneva con americani ed europei, contenti della stabilità dello Stato siriano e del fatto che garantisse lo status quo della frontiera con Israele sul Golan.
Gli «indispensabili» però tendono ad avere un enorme difetto. Con la loro politica di repressione, corruzione, nepotismo, inefficienza economica, non costruiscono consenso, ma si mantengono al potere grazie all’uso politico degli strumenti di controllo dello Stato, dall’economia alla politica alla sicurezza interna (lo «stato profondo»), e al soffocamento della società civile. La stabilità che garantiscono è autentica, ma spesso effimera. Di colpo, la sorpresa: possono entrare in crisi, possono essere rovesciati. A quel punto da indispensabili diventano reietti, infetti, e noi (americani ed europei) ci schieriamo con scarsa credibilità e spesso con risultati disastrosi con le forze che puntano a rovesciarli. Dopo aver puntato troppo a lungo sulla stabilità trascurando i nostri principi e i diritti di popolazioni oppresse da dirigenti che avalliamo ed appoggiamo, ci convertiamo da un giorno all’altro in paladini del cambiamento rivoluzionario, un cambiamento che in Paesi dalla fragile statualità e ancora più fragile società civile si traduce in collasso dello Stato e frammentazione settaria se non tribale. Oscilliamo cioè tra avallo a dirigenti autoritari e repressivi e connivenza con lo smantellamento dello Stato. Prima corresponsabili con la dittatura, poi con l’anarchia.
La Turchia non è certo né la Libia né la Siria. E’ un Paese avanzato sia economicamente sia culturalmente, un Paese dall’enorme potenziale, un Paese di cui possiamo continuare ad appoggiare - come noi italiani abbiamo sempre fatto - un cammino di avvicinamento all’Unione Europea. Ma il deteriorarsi della democrazia trasformata in regime plebiscitario da un leader illiberale e intollerante e il rischio di un riaccendersi e inasprirsi dello scontro armato con i curdi del Pkk potrebbero innescare una spirale in cui la stabilità garantita dal trionfo elettorale di Erdogan potrebbe trasformarsi in drammatica instabilità.
La Turchia deve rimanere un interlocutore privilegiato, ma se vogliamo accompagnarla verso un futuro migliore per i suoi cittadini e per noi stessi andrebbe evitato di dare carta bianca all’arbitrio e all’avventurismo politico senza per questo essere attratti dalla irresponsabile prospettiva del collasso di un governo che per ora non ha alternative. Dialogo critico, quindi, non avallo incondizionato. E soprattutto sottraendoci al ricatto della «ndispensabilità».
Non facile compito. Ma abbiamo strumenti sia politici sia economici, oltre alla prospettiva di un cammino verso l’adesione, per portarlo avanti. Abbiamo bisogno della Turchia, vogliamo la Turchia come alleato e partner - ma una Turchia in cui la democrazia non sia solo quella delle elezioni, ma delle libertà, del pluralismo e - va aggiunto - anche di una laicità compatibile, contro ogni dogma laicista, con la libera presenza della religione nello spazio pubblico, ma non con le pretese di egemonia sulla politica.